Tagged: lavoro

I tre fronti su cui agire la sfida demografica

Non si possono discutere le strategie competitive e analizzare gli scenari geopolitici, economici, tecnologici e sociali ignorando la sfida che pone la demografia. Una chiara testimonianza di questa consapevolezza arriva dal Forum Ambrosetti, in corso in questi giorni a Cernobbio, dove il tema è messo in programma e con l’occasione viene anche presentato un esteso report dal titolo “Rinascita Italia. Come invertire il trend demografico a beneficio del futuro del Paese”.

Il report parte dal riconoscimento che “Il fenomeno della decrescita demografica, seppur ampiamente dibattuto, non sembra intraprendere ancora una concreta strada verso una sua soluzione. Il rischio che il Paese corre non è da sottovalutare, sia da un punto di vista sociale che culturale ed economico”.

Troppi squilibri tra generazioni, occorrono case servizi e lavoro

L’Italia è uno dei paesi da più lungo tempo in crisi demografica, ovvero in forte deficit rispetto alla capacità di garantire un ricambio generazionale equilibrato nella popolazione (e, conseguentemente, nei processi sociali e produttivi).

La fecondità italiana è precipitata da valori superiori a due figli in media per donna (soglia di rimpiazzo tra generazioni) a metà degli anni Settanta del secolo scorso, a meno di 1,5 figli prima della metà degli anni Ottanta. Non è poi più risalita sopra tale valore. Questo ha profondamente alterato la struttura per età, con un progressivo sbilanciamento negativo verso le età più giovani. Nella prima metà degli anni Novanta siamo diventati il primo paese al mondo in cui la popolazione inferiore ai 15 anni è scesa sotto quella di chi ha 65 anni e oltre. Successivamente siamo diventati il paese con più bassa incidenza di under 35 in Europa, entrando quindi, in modo più accentuato delle altre economie mature avanzate, in una fase di inedita e marcata riduzione delle coorti entranti in età lavorativa (oltre che riproduttiva).

Queste dinamiche hanno portato all’esaurimento della capacità endogena di crescita della popolazione italiana, entrata dal 2014 in fase di declino, con un saldo naturale negativo non più compensato nemmeno dall’immigrazione. La questione che ora si pone per l’Italia non è più far tornare a crescere la popolazione (destinata in ogni caso a diminuire), ma quanto lasciar aumentare gli squilibri interni tra generazioni. Il rischio maggiore è ora quello di superare il punto di non ritorno anche rispetto alla curva delle nascite.

Nelle “Considerazioni finali”, presentate il 31 maggio in occasione della pubblicazione della Relazione annuale sul 2022, il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha indicato la crisi demografica come una delle maggiori debolezza di fondo del Paese. Ha, in particolare, indicato l’immigrazione come uno dei fattori principali per mitigare la riduzione della forza lavoro potenziale, conseguenza della persistente denatalità. Per quanto rilevante sia e possa continuare ad essere il contributo dei flussi migratori, se la natalità continua a diminuire tali ingressi saranno sempre più insufficienti a colmare gli squilibri strutturali crescenti nel rapporto tra popolazione anziana e in età lavorativa. Se, da un lato, l’immigrazione è un fattore rilevante per rispondere agli squilibri demografici e ai fabbisogni delle imprese in molti settori, d’altro lato non è possibile un’attrazione di qualità senza sviluppo economico e possibilità di integrazione lavorativa e sociale. Inoltre, senza solide politiche familiari e generazionali a trovarsi ancor più in difficoltà nei propri progetti di vita saranno ancor più i figli degli immigrati e le famiglie straniere.

Non è possibile, quindi, affrontare la sfida demografica pensando solo di gestire gli squilibri, spostando in avanti l’età pensionabile e aumentando l’immigrazione, è cruciale intervenire in modo concomitante sulle cause.

