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Diamo più valore alla scelta di fare figli

Nelle nostre società contemporanee esiste una dissonanza rispetto ai comportamenti demografici. Da un lato, a livello collettivo, il punto di riferimento per un’adeguata continuità tra generazioni, che non porti a squilibri che diventano progressivamente insostenibili, è la media di due figli per donna. D’altro lato, a livello individuale, il punto di riferimento è zero.

Detto in altri termini, una società con numero di figli che diminuisce in modo continuo e consistente (ovvero con una fecondità come quella italiana, molto sotto la media di 2) si trova a rimettere in discussione le condizioni di sviluppo e benessere precedenti per affrontare i costi dell’invecchiamento della popolazione (sempre meno giovani con carico crescente di anziani) e di un declino che teoricamente può portare all’estinzione.

Al contrario, a livello individuale, è il non avere figli che consente di continuare a mantenere i livelli di benessere materiale e poterli accrescere, mentre una nascita mette in discussione il bilancio familiare, modalità organizzative e gestione dei tempi. In sintesi, per una comunità è bene un rinnovo generazionale adeguato, mentre per il singolo la scelta razionale, in senso stretto, porterebbe a non avere figli.

Nel mondo contemporaneo – con copertura efficace e continua consentita dalla contraccezione – se non si prende una decisione esplicita, si rimane nella condizione infeconda. Per non avere figli non è necessario scegliere di non volerli, è sufficiente rimanere indecisi (pur anche desiderosi di averli) in attesa del momento adatto.

Questa scelta non necessariamente contraria, ma lasciata in sospeso, si trasforma poi da sola in rinuncia: gli anni passano, finché a un certo punto, soprattutto sul versante femminile, ci si trova a prendere semplicemente atto che ormai è troppo tardi. Più che in passato è necessario, allora, che tale scelta sia in primo luogo sostenuta da una attribuzione esplicita di valore nella comunità di riferimento in coerenza con condizioni oggettive che favoriscano una realizzazione integrale della persona in ottica generativa.

Supponiamo che due Paesi presentino entrambi un numero desiderato di figli mediamente attorno a due e che abbiano la stessa proporzione di persone in età riproduttiva nei seguenti tre gruppi: 20% esplicitamente non interessati ad avere figli, 20% fortemente convinti di volerli (a qualsiasi condizione), 60% di indecisi (positivamente orientati ad averli ma valutando le condizioni adatte). Supponiamo, inoltre, che nel primo Paese si mettano in atto politiche efficaci che consentano di limitare il costo economico e le complicazioni organizzative e di conciliazione con l’arrivo dei figli. Facendo così in modo che il piacere di averli, l’arricchimento nella dimensione simbolica e il benessere relazionale diventino prevalenti rispetto alle difficoltà oggettive.

In termini numerici, il primo e il secondo gruppo rimarrebbero comunque fermi sulle proprie posizioni (rispettivamente 0 e 3 figli), ma il terzo verrebbe messo nelle condizioni di averne mediamente due. Nel complesso si ottiene una media di 1,8 figli per donna, valore che si avvicina al dato francese.

Supponiamo che, invece, nel secondo Paese tali politiche siano carenti e inefficaci. Non cambierebbe nulla per il primo e il terzo gruppo – dove la scelta (in direzione opposta) è già autonomamente orientata – ma il secondo gruppo, trovando un contesto meno favorevole, andrebbe ad abbassare a uno la propria fecondità. In tal caso, si ottiene un numero medio di figli per donna pari a 1,2, vicino al dato italiano.

Le politiche pubbliche e il welfare di comunità sono un elemento importante non solo di supporto ma anche di attribuzione di valore delle scelte generative. Detto in altri termini, le politiche familiari senza una riscoperta aggiornata del senso e del valore della maternità e della paternità (che rende più attrattivi tali ruoli) hanno poca efficacia.

