La scomparsa dei giovani. Come riempire il futuro in un paese che si svuota?

Nella popolazione italiana aumentano gli anziani e gli immigrati, eppure dal 2014 i residenti totali sono in continua riduzione. Il motivo è il fatto che il processo di degiovanimento è diventato più accentuato dell’invecchiamento e dei flussi di entrata. Il rinnovo generazionale non è più necessario nel XXI secolo o ha meccanismi diversi che non riusciamo a far funzionare? Alessandro Rosina prova a dare qualche risposta.

La demografia nell’epoca del “Pantalone corto da donna”

Sono molti i prodotti che se improvvisamente sparissero o diventassero sempre meno disponibili metterebbero in crisi un Paese. Per assurdo ipotizziamo di non avere più aerei, o non aver più telefoni, o non aver più computer, o non aver più farmaci da banco, sarebbe certo un disastro ma sopravviveremmo in qualche modo.

L’Istat nell’aggiornamento 2025 del paniere dei consumi, al fine di renderlo più rappresentativo all’evoluzione degli stili di vita, ha aggiunto “lo Speck (da banco), il Pantalone corto donna, la Lampada da soffitto, il Topper per materasso, la Camera d’aria per bicicletta, le Spazzole tergicristalli e il Cono gelato”. Se mancassero tali prodotti subiremmo certo un bel contraccolpo sul nostro benessere di cittadini nelle economie moderne avanzate.

C’è però un bene che conta, forse, più di tutti questi, senza il quale anche altri beni perdono di utilità e significato: le persone. Anche le persone vengono “prodotte” in qualche modo, attraverso il processo che porta chi è già in vita a generare, in una relazione di coppia, altra vita. Se ad un certo punto nessuno più decidesse di avere figli, prima ancora di arrivare all’estinzione ci si troverebbe con uno scenario tra i più distopici: la popolazione andrebbe a concentrarsi sempre più in età avanzata, con sempre più anziani in condizioni di fragilità e non autosufficienza, con sempre meno personale e risorse per fornire condizioni minime dignitose di vita.

Escludiamo che nessuno abbia figli, ma supponiamo che siano in pochi ad averli. La domanda che ci si può porre è: quanto pochi devono essere per creare una situazione di squilibrio difficile da gestire? Difficile dirlo, ma l’Italia è un caso interessante per valutarlo.

Nel perdere giovani ci perde il paese

La popolazione italiana è in continua diminuzione dal 2014. Da 60,3 milioni è scesa sotto 59 milioni nel 2024. Secondo l’Istat entro il 2050 gli abitanti nella penisola saranno meno di 55 milioni, compresi gli immigrati, come tappa di una riduzione che va a proseguire fino alla fine dell’orizzonte considerato.  Che gli italiani diminuiscano in sé potrebbe, però, non essere considerato un grave problema.

Nel frattempo andrà ad aumentare la popolazione anziana.  Le persone di 65 anni e oltre erano 10,3 milioni nel 2000, sono ora oltre 14,5 milioni e arriveranno ad essere più di 18 milioni a metà secolo. In buona sostanza questo è l’esito dell’aumento della longevità, che in sé non può essere considerato un problema ma una conquista positiva rispetto alle generazioni passate. Questa conquista è sostenibile, però, se funziona il patto generazionale che consente a chi oggi è anziano di ricevere una pensione, di fruire di adeguata cura e assistenza da parte delle generazioni successive.

Nel mondo che abbiamo lasciato alle spalle – con cambiamenti messi in moto sul finire del millennio scorso – i meccanismi di rinnovo e ricambio generazionale erano garantiti da un’abbondante componente giovanile che esercitava una pressione positiva sull’economia e sulla struttura sociale. Nel mondo che oggi dobbiamo gestire – come diventa sempre più chiaro via via che ci avventuriamo all’interno del XXI secolo – l’evidenza è quella di un numero medio di figli per donna che tende ovunque a scendere sotto il livello minimo di rimpiazzo generazionale. Questo mette in discussione la possibilità di un nuovo equilibrio strutturale alla fine della transizione demografica. Non tanto perché viviamo sempre più a lungo, ma perché ogni nuova generazione si trova ad essere quantitativamente rivista al ribasso rispetto a quelle precedenti.

Questo porta ad una crisi demografica? Non necessariamente. Se il numero medio di figli scende su livelli tali da poter comunque essere compensato da adeguati flussi migratori, la base demografica rimane solida. Se però il tasso di fecondità scende a livelli persistentemente molto bassi, anche una immigrazione consistente diventa via via sempre meno sufficiente a compensare gli squilibri interni.

Più che la denatalità in sé la questione da mettere al centro è allora quella del degiovanimento, ovvero la riduzione quantitativa delle nuove generazioni in misura da non riuscire a rigenerare e riqualificare la forza lavoro (Figure 1 e 2). Il processo di degiovanimento è la conseguenza combinata delle dinamiche della natalità e del saldo migratorio. I territori che vanno verso i maggiori squilibri non sono quelli in cui si vive più a lungo ma quelli in cui la bassa natalità e la fuoriuscita di giovani vanno a compromettere il ricambio generazionale. Tali realtà rischiano di avvitarsi sia in una trappola demografica che in una trappola di basso sviluppo. Il degiovanimento quantitativo sottrae sia potenziali genitori che potenziali lavoratori (alle aziende che vogliono competere nel mercato globale ma anche per le organizzazioni che presidiano nel territorio i servizi di welfare), con la conseguenza che ogni nuova generazione si trova con minor consistenza e meno favorevoli condizioni per ricevere e generare benessere rispetto a quella precedente.

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