I dati, del resto, sono eloquenti. Nel 2010 il numero medio di figli per donna in Italia era pari a 1,44 e ciò consentiva di ottenere 562 mila nascite. Lo scenario mediano delle più recenti previsioni Istat contempla un aumento del tasso di fecondità che consente di risalire fino a 1,44 figli nel 2039, a cui però corrisponde un totale di appena 424 mila nascite. A parità di numero medio di figli per donna ci troveremmo, quindi, con circa 140 mila nascite in meno. L’unico percorso che evita squilibri che si autoalimentano è quello che corrisponde allo scenario alto delle previsioni Istat. Con tale percorso si arriverebbe a circa 1,7 figli per donna nel 2039 con l’esito di riportare in modo solido le nascite attorno al mezzo milione.

Per i valori bassi da cui partiamo e per la struttura per età maggiormente compromessa, è necessario, insomma, convergere verso i paesi con maggior fecondità in Europa. I margini ci sono, dato che, come evidenziano varie ricerche internazionali e le stesse indagini Istat, il numero desiderato di figli è in Italia attorno a due.

Quello che altre economie mature che crescono in modo più solido del nostro hanno capito è che le politiche familiari vanno intese come parte integrante delle politiche di sviluppo, strettamente connesse con l’occupazione giovanile, la partecipazione femminile al mercato del lavoro, lo sviluppo umano a partire dall’infanzia e lungo tutte le fasi della vita. Intervenire in questa direzione in modo sistemico non favorisce solo la vitalità del territorio ma porta anche a migliorare gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.

Per riuscirci, partendo dai livelli più bassi e con una struttura demografica più compromessa, è necessario passare dall’essere stati nel decennio scorso i peggiori in Europa a porsi ora come l’esempio da seguire nelle politiche familiari e per le nuove generazioni da realizzare dopo l’impatto ulteriormente depressivo della pandemia.

E’ però bene essere consapevoli che non esistono misure in grado di essere da sole trasformative, vanno disegnate e implementate in modo da produrre un effetto leva in modo integrato. Il sostegno economico fornisce senz’altro il riscontro più immediato del valore collettivo dato alla scelta di avere figli. Ma perché a tale spinta si agganci un processo di inversione di tendenza che continui nel medio-lungo periodo serve un forte investimento sulle misure di conciliazione. L’asse portate è un solido sistema di servizi per l’infanzia con offerta accessibile – in termini di copertura, costi e qualità adeguata – sul tutto il territorio. La cultura della conciliazione deve, poi, essere aiutata a svilupparsi e consolidarsi nelle aziende (comprese le piccole e medie, aiutandole a trovare soluzioni specifiche in termini di part-time e smart working) e sul versante maschile (promuovendo i congedi obbligatori di paternità). Va, inoltre, rafforzato il percorso di autonomia dei giovani, con adeguate politiche abitative e di inserimento stabile nel mondo del lavoro. Siamo, del resto, il paese in Europa con età più tardiva al primo figlio.

Su tutti questi fronti continuiamo, da troppo tempo, ad essere molto più deboli rispetto alle altre economie avanzate con le quali ci confrontiamo, con conseguenti squilibri che vincolano al ribasso sviluppo e benessere futuro.

Cambiare il lavoro

Il mondo del lavoro si trova di fronte ad un grosso problema: le nuove generazioni si sono messe in testa di voler e poter scegliere. Un cambiamento che trova molti datori di lavoro impreparati e in certa misura sconcertati. Eppure si tratta di una notizia positiva. Ma non per tutti. Solo per i contesti in grado di essere attrattivi verso i giovani e metterli nelle condizioni di dare il meglio di sé.