Così come è altrettanto illusorio pretendere che cresca l’attrattività in un contesto che abbandona i giovani e le famiglie a sé stesse. Sono fronti che vanno aiutati ad avanzare assieme, in coerenza con quanto emerso nelle testimonianze delle ragazze ventenni raccolte nei giorni scorsi su queste pagine. Perché, allora, dobbiamo continuare a mantenere il Paese ostaggio della contrapposizione tra chi pensa che le donne debbano considerare la maternità come propria missione principale, anche a scapito di tutto il resto, e chi pensa che la scelta di non avere figli sia la migliore dimostrazione femminile di libertà di realizzazione?

È davvero difficile convergere sul fatto che chi desidera avere figli in Italia debba essere messa (e messo) – all’interno di una sfera ampia di realizzazione personale – nelle migliori condizioni di poterli veder crescere con adeguate prospettive di sicurezza, salute, formazione e benessere? Uniamoci su questo, come obiettivo condiviso, e avremo un Paese migliore dove sarà anche più cool essere madri e padri.

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Una manovra attenta alle famiglie ma debole nel favorire un’inversione di tendenza delle nascite

(di Alessandro Rosina e Chiara Saraceno)

Il disegno di Legge di Bilancio approvato il 16 ottobre dal Consiglio dei Ministri prevede circa un miliardo di euro destinati a misure a favore della famiglia, in particolare a sostegno delle scelte positive di natalità. Non è poco se l’idea è quella di dare un segnale a favore delle coppie con figli, non è abbastanza se l’obiettivo è sostenere un solido processo di ripresa delle nascite. Per il livello molto basso del numero medio di figli per donna e la struttura per età italiana squilibrata a sfavore delle età riproduttive, un’inversione di tendenza è possibile solo allineando le politiche familiari, di genere e generazionali italiane alle migliori esperienze europee. Anche dopo gli interventi previsti dalla manovra rimaniamo molto lontani da tale obiettivo. Servirebbe quindi un impegno maggiore in termini di risorse destinate, dato che nel tempo la crisi demografica è andata ad aggravarsi.

Riguardo al merito delle singole misure, ciascuna tocca punti importanti da migliorare, ma con due limiti di impostazione: quello di occuparsi del percorso riproduttivo saltando il primo figlio e quello di affrontare la conciliazione (tra lavoro e famiglia) lasciando debole la condivisione (tra madri e padri).

L’importanza di iniziare bene con il primo figlio

In particolare, è previsto un rafforzamento del “bonus asilo nido” che mira ad andare verso la gratuità, a partire dalle famiglie meno abbienti: obbiettivo condivisibile, ma non si capisce perché solo dal secondo figlio in poi. Inoltre il problema dei nidi in Italia non è solo il loro costo per le famiglie, ma la loro mancanza. Anche tenendo conto dei nidi privati, il cui costo non è calmierato e diversificato in base all’ISEE, come avviene per i nidi pubblici e convenzionati, solo un bambino su tre ha teoricamente un posto al nido a livello nazionale, una proporzione che nel Mezzogiorno diventa uno su dieci.

Bene, anche, favorire le madri che lavorano con incentivi all’assunzione, a cui si aggiunge la proposta di decontribuzione che rafforza la busta paga. Ma anche qui dal secondo figlio in poi e in modo strutturale solo a partire dal terzo figlio, una situazione che riguarda una frazione piccolissima di madri lavoratrici, dato che le madri vengono spesso scoraggiate dal rimanere nel mercato del lavoro già dal primo figlio.

Il freno maggiore in Italia nel processo di formazione della famiglia è costituito dalle difficoltà che incontrano le nuove generazioni se desiderano diventare genitori. Non a caso l’Italia è uno dei paesi in Europa con più bassa fecondità prima dei 30 anni e con maggior posticipazione dell’arrivo del primo figlio. Come mostrano i dati Istat, negli ultimi quindici anni il rischio di povertà ha colpito soprattutto le coppie più giovani con figli (circa il doppio rispetto alle famiglie di over 65). Senza politiche che rafforzino il passaggio cruciale dalla condizione di figlio dipendente dai genitori a persona autonoma in grado di assumere responsabilità genitoriali, anche tutto il resto del percorso rimane debole. L’incertezza che grava su tale fase deve trovare risposta con politiche abitative, sostegno economico alla decisione di avere il primo figlio, certezza di poter ottenere un posto al nido e senza costi gravosi. Se si vuole favorire la possibilità di avvicinare il numero medio di figli realizzati con quello desiderato, aiutare le coppie ad aggiungere il secondo figlio ha ridotta efficacia se permangono le difficoltà sul primo.

