Calo delle nascite. I rischi di un Paese senza fiducia nel futuro

C’è qualcosa che non funziona in un paese che ogni anno batte in negativo il record di nascite dell’anno precedente e che perde sempre più giovani verso l’estero.

I dati più recenti dell’Istat sulle nascite dovrebbero preoccuparci seriamente, perché – sia guardando alle cause che alle conseguenze – ci dicono che stiamo smantellando le basi su cui ogni società fonda la speranza di un proprio futuro migliore. Il succedersi delle generazioni è l’elemento chiave della dinamica demografica e quindi della continuità del genere umano. Ogni generazione produce, nel corso del proprio corso di vita, beni materiali ed immateriali. Ma c’è un bene ancora più importante rispetto ai flussi economici, sociali e culturali intergenerazionali, si tratta, appunto, dalle nuove generazioni stesse. I membri delle nuove generazioni sono le pietre con le quali una comunità costruisce il proprio solido ponte tra l’oggi e il domani: si possono immaginare le merci più belle e preziose da trasportare, ma se il ponte rimane incompiuto, non potranno mai giungere ad alcuna desiderata destinazione futura.

C’è, allora, qualcosa che non funziona in un paese che ogni anno batte in negativo il record di nascite dell’anno precedente e che perde sempre più giovani verso l’estero. Nel 2015 sono nati in Italia 485 mila bambini. Gli aspetti negativi sono vari: è il valore più basso dall’unificazione ad oggi; il dato è continuamente negativo dal 2008, con perdita complessiva di 91 mila nati; per la prima volta siamo scesi sotto il mezzo milione, contro oltre un milione a metà anni Sessanta; anche le nascite da genitori stranieri sono in diminuzione; siamo uno dei paesi con più bassa natalità prima dei 30 anni; in continua crescita è anche il numero di donne che rinunciano del tutto ad avere figli.

I motivi sono vari, ma i due punti critici principali sono i giovani e le donne: le difficoltà che essi ed esse incontrano nella realizzazione dei loro progetti di vita frena sia il loro contributo alla crescita economica del paese, sia il rinnovo demografico. Per entrambe tali due categorie, in parte ovviamente sovrapposte, il tema centrale è il rapporto tra lavoro e famiglia, sia in termini di formazione delle unioni che di fecondità. L’Italia investe nella spesa pubblica per la famiglia un terzo in meno rispetto alla media europea. La differenza sta principalmente sul fronte dei servizi, sia per l’infanzia che per gli anziani non autosufficienti. Carente è anche la cultura aziendale rispetto alle politiche di conciliazione. Di conseguenza troppe donne lasciano l’occupazione dopo l’arrivo del primo figlio o rinunciano ad avere figli per non perdere il lavoro. Negli anni di crisi tutto questo si è inasprito perché l’attenzione al lavoro, alla sua ricerca spasmodica e al suo mantenimento, ha indotto a mettere in secondo piano tutte le altre scelte. La posticipazione, con il passare dell’età, rischia però di diventare rinuncia. Ecco allora che il paese del figlio unico sta diventando sempre di più il paese dei figli mancati, pur voluti. Come infatti spesso messo in luce, il numero medio desiderato di figli per donna è attorno a due, mentre il numero realizzato è a malapena un figlio ed un terzo.

Ma per trovarsi di fronte alle difficoltà di conciliazione bisogna prima avere un lavoro e aver formato una unione di coppia. Negli ultimi anni sempre più giovani tardano a realizzare tali tappe cruciali di ingresso nell’età adulta. Se le donne tra i 30 e i 40 anni si trovano schiacciate in difesa rinunciando ad avere un figlio in più, gli under 30 si trovano trincerati in difesa rinviando la conquista dell’autonomia dai genitori. Come ampiamente mostrato da varie ricerche, l’Italia è stata uno dei paesi meno in grado di evitare che in questo secolo la maggior flessibilità lavorativa scadesse in precarietà esistenziale, abbandonando di fatto i giovani a se stessi e all’aiuto delle famiglie. In carenza cronica di misure di welfare pubblico attivo, ci siamo sempre più trasformati in un paese in cui si è figli a tempo indeterminato.

Il punto di partenza, per rialzare la fecondità italiana ai livelli individualmente desiderati e collettivamente auspicati, è la considerazione che finché si rimane nella condizione di figli è difficile immaginarsi come padri e madri. Negli ultimi vent’anni la posticipazione dell’età di uscita dalla casa dei genitori ha avuto alla base fattori soprattutto economici. Tant’è che, a differenza del passato, oggi la permanenza nella famiglia di origine è maggiore nel Sud ed i motivi indicati sono soprattutto la disoccupazione, la mancata continuità di reddito e le remunerazioni insufficienti. Non a caso, secondo i dati appena pubblicati dall’Istat, le nascite sono in maggior frenata nelle regioni meridionali rispetto al resto del Paese.

Se vogliamo, quindi, tornare un paese che fa figli dobbiamo mettere innanzitutto i giovani nelle condizioni di uscire essi stessi dalla condizione di figli, per dare concreta realizzazione ai propri progetti professionali e di vita adulta.

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