Il nuovo dei giovani oltre ogni crisi

A proposito di generazione Z, oggi gli adulti devono fare i conti con un tema cruciale per non scivolare nel già sentito o nella logica di far calare dall’alto consigli e soluzioni

Come sono gli attuali ventenni? A questa domanda, posta insistentemente in ogni ambito della vita sociale ed economica, esiste almeno una risposta certa: sono diversi da com’erano i ventenni di vent’anni fa. Certo, non basta questa come risposta, ma è un punto di partenza cruciale, imprescindibile. La consapevolezza che ogni nuova generazione è giovane a modo proprio non è scontata. Ce lo rivela il fatto che tutti (genitori, educatori, datori di lavoro, politici) hanno ben chiaro cosa vorrebbero che i giovani fossero e facessero, ma sempre meno le aspettative che hanno su di essi trovano conferma.

Rinnovo generazionale

Questo è ancor più vero nelle società moderne avanzate, che proiettano le nuove generazioni in un mondo sempre più complesso e in continuo mutamento. Le coordinate di riferimento trasmesse da una generazione alla successiva diventano rapidamente obsolete. Ciò che funzionava ieri non è detto che funzioni oggi e tantomeno domani. Questo significa che servono strumenti ancor più avanzati e continuamente aggiornati per capire il mondo che cambia e sentirsi parte attiva nel migliorarlo. Non bastano le competenze di base e nemmeno quelle avanzate. È necessario anche essere ben motivati, crescere in un contesto supportivo e che dà fiducia, che consente di sperimentare e sbagliare per poi fare ancor meglio. Il ruolo delle nuove generazioni non è quello di replicare ciò che facevano quelle precedenti alla stessa età, non è sostituire chi invecchia, ma è quello di farsi nuovi interpreti delle sfide delle trasformazioni del proprio tempo e portare la propria novità nelle soluzioni da proporre. È questo rinnovo generazionale quantitativo e qualitativo che consente di generare nuovo valore nei tempi nuovi.

Nel confronto con le generazioni precedenti i giovani del nuovo millennio si trovano, infatti, con molte più opzioni ma anche con molta più incertezza sulle implicazioni delle proprie scelte. Senza adeguati strumenti per leggere la realtà, farne esperienza positiva, orientarsi e definire le coordinate di riferimento, maggiore è il rischio di perdersi, di non andare incontro al futuro desiderato ma di scivolare in un presente con orizzonte sempre più ristretto (in cui crescono insicurezza e sfiducia).

Questa incertezza è inoltre stata accentuata dall’impatto di cinque crisi che hanno segnato il percorso di crescita della generazione Z, quanto meno nei Paesi più avanzati, dall’infanzia fino alle soglie dell’età adulta.

La prima è quella causata dagli attentati dell’11 settembre 2001, che ha aumentato l’insicurezza globale e reso meno liberi gli spostamenti tra Paesi. La seconda è la Grande recessione del 2008-2013, che ha rivelato in modo chiaro i limiti del modello economico di sviluppo e messo in luce la persistenza delle diseguaglianze. La terza è la Brexit che ha posto un freno al processo di integrazione e di consolidamento di una visione comune del progetto europeo. In particolare, la generazione Z è la prima, dal Secondo dopoguerra, a non crescere con l’idea di una Europa che si rafforza e allarga.

La quarta crisi è quella sanitaria causata dalla pandemia da Covid-19. Oltre a un mondo in difficoltà ad aprirsi a nuove opportunità proprie del nuovo secolo in cui la generazione Z è la prima ad appartenere per nascita, alcuni grandi rischi del passato che si pensava di aver superato o tenuto sotto controllo sono tornati a emergere, come appunto epidemie in grado di bloccare la vita sociale ed economica. Ma anche, ed è la quinta crisi, una guerra all’interno dell’Europa in grado di produrre flussi di profughi analoghi solo a quelli del secondo conflitto mondiale.

L’impatto della pandemia non ha solo inasprito fragilità e diseguaglianze, ma ha prodotto anche una discontinuità su significati e priorità, prima ancora che sui comportamenti, con esiti non scontati. Più in generale, è in corso un profondo mutamento, che la crisi sanitaria ha accelerato, sulle modalità di apprendimento e sul significato dato al proprio essere e agire nel mondo, alle modalità di partecipazione, alle condizioni per sentirsi valorizzati.