L’importanza di tenere assieme conciliazione e condivisione

Le proposte contenute del disegno della manovra tendono inoltre a rafforzare il ruolo materno nelle responsabilità e carico di cura verso i figli, lasciando più marginale il ruolo dei padri.  Le esperienze in Europa di miglioramento insieme dell’occupazione femminile e della fecondità sono quelle che promuovono un coinvolgimento dei padri. Proseguendo quanto già fatto con la legge di stabilità del 2023, quando si è introdotta una indennità dell’80% (invece del 30%) per il primo mese di congedo parentale, il Governo intende proseguire in questa direzione offrendo un’indennità del 60% per il secondo mese. Lascia invece invariato a dieci giorni il congedo di paternità, pagato al 100%. E’   una scelta che non va nella direzione di riequilibrare le responsabilità di cura tra madri e padri, sia perché il congedo parentale è opzionale, mentre quello di paternità è obbligatorio, sia perché questo è totalmente indennizzato. Se si vuole che i padri assumano responsabilità di cura per un tempo ragionevole, è più efficace agire sul congedo di paternità. Risulta difficile superare le resistenze dei datori di lavoro che tendono ad interpretare la domanda di congedo parentale come scarso impegno verso l’azienda. Estendere il congedo obbligatorio di paternità avrebbe più effetto. Prendere un congedo dal lavoro quando nasce un figlio dovrebbe diventare la normalità non solo per le madri ma anche per i padri. Come molti studi evidenziano questo non diminuisce solo la quantità del carico di cura femminile,  ma consolida soprattutto la relazione di attaccamento tra padre e figli, aiutando inoltre a sviluppare codici di cura maschili. Quando più la nascita del primo figlio viene vissuta come esperienza positiva per tutti sul versante relazionale e non negativa su quello lavorativo, tanto più viene presa in considerazione la possibilità di averne altri.

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Un paese per vecchi: l’Italia di fronte alla sua crisi demografica

La demografia è una delle grandi forze di cambiamento del nostro tempo. Il suo ruolo è stato a lungo sottovalutato perché nel passato la popolazione tendeva a crescere molto lentamente e a mantenere una struttura stabile. Oggi non è più così come conseguenza della Transizione demografica, ovvero il grande processo di cambiamento che ha progressivamente ridotto gli elevati rischi di mortalità del passato e reso del tutto normale per un nato attraversare tutte le fasi della vita fino all’età anziana. La durata media di vita, che nel mondo pre-industriale difficilmente, anche nei contesti più favorevoli, superava i 35 anni, si è via via allungata. A metà del secolo scorso era arrivata a superare i 50 anni su scala globale, per poi proseguire fino ai 73 anni di oggi (ma si sale sopra gli 80 nei paesi più ricchi).

I tre fronti su cui agire la sfida demografica

Non si possono discutere le strategie competitive e analizzare gli scenari geopolitici, economici, tecnologici e sociali ignorando la sfida che pone la demografia. Una chiara testimonianza di questa consapevolezza arriva dal Forum Ambrosetti, in corso in questi giorni a Cernobbio, dove il tema è messo in programma e con l’occasione viene anche presentato un esteso report dal titolo “Rinascita Italia. Come invertire il trend demografico a beneficio del futuro del Paese”.

Il report parte dal riconoscimento che “Il fenomeno della decrescita demografica, seppur ampiamente dibattuto, non sembra intraprendere ancora una concreta strada verso una sua soluzione. Il rischio che il Paese corre non è da sottovalutare, sia da un punto di vista sociale che culturale ed economico”.

