La longevità è una chance, ma serve un welfare solido e funzionante

I dati recentemente pubblicati dall’Istat sulla natalità italiana risultano particolarmente preoccupanti perché vedono vincolato il nostro paese su livelli molto bassi senza alcun segnale di ripresa.

I dati recentemente pubblicati dall’Istat sulla natalità italiana risultano particolarmente preoccupanti perché vedono vincolato il nostro paese su livelli molto bassi senza alcun segnale di ripresa. Mostrano come la combinazione tra le difficoltà oggettive del presente e l’incertezza verso il futuro continui a bloccare la scelta di avere figli, con scarsa capacità delle politiche pubbliche di intervenire in modo efficace. L’Assegno unico e universale è uno strumento che va nella direzione giusta, ma la parte universale rimane molto debole e al di sotto delle migliori esperienze europee. Lo stesso vale per i congedi di paternità. Il potenziamento su tutto il territorio dei nidi, attraverso il PNRR, si confronta con difficoltà di implementazione proprio nelle aree che più ne hanno bisogno. Non c’è nessun paese con basso divario di genere nei tassi di occupazione e basso divario tra numero di figli desiderato e realizzato che non abbia investito in solide politiche di conciliazione. Non è un caso che l’Italia si trovi con la peggiore combinazione in Europa di tali due indicatori.

Il freno principale è però quello del debole ingresso delle nuove generazioni nel mondo del lavoro e nella vita attiva in generale. La prospettiva di stabilità di reddito e l’accesso ad una abitazione sono condizioni essenziali per non dipendere a lungo dai propri genitori, poter progettare una propria famiglia e diventare a propria volta genitori. Anche qui non è un caso che il nostro paese detenga sia il record di Neet (gli under 35 che non studiano e non lavorano), sia di età media più tardiva in cui si ha il primo figlio.

Condizioni ancora peggiori si osservano per i giovani del Sud Italia dove la crisi demografica è diventata ancora più accentuata, come mostra il recente Rapporto Istat “I giovani del Mezzogiorno: l’incerta transizione all’età adulta” (Focus, 12 ottobre 2023).

La longevità è una opportunità, la denatalità non è un destino. Dobbiamo partire da questa consapevolezza per capire la sfida che la transizione demografica pone alle società mature avanzate.

Il vivere a lungo è uno dei principali mutamenti positivi del mondo contemporaneo. Nessuno può essere felice di vivere in un territorio con alta mortalità infantile e rischi che si mantengono elevati nel percorso successivo. Rendere il pianeta in cui viviamo un posto sicuro per ciascun nuovo nato, con alta probabilità di attraversare tutte le stagioni della vita fino a quella anziana è un obiettivo a cui non possiamo rinunciare. Ma una volta innescato questo processo non esiste un punto predefinito di arrivo. Se una generazione guadagna anni di vita dopo i 70 anni, quella successiva vorrà aggiungere qualità a tali anni di vita e ciò la porterà ad espandere la durata oltre i 75, consegnando a quella successiva la sfida di trasformare la quantità in più in qualità. E così via. Questo significa che, da quanto la transizione demografica si è avviata, ogni generazione deve reinterpretare le età della vita, darle nuovo valore e significato.

Quindi la longevità va considerata un’opportunità. Ma per vivere bene e a lungo, serve anche un sistema di welfare solido, che funzioni bene, che metta le persone nella condizione di investire sulla qualità della propria esistenza. Le economie mature avanzate saranno in grado di rendere sostenibile tale investimento se, a fronte di una longevità che si espande, manterranno consistente l’apporto delle generazioni al centro della vita attiva, quelle su cui grava il maggior compito di finanziare e far funzionare il sistema di welfare. Deve essere chiaro che se un paese non riesce più a garantire il diritto di pensioni dignitose, di adeguato accesso a cura e assistenza, sarà sempre meno in grado di garantire anche tutte le altre voci della spesa sociale (formazione, politiche attive del lavoro, ricerca e sviluppo, politiche familiari).

Lo stesso voto degli anziani, elettoralmente sempre più preponderanti, può guardare favorevolmente a scelte di interesse più generale del paese se le condizioni di base per il loro benessere sono riconosciute. I dati di un’indagine di Osservatorio senior e AstraRicerche, rappresentativa della fascia tra i 60 e i 74 anni, evidenziano che tra le priorità per il Paese i rispondenti mettono al primo posto un sistema di salute pubblica efficiente, ma al secondo posto c’è il rafforzamento della condizione occupazionale delle nuove generazioni.

Impoverire, del resto, il contributo delle nuove generazioni alla forza lavoro potenziale, ovvero indebolire la popolazione in età attiva, è molto rischioso per tutti, tanto più in un paese, come il nostro, su cui grava già un enorme debito pubblico.

L’Italia si trova da lungo tempo tra i paesi con più bassa fecondità in Europa, con un numero medio di figli posizionato molto al di sotto del livello che consente un equilibrato ricambio tra generazioni. Una situazione che le economie mature avanzate occidentali cercano di evitare per non trovarsi con squilibri demografici ingestibili. Lo stesso Giappone, pur puntando molto sulle nuove tecnologie, considera la bassa natalità uno dei principali problemi per lo sviluppo e il benessere dei prossimi anni e decenni.

La denatalità non è un destino, ma a cosa andiamo incontro se la fecondità dovesse rimanere sui livelli attuali? Ad un avvitamento continuo verso il basso delle nascite. Venticinque anni fa ad una media di 1,24 figli per donna corrispondevano oltre 520 mila nascite. Non aver invertito in modo efficace la tendenza ha portato ad una riduzione delle potenziali madri. Di conseguenza oggi con analogo livello di fecondità le nascite sono meno di 400 mila. Senza risollevarsi da tale livello tra venticinque anni ci troveremmo a malapena con 320 mila nati, mezzo milione in meno rispetto ai 75enni. Non si tratta di un futuro distopico ma semplicemente dello scenario demografico più coerente con le dinamiche recenti del nostro paese.

Quello che serve per superare la crisi demografica è diventare un paese politicamente intelligente. Una politica intelligente, seguendo lo schema di “Allego ma non troppo” di Carlo M. Cipolla, è quella che mette nella condizione di realizzare ciò che Ego (il singolo) considera bene per sé e che genera ricadute positive per Alter (la collettività in generale). La scelta dei giovani di conquistare nei tempi e modi adeguati l’indipendenza dai propri genitori, formare una propria famiglia, essere attivi e realizzarsi nel mondo del lavoro, rafforza società, economia e demografia, oltre che favorire il benessere individuale. Lo stesso vale per la scelta combinata di lavorare e avere figli, maggiormente frenata nel nostro paese soprattutto sul versante femminile. Vale anche per la scelta di venire in Italia e trovare condizioni per il miglioramento della propria situazione personale partecipando al processo di sviluppo del territorio in cui si vive. Politiche di questo tipo vanno a vantaggio di tutti. L’intelligenza non è una risorsa che manca al nostro paese, ma saperla applicare all’interesse collettivo è una dote che ancora dobbiamo dimostrare di avere.

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