Questo ha bisogno di alcune condizioni. Serve, innanzitutto, preparare a saper scegliere, ovvero a rendere coerenti le proprie aspirazioni con le proprie effettive capacità ed in relazione con ciò che la realtà offre (non solo per adattarsi ma anche per cambiarla). La carenza di orientamento nel sistema scolastico e nei servizi delle politiche attive rende i giovani italiani più fragili rispetto alla capacità di scelta e più esposti ad esperienze negative. I dati pubblicati nel “Rapporto giovani 2023” dell’Istituto Toniolo, in uscita in questi giorni, evidenziano come nelle nuove generazioni ci sia una forte richiesta di rendere più coerente il rapporto tra scuola e lavoro. Gli imprenditori italiani si  accorgono dei limiti della manodopera quando devono assumere, mentre molto meno si fa, rispetto ai paesi con cui ci confrontiamo, per preparare per tempo le competenze necessarie attraverso un’interazione continua delle aziende con le scuole e i servizi del territorio. Ma interagire con i giovani mentre sono ancora nelle ultime classi della secondaria consente anche di iniziare a prendere le misure reciproche, a capire come cambia il modo di pensare al lavoro, a riconoscere fragilità e potenzialità specifiche nei processi di apprendimento, motivazione e impegno attivo.

Oltre ad adeguata formazione e migliori sistemi di orientamento e accompagnamento all’ingresso nel mondo del lavoro, è sempre più sentita la necessità di mettere in relazione coerente crescita personale e professionale. La flessibilità in Italia è stata interpretata, più che nelle altre economie avanzate, come forma per poter assumere manodopera a basso costo e potersene facilmente disfare quando non più funzionale all’azienda. La bassa qualità della domanda di lavoro ha reso più fragile anche l’offerta, per il basso rendimento dell’istruzione, indebolendo sia le opportunità delle nuove generazioni che la capacità di innovazione e competitività (puntando sulla qualità di prodotti e servizi) del nostro sistema produttivo. Il timore di intrappolamento in percorsi di basso sviluppo professionale ha reso i giovani italiani, anche quelli ben preparati, ipercauti e diffidenti rispetto alla domanda di lavoro. Non a caso, le scelte più accentuate rispetto ai coetanei degli altri paesi sono quelle di rimanere più a lungo a vivere con i genitori in attesa di condizioni migliori e quella di cercare migliori opportunità all’estero. Questa distorsione della lettura della flessibilità – intesa come richiesta di adattarsi ad un esistente sempre più scadente che porta l’esistenza a diventare sempre meno soddisfacente – ha portato ad indebolire non solo il ruolo economico delle nuove generazioni ma anche le loro scelte di vita. A tutto questo i giovani sono diventati sempre più insofferenti. Lo stesso impatto della pandemia ha accelerato un mutamento di fondo sulle priorità da dare alla propria vita e all’idea di lavoro, che risulta incompatibile con questo tipo di flessibilità. Inoltre, le dinamiche demografiche rendono ancor più prezioso che in passato il ruolo dei giovani qualificati per organizzazioni e territori che vogliano alimentare processi di sviluppo avanzato e sostenibile.

La flessibilità che davvero serve è, allora, quella che consente di fare esperienze positive, di scegliere se rimanere in un’azienda o di cambiare per migliorare continuamente le proprie competenze professionali e sociali. L’attenzione, in quest’ottica, più che sulla singola azienda che perde il lavoratore dovrebbe essere sulla persona che migliora la propria capacità di essere attiva nei processi di crescita e produzione di benessere del paese, in grado di portare di più nella nuova azienda in cui entra rispetto a quella che ha lasciato. E’ sul rafforzamento di questi percorsi che si misura la salute del mercato del lavoro nelle società moderne avanzate in continuo e rapido cambiamento. In questa prospettiva le dimissioni sono fisiologiche e spingono le stesse imprese, nel medio periodo, a migliorarsi in tensione continua con la novità che portano le nuove generazioni. Più quindi che preoccuparsi per il fenomeno della Great resignation, va interpretato e accompagnato un processo di mutamento che è articolato e complesso, i cui esiti potenzialmente positivi non sono scontati. Sappiamo, però, che va nella direzione giusta ciò che favorisce il rafforzamento e la valorizzazione dei percorsi formativi e professionali in tutte le fasi di una lunga vita attiva, a partire dai nuovi ingressi.