L’umanità al tempo della crisi del rinnovo generazionale

L’Umanità sta attraversando una fase critica rispetto ai meccanismi di rinnovo generazionale. Per la prima volta nella sua lunga storia la capacità di darsi continuità nel tempo è messa a rischio non tanto da fattori esogeni (elementi di costrizione esterna che comprimono la sopravvivenza dei suoi membri o la possibilità di formare unioni) ma da fattori endogeni legati all’esercizio delle scelte delle persone e alle condizioni che trovano nella società in cui vivono.

La popolazione non è una entità astratta. E’ un insieme di storie di vita in relazione tra di loro e in continua tensione con le sfide del proprio tempo. La popolazione possiamo considerarla come il grande libro che contiene tali storie. Ciascuna generazione aggiunge il proprio capitolo e prima di chiuderlo predispone le pagine bianche che ospiteranno le vicende di quella successiva.

Per gran parte della storia dell’umanità l’aggiunta di nuove pagine è avvenuta in modo del tutto spontaneo e scontato. Le persone comunemente non si ponevano la questione del “quando” avere una gravidanza e a “quanti” bambini fermarsi. La condizione comune era quella di formare un’unione di coppia e poi i figli semplicemente arrivavano (e ne arrivavano tanti quanti ne arrivavano).

Oggi non è più così. I mutamenti legati al processo di Transizione demografica ci hanno fatto entrare nell’era della scelta di quanti figli avere e quando averli. La domanda di aver meno figli ha portato poi allo sviluppo di strumenti efficaci (la contraccezione moderna) per ridurne il numero.

La prima fase di riduzione della fecondità rispetto agli elevati valori del passato è avvenuta “per sottrazione”: la norma era avere figli e la scelta che veniva esercitata era quella di averne di meno, con un assestamento verso il basso guidato dai ceti più istruiti. E’ in questa fase che il numero di figli desiderato si è assestato attorno a due.

Si è poi entrati in una nuova fase, in cui il numero realizzato è sceso sistematicamente sotto. Ciò è avvenuto come conseguenza di un cambiamento delle condizioni stesse del processo decisionale. Se in passato una donna come condizione di base era feconda e la contraccezione interveniva in modo mirato per limitare le nascite, da poche generazioni la situazione si è per la prima volta nella storia umana ribaltata. La condizione comune è diventata quella di non essere feconda, attraverso una copertura contraccettiva di fatto continua, che viene sospesa se si decide di avere dei figli.

Nel mondo in cui oggi viviamo tale scelta, quindi, oltre che “non scontata” richiede di essere esercitata “in aggiunta” (non più in sottrazione). Detto in altre parole: se in passato il non scegliere portava ad accettare la condizione di avere figli (averne quanti naturalmente ne arrivavano), oggi la non-scelta lascia nella condizione di non averne nessuno. Non serve, pertanto, una esplicita rinuncia, è sufficiente rimanere nello stato di non-scelta per deprimere la fecondità. E’, appunto, in questa nuova fase che numero di figli è sceso sotto il numero desiderato ma anche sotto la soglia di equilibrio nel rinnovo generazionale.

Va considerato senz’altro in modo positivo il fatto che l’avere figli sia oggi una scelta consapevole. Ma questo solleva la cruciale questione irrisolta di cosa significa oggi per noi tale scelta. Ci sono alcune cose che facciamo e diamo per scontato fare senza chiederci costi e benefici, come era per le nascite in passato e come vale oggi per prendersi cura di un anziano genitore fragile. Ci sono altre cose che facciamo valutando preferenze e soppesando costi e benefici, come l’acquisto di una casa o una nuova auto. Alcune cose vanno assunte come obbligo per il buon funzionamento della società di cui facciamo parte, come le tasse. Avere figli non rientra in nessuna di queste situazioni, ma alla base c’è qualcosa di più profondo che chiama in causa meccanismi di attribuzione di senso e valore. Meccanismi che riguardano la sfera personale ma che interagiscono con il clima sociale e il contesto culturale nel quale le persone vivono.

