Per favorire l’integrazione serve un progetto di crescita comune

La Germania sembra aver maggior chiarezza su dove vuole andare e cosa serve per arrivarci. Noi per ora sappiamo solo cosa eravamo e cosa non possiamo più essere.

In uno stesso quartiere della periferia di Milano abitano due famiglie molto diverse e molto simili. La prima è formata da due coniugi sessantenni in pensione con un figlio unico partito tre anni fa per Londra in cerca di migliori opportunità di lavoro. Per lui non è stato facile all’inizio, ma ora ha trovato un buon impiego e da un anno l’ha raggiunto anche la fidanzata.

La seconda famiglia è formata da una coppia di stranieri con un bambino di quasi due anni. L’uomo, che ha approssimativamente l’età del figlio della prima famiglia, è arrivato a Milano cinque anni fa,  mentre la moglie l’ha raggiunto poco dopo.

I due coniugi sessantenni all’inizio non hanno visto di buon occhio il giovane straniero. Quando è arrivato non aveva ancora un regolare permesso di soggiorno e viveva provvisoriamente in un appartamento con altri connazionali. La svolta per lui è arrivata accettando il posto di lavoro che il ragazzo andato all’estero aveva rifiutato. E’ stato il primo passo verso una stabilizzazione della propria posizione che ha innescato un processo di progressivo miglioramento.

I due coniugi italiani hanno osservato con timore il quartiere cambiare nel tempo e diventare così diverso rispetto a quando vi erano arrivati appena sposati. A quel tempo erano da poco immigrati dal Sud Italia. C’erano voluti non poco impegno e molti sacrifici per riuscire a trovare un buon lavoro, a metter su famiglia e a far diventare Milano la propria città. Il figlio invece, nato in quel quartiere, si è sempre considerato milanese a tutti gli effetti, anche se poi ha fatto la scelta di espatriare.

Il loro atteggiamento verso gli stranieri è cambiato dopo la partenza del figlio verso l’estero ma ancor più quando hanno visto la giovane coppia di vicini immigrati trovarsi nella stessa difficoltà a conciliare lavoro e cura del figlio piccolo che essi stessi avevano sperimentato alla loro stessa età. Anch’essi non avevano la rete parentale vicina in grado di offrire supporto nei momenti di necessità. Queste due famiglie così diverse e così uguali hanno allora iniziato a guardarsi in modo nuovo. Tanto che ora, quando si presenta una situazione di emergenza, i due giovani stranieri sanno a chi possono lasciare il figlio per un’ora o due. La coppia di sessantenni si è così affezionata al bambino da fargli un piccolo regalo per il secondo compleanno.

Questa piccola storia ci dice che l’immigrazione è una questione di qualità prima ancora che di quantità. Più che preoccuparci di quanti sono gli stranieri dovremmo occuparci di capire chi sono, ma anche chiederci cosa vogliamo diventare assieme a loro. Timori e resistenze crescono in assenza di un progetto condiviso di crescita del paese. Il problema principale è quindi soprattutto la mancanza di un modello culturale e di sviluppo  che definisca cosa vuol essere l’Italia nel XXI secolo e come vuole mettersi in sintonia con i grandi cambiamenti in corso. Senza di questo non solo è difficile vincere la sfida dell’immigrazione ma anche quella del futuro per le nuove generazioni.

E’ questa visione progettuale che fa la differenza tra Italia e Germania, due paesi con problemi demografici simili ma diversamente in grado di dar risposte. Come mostra anche il recente caso della gestione profughi, il paese di Angela Merkel sembra aver maggior chiarezza su dove vuole andare e cosa serve per arrivarci. Noi per ora sappiamo solo cosa eravamo e cosa non possiamo più essere.

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