Uno stato di insofferenza

Quella che arriva alle nuove generazioni è, soprattutto, una forte richiesta a conformarsi a regole predefinite (di cui è sempre meno chiaro il senso) e a dare ciò che è chiesto (di cui è sempre meno chiaro il valore), in una realtà sempre più complessa, frammentata, in continua trasformazione. La pandemia ha fatto crescere l’insofferenza dei giovani verso questa condizione.

Come mostrano i dati del Rapporto giovani 2023 dell’Istituto G. Toniolo, la voglia di protagonismo positivo continua, in ogni caso, a essere molto forte. È però diventato meno facile e scontato intercettarla, aiutarla a emergere e a consolidarsi. Il segnale più evidente è quello dell’interpretazione e dell’azione rispetto a un’ulteriore crisi, quella ambientale. Una questione presente da tempo ma fatta propria dalla generazione Z rispetto all’urgenza posta e alle modalità per portarla al centro del dibattito pubblico e di sperimentazione di una azione collettiva.

Proprio lo sviluppo sostenibile è forse la sfida che consente (e costringe) maggiormente ad adottare una prospettiva che anticipa il futuro desiderato per mettere in discussione quanto si è fatto sinora e impegnando le scelte del presente. Se l’azione delle nuove generazioni è portata a scardinare rendite e finte sicurezze del passato, rispetto alle scelte responsabili del presente che migliorano il futuro, i giovani non vogliono sentirsi soli. Va ripensato assieme il modello sociale e di crescita, per portare il mondo più vicino possibile al posto in cui desiderano vivere.

Nel leggere le istanze che i giovani pongono, va considerato che i membri delle nuove generazioni presentano una triplice differenza rispetto a quelle più mature. La prima, più banale, è che si trovano in una fase diversa della vita, con specifiche preferenze e aspettative. La seconda, come abbiamo detto, è che sono giovani in modo diverso da come lo sono stati gli attuali adulti. La terza è che vogliono anche apparire ed essere diversi. Ed è per questo che funzionano sempre meno iniziative e progetti calati dall’alto senza averli coinvolti.

Vogliono soprattutto esserci dove le cose accadono, dove ci sono questioni considerate centrali per il proprio tempo, dove serve la loro spinta per superare limiti e storture di sistema. Lo si è visto recentemente nella mobilitazione spontanea a favore delle zone alluvionate, lo si riscontra sui temi dell’ambiente e dei diritti, lo si è osservato nella protesta per gli alti affitti universitari. L’elemento comune è il sentire una chiamata a farsi soggetti attivi in modo collettivo, nel migliorare una realtà critica con il proprio contributo distintivo, portando le proprie sensibilità e istanze.

Come “prendere parte”

Non esistono per i giovani scelte e adesioni scontate. È l’interesse verso l’esito atteso che porta le nuove generazioni a “prendere parte”. Ed è, poi, il riscontro che fornisce l’esperienza fatta che le porta poi a riconoscerne utilità e valore, rafforzando anche il senso di appartenenza. Vale, in generale, per il lavoro e le scelte professionali, per la partecipazione sociale e politica, oltre che per la scelta di avere un figlio.

Tutto questo, per evolvere nella direzione più virtuosa, ha bisogno di due condizioni. La prima è il rafforzamento della capacità decisionale da parte dei giovani, ovvero di rendere coerenti le proprie aspirazioni con le proprie effettive capacità e in relazione con ciò che la realtà offre. La seconda è che i luoghi nei quali i giovani possono diventare soggetti attivi e generativi siano attrattivi; questo non significa solo saper offrire un’esperienza positiva, ma essere disposti anche a mettersi in discussione con la novità che portano, in grado di riconoscere la specificità del contributo dei singoli e allo stesso tempo far sentire di essere parte di un processo che genera valore condiviso.

Si tratta di processi di cambiamento che complicano ancor di più i meccanismi, quantitativi e qualitativi, di confronto e incontro tra domanda e offerta (non solo nel mondo del lavoro). L’esito auspicato è che la debolezza demografica dei nuovi entranti possa favorire una crescente attenzione non solo rispetto a cosa possono portare nelle organizzazioni e aziende in termini di competenze tecniche ma, ancor prima, a come riconoscerne e valorizzarne le specificità antropologiche. Ciò significa dare più importanza, dal lato dell’offerta, a cosa sono portati a dare e a ciò che desiderano essere rispetto a ciò che, lato domanda, ci si aspetta debbano conformarsi a fare (troppo spesso, finora, adattandosi al ribasso).

La domanda da porsi, forse, non è tanto “come sono i giovani” ma “cosa possiamo aiutarli a diventare”.

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