Oggi, per la maggioranza degli uomini e delle donne, avere figli è, appunto, una scelta non scontata che si realizza come espressione concreta di un desiderio (di sentirsi parte attiva di un mondo che continua dopo di sé) che deve trovare le condizioni adatte per potersi pienamente realizzare. Più che in passato è necessario, quindi, che sia favorita e sostenuta da un riconoscimento esplicito di valore nella comunità di riferimento, oltre che da condizioni oggettive che consentano una integrazione positiva con le varie dimensioni della realizzazione personale e professionale. I dati dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo evidenziano che le nuove generazioni europee, in ampia maggioranza, desiderano dei figli ma si sentono anche libere di non averne. Non sentono di doverli avere per un imperativo biologico o morale, ma hanno il desiderio di condividere con essi il piacere di vederli crescere in un contesto di sicurezza, con adeguate cure e benessere.

Proprio per questi motivi la scelta di avere un figlio, nella complessità delle società moderne avanzate, è diventata l’indicatore più sensibile rispetto alla combinazione tra condizioni del presente e attese verso il futuro. Dove entrambe sono positive, la scelta di aggiungere vita alla propria vita più facilmente può essere realizzata. Dove, invece, l’incertezza verso il futuro è alta e si combina con difficoltà oggettive del presente e carenza di politiche pubbliche (ad esempio mancano i servizi per l’infanzia, la conciliazione in ambito lavorativo, ci si scontra con complicazioni organizzative e con rischio di impoverimento economico), allora tale scelta, anche quando desiderata, viene lasciata in sospeso, ma intanto il tempo passa e via via diventa implicitamente una rinuncia.

I meccanismi del processo decisionale che hanno reso non scontata la scelta riproduttiva fanno sì che nelle società mature avanzate si ottiene una riduzione delle nascite anche senza disincentivare le persone ad avere figli, è sufficiente non favorire il crearsi e consolidarsi di condizioni adatte. Non è solo il mondo occidentale, ma sempre più anche altri paesi (compresa la Cina) si trovano in questa condizione.

C’è, quindi, una transizione demografica in corso in tutto il mondo, anticipata dalle economie più avanzate, che non sta tendendo verso un punto di equilibrio: la longevità va ad allungarsi sempre di più e la fecondità va ovunque a posizionarsi sotto la soglia minima di rimpiazzo tra generazioni.

All’interno di questo mutamento di fondo c’è un’ampia differenza all’interno della stessa Europa. Paesi come Francia e Svezia hanno evitato che la fecondità scendesse troppo sotto i due figli per donna con politiche familiari solide e continue nel tempo. Paesi, come la Germania, dopo essere scesi su valori molto bassi, analoghi all’Italia, sono riusciti, con misure di sostegno economico e di conciliazione tra vita e lavoro, a risalire sopra la media europea (che comunque arriva a malapena a 1,5).

Questo porta a due considerazioni che sollevavano due ordini di questioni. La prima è che le politiche familiare e le misure di sostegno alle famiglie con figli fanno la differenza. Spiegano, ad esempio, l’ampia variabilità tra 1,24 del tasso italiano contro oltre 1,8 figli della Francia. Serve però un ampio consenso per realizzarle. La seconda è che tali misure, pur indispensabili, non bastano. Anche dove, nel mondo occidentale, si investe con continuità su politiche ben mirate e si destina alle misure di sostegno alla genitorialità una parte generosa del prodotto interno lordo, si fa fatica a raggiungere e mantenere il livello minimo di equilibrio tra generazioni. C’è qualcos’altro che manca e che è in attesa di risposta.

Il XXI secolo porta in un mondo nel quale chiedersi cosa sta alla base della scelta di avere un figlio (quale significato individuale e collettivo le viene attribuito) è una domanda che in modo rinnovato ogni nuova generazione si trova a porsi e alla quale deve una propria risposta, perché sta al centro della questione di quale società si vuole costruire, con quali prospettive e quali valori di riferimento.