Demografia. Una Europa senza figli. Servono 7 milioni di lavoratori nel 2030

Prima della transizione demografia il numero medio di figli per donna era attorno o superiore a 5, attualmente è meno della metà. La grande maggioranza dei paesi presenta oggi una fecondità pari o sotto la soglia di 2, quindi insufficiente a garantire il ricambio generazionale.

Benvenuti nell’era del rinnovo generazionale debole. Su scala globale la popolazione anziana è in continuo esuberante aumento mentre le nascite hanno smesso di correre. In gran parte del mondo sono, anzi, già in fase di arretramento. Prima della transizione demografia il numero medio di figli per donna era attorno o superiore a 5, attualmente è meno della metà. La grande maggioranza dei paesi presenta oggi una fecondità pari o sotto la soglia di 2, quindi insufficiente a garantire il ricambio generazionale. Dai timori per una fecondità troppo elevata, che porta ad una crescita sostenuta della popolazione, si sta passando alla preoccupazione per una fecondità troppo bassa che alimenta squilibri accentuati all’interno delle popolazioni.

Il caso più eclatante è quello della Cina che, dalla forte limitazione imposta con la politica del figlio unico, da qualche anno è passata al disperato impegno verso misure orientate ad incentivare la progressione delle coppie oltre il primogenito. La Cina, per la struttura per età fortemente compromessa, non ha più la possibilità di tornare demograficamente a crescere e riportarsi sopra l’India. La preoccupazione che muove il governo di Pechino è, pertanto, tutta sulle conseguenze che il ricambio demografico insufficiente ha sull’ulteriore peggioramento della struttura per età, in particolare su un rapporto tra anziani e lavoratori che rischia di diventare progressivamente insostenibile.

Nel futuro di questo secolo l’aumento della popolazione in età anziana è un dato di fatto ineludibile. Inoltre, la spesa pubblica per tale componente è difficilmente comprimibile. Una popolazione anziana lasciata in condizioni di fragilità e vulnerabilità porta a costi sanitari ancora maggiori, assieme a rischi di instabilità sociale ed esposizione a epidemie.

Se la componente anziana è destinata continuamente ad aumentare, la popolazione in età attiva non necessariamente è condannata alla riduzione. Nel caso, infatti, alla fine transizione la fecondità vada a stabilizzarsi attorno ai 2 figli per donna, si otterrebbe una piramide delle età con un vertice che progressivamente si alza (per l’aumento della longevità) ma con la base e la parte centrale che rimangono solide e stabili. Gli squilibri accentuati derivano, quindi, dal fatto che tutti i paesi arrivati alla fine della transizione mostrano una tendenza a scivolare sotto la soglia di 2. Per cercare di evitare che tali squilibri diventino insostenibili è necessario agire su tre linee interdipendenti.

La prima è quella della natalità. Il principio di base è fare in modo che l’arrivo di un figlio non peggiori troppo le condizioni economiche e l’organizzazione dei tempi di vita e di lavoro. Agire in questa direzione non porta in modo scontato a risollevare le nascite, ma aiuta a ridurre il gap tra numero di figli desiderato e realizzato. Inoltre, favorisce una maggior partecipazione femminile al mercato del lavoro, riduce la povertà infantile, migliora, in generale, la possibilità di investimento su crescita e formazione dei figli con ricadute sulla qualità delle nuove generazioni. Non mettere, invece, in atto politiche efficaci su questo fronte porta, certamente, a nascite in continua riduzione, ad aumento di diseguaglianze di genere, sociali e generazionali.

La seconda linea di azione è quella dell’immigrazione. Anche con una ripresa delle nascite gli effetti positivi sul mercato del lavoro si osserverebbero tra 20 e più anni. Da un lato serve oggi una risposta alle difficoltà di trovare lavoratori in molti settori, d’altro lato l’immigrazione aiuta anche a contrastare la riduzione della popolazione in età riproduttiva contribuendo quindi – in combinazione con le politiche della prima linea – all’aumento delle nascite. Non è un caso che il paese che negli ultimi quindici anni è riuscito maggiormente a invertire la tendenza negativa, la Germania, sia quello che in Europa nel decennio scorso ha maggiormente assorbito flussi di immigrazione con politiche mirate alla formazione e alle competenze necessarie per il proprio mercato del lavoro. Non è un caso, inoltre, che il Sud Italia, che meno attira immigrazione e più perde giovani, soffra maggiormente la crisi demografica rispetto al Nord del Paese.

La terza linea è quella di un uso più efficiente della popolazione in età attiva attraverso un miglioramento dell’ingresso e della valorizzazione di giovani e donne nel mondo del lavoro. Questo richiede di investire di più in formazione, transizione scuola-lavoro, conciliazione. Oltre all’effetto immediato di aumento dell’occupazione e della produttività, ne derivano anche ricadute sulla prima linea di azione perché si mettono giovani e donne maggiormente nella condizione di realizzarsi anche nei progetti di vita e familiari. Si ottiene anche un effetto positivo sulla seconda linea, ovvero sull’immigrazione di qualità: senza tali investimenti, infatti, peggiora ancor più la condizione delle donne straniere e dei giovani con background migratorio.

Serve, in definitiva e in modo pragmatico, un approccio sistemico che collochi le politiche familiari all’interno di una strategia più ampia di risposta alla transizione demografica, che metta in primo piano la quantità e la qualità di un adeguato rinnovo generazionale nei processi di sviluppo del sistema paese.

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