Oltre le competenze. Come valorizzare i giovani all’interno delle imprese

Il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro è un tema di crescente rilevanza nelle economie mature avanzate. A sentirlo di più sono i paesi e i territori con sistema produttivo più dinamico, più aperti al cambiamento e all’innovazione, con maggior potenziale di sviluppo. In tali economie alta è la domanda di energie ed intelligenze nuove che alimentino i processi di crescita, in particolare del capitale umano delle nuove generazioni da integrare con l’esperienza dei lavoratori più maturi. Ma a sentire ancor più il disallineamento sono e saranno le economie povere di tale capitale umano. Ovvero carenti di giovani ben preparati e qualificati, con competenze utili oggi e domani. Soprattutto se non dotate di sistemi esperti in grado di orientare chi entra nel mondo del lavoro, riqualificare dove necessario, favorire, in definitiva, la possibilità che domanda e offerta si incontrino al punto più alto tra ciò di cui le aziende hanno bisogno e ciò che i nuovi entranti possono portare. L’Italia, come ben noto, è uno dei paesi in Europa che più soffre di queste carenze. Con conseguente alto numero di Neet (giovani che non studiano e non lavorano) e crescente difficoltà del sistema produttivo di alimentare i propri processi di crescita con personale qualificato.

I giovani ben formati in Italia sono troppo pochi. E quei pochi vanno all’estero

L’Italia rischia di non riuscire a rilanciare dopo la crisi sanitaria la propria economia e alimentare i propri processi di sviluppo, cogliendo le opportunità della transizione verde e digitale, soprattutto per carenza di energia. Da troppo tempo da noi risulta, infatti, scarsa, dispersa, utilizzata in modo poco efficiente la risorsa più importante e strategica per far funzionare un Paese e mantenerlo competitivo a livello internazionale. Questa risorsa energetica è costituita dai giovani ben preparati e qualificati.

È scarsa perché di giovani ben formati ne abbiamo meno rispetto agli altri paesi con cui ci confrontiamo. L’incidenza degli under 30 sulla popolazione italiana non arriva al 28% ed è il valore più basso in Europa. Tra le più basse è anche la quota di laureati in età 30-34 anni: sotto il 27% contro una media europea oltre il 40%. È energia dispersa perché presentiamo un saldo negativo cresciuto nel tempo tra giovani con alte qualifiche che vanno a cercare migliori opportunità all’estero rispetto a quelli che attraiamo, come ben documentato nel Rapporto Bes 2021.

L’utilizzo poco efficiente della risorsa giovani è misurato dalla percentuale di Neet: nella fascia 25-29 coloro che non studiano e non lavorano sono quasi il 30% ed è, di nuovo, il dato peggiore tra i paesi membri dell’Unione europea, con un divario che non si è ridotto nel tempo ed è anzi ulteriormente peggiorato con l’impatto della pandemia. La bassa valorizzazione in Italia del capitale umano delle nuove generazioni porta inoltre ad un maggior rischio di sottoccupazione e di trovarsi nella condizione di working poor. Tutto questo ha poi ricadute sulla realizzazione dei progetti di vita, come testimonia l’età media al primo figlio che risulta la più tardiva in Europa.

Il processo di miglioramento della condizione delle nuove generazioni non parte però da zero. Per risollevare l’economia italiana e mettere le basi di una nuova fase di sviluppo con nuove opportunità per i giovani sono disponibili finanziamenti di entità del tutto inedita, ottenuti dai governi precedenti attraverso il fondo Next Generation Eu. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che contiene i progetti da finanziare attingendo da tale fondo ha ottenuto l’anno scorso il via libera dalla Commissione europea. Alla nuova legislatura e, quindi, al nuovo Governo è affidato il compito cruciale di una concreta ed efficace realizzazione, visto che i finanziamenti concessi devono essere utilizzati entro il 2026.

LEGGI ARTICOLO COMPLETO