Tagged: giovani

Riattivare i NEET: da vittime della crisi a protagonisti della crescita

SENZA GIOVANI E GIOVANI SENZA

Non basta uscire dalla recessione per tornare a crescere. La crisi non è come una tempesta, finita la quale il sole tornerà a brillare come prima. Anche perché il cielo italiano non era certo limpido e terso prima della crisi. La recessione non ci avrà insegnato nulla se continueremo a pensare che crescere equivalga a levare il segno negativo davanti alle variazioni del PIL. Una convinzione deve essere soprattutto chiara e condivisa: non imboccheremo mai un solido sentiero di crescita finché non diventeremo un paese in grado di trasformare le nuove generazioni in energia creativa e produttori a pieno regime di sviluppo e benessere.

La dimostrazione che sinora non ci siamo riusciti è l’abnorme numero di NEET (under 30 che non studiano e non lavorano) che abbiamo prodotto. Più in generale, siamo oggi il paese con la peggior combinazione tra riduzione del peso demografico di giovani, basso investimento in capitale umano delle nuove generazioni, alta quota di inattivi e scoraggiati, saldo negativo di interscambio di talenti con l’estero. Se dovessimo quindi sintetizzare il rischio maggiore che sta correndo questo paese e quello di perdere le nuove generazioni. Non solo abbiamo ridotto quantitativamente la presenza dei giovani nella popolazione italiana ma abbiamo desertificato l’età più fertile della vita. Tra i 20 e i 30 anni le nuove generazioni italiane si formano meno, lavorano meno, guadagnano meno e fanno meno carriera, fanno meno esperienze di autonomia e hanno meno figli, rispetto ai coetanei degli altri paesi avanzati.

Le sei “p” del nuovo welfare

C’è stata una fase nella storia di questo paese in cui tra crescita economica, welfare e demografia si è innescato un circuito virtuoso che ha portato al rialzo le condizioni di benessere materiale e di fiducia sociale. E’ stato il periodo che ha visto protagonista la generazione entrata in età adulta nel periodo della ricostruzione e nel corso del quale si è socializzata la generazione dei baby boomers.

Quel modello sociale e di sviluppo oggi non esiste più e uno dei motivi per cui economia e demografia inciampano l’una sull’altra, anziché spingersi a vicenda, va attribuito ad un welfare allo stesso tempo inadeguato e superato.

Quel sistema di protezione sociale era basato quasi esclusivamente sull’azione pubblica, con un approccio prevalentemente assistenzialistico e risarcitorio. Se oggi non funziona più, sia nel difendere da vecchi rischi che nel prevenire i nuovi, non è solo per i costi diventati insostenibili, ma ancor più per il fatto che le rigide risposte fornite dall’alto sono sempre meno in grado di dare una risposta completa ed efficace, in sintonia con l’evoluzione della domanda dal basso.

A questa inefficienza si è risposto, nel nostro paese, più tagliando  la spesa pubblica che innovando l’azione sociale. Ma i bisogni non sono certo diminuiti. Le trasformazioni demografiche, sociali e del mercato del lavoro hanno fatto emergere nuovi rischi. L’inadeguatezza delle risposte a questi cambiamenti ha portato sia ad un aumento delle disuguaglianze che a una riduzione del benessere complessivo della popolazione. Situazione aggravata dalla crisi che ha fatto crescere la vulnerabilità del ceto medio e frenato le scelte virtuose delle famiglie.

Più che tagliare è quindi necessario aprire una nuova stagione di politiche sociali in grado di rinnovare e rilanciare, sostenendo, da un lato, le persone nei percorsi che alimentano il benessere personale e familiare, ma anche continuando, d’altro lato, a proteggere dal rischio di scivolare in spirali di progressivo impoverimento. In questi ultimi casi, come mostrano molti studi, se non si interviene per tempo si genera uno “svantaggio corrosivo” che va ad intaccare profondamente la capacità di reagire e risollevarsi.

Abbiamo quindi bisogno urgentemente di un nuovo welfare che metta al centro la persona, non prendendosi in carico passivamente dei bisogni ma supportandone sviluppo umano e inclusione sociale. I risultati migliori li ottengono, del resto, le politiche sociali che considerano i cittadini come persone responsabili e attive, in grado non solo di porre domande ma anche di contribuire a fornire risposte.

In sintesi, il nuovo welfare andrebbe incardinato su sei “p”. Tre riferite agli obiettivi da affidargli: proteggere chi sta peggio, prevenire dai rischi di peggioramento, ma anche promuovere lo star meglio. E tre “p” corrispondenti agli attori da mettere assieme in campo: oltre al pubblico, anche il privato sociale e la partecipazione dei cittadini. L’insieme di tutti questi fattori sta alla base di un welfare comunitario che stimola l’innovazione sociale sul territorio puntando a favorire coesione e capacità generativa delle comunità locali, a consolidare i legami di fiducia, a dar sostegno alla propensione alla condivisione e alla corresponsabilità verso il bene comune.

Nel suo recente Rapporto annuale l’Istat ritrae le nuove generazioni, quelle nate dagli anni Ottanta in poi, come vittime di un vecchio sistema di welfare che non funziona più. Dobbiamo invece sempre più pensare ad esse, per sensibilità e competenze, come principali protagoniste di un nuovo sistema sociale più in linea con le trasformazioni in corso e con le sfide dei tempi nuovi. Un welfare che metta assieme sia innovazione che inclusione, nel quale i cittadini siano allo stesso tempo destinatari e produttori di nuovo benessere. Parte centrale di un modello sociale e di sviluppo in cui nessuno, a partire dal pubblico, si deresponsabilizza, e che anzi incentiva tutti a fare un passo avanti, verso un futuro comune e condiviso

Riecco il bonus bebè, un’arma spuntata per la natalità

Perché pochi figli?

Riecco il bonus bebè. Qualche giorno fa il ministro Beatrice Lorenzin ha proposto una sostanziale modifica degli importi erogati attraverso la misura, con l’obiettivo dichiarato di evitare il crac demografico.
Lo spostamento dell’agenda in tema di politiche sociali dall’ennesima discussione sulle pensioni a temi più alla radice dei problemi del paese non può che essere valutato positivamente. Tuttavia viene il dubbio che – ancora una volta – si usi uno strumento poco appropriato all’obiettivo dichiarato. In altre parole, il bonus bebè, sia come misura in sé sia per come è stato disegnato in Italia, appare più adatto a contenere l’alto rischio di povertà minorile che a influire in modo significativo sugli anemici tassi di natalità degli ultimi decenni.
Il primo passo per realizzare politiche che aiutino a risollevare la natalità è capire perché in Italia si fanno pochi figli.
La risposta non sta in un maggior egoismo o nichilismo dei cittadini italiani rispetto a francesi e americani. Se noi facciamo in media un figlio e un terzo e loro due non è perché noi ne desideriamo di meno, ma perché riusciamo di meno a mettere i giovani e le coppie italiane nelle condizioni di realizzare in pieno i propri obiettivi riproduttivi.
E allora diventa più utile chiedersi: perché gli italiani non fanno tutti i figli che vorrebbero fare?
Uno dei motivi principali è la condizione di difficoltà e di adattamento al ribasso che blocca non solo le ambizioni lavorative, ma ancor più i progetti di vita futuri dei giovani-adulti. I dati dell’indagine “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo mostrano come nei confronti del lavoro sia aumentata la preoccupazione del reddito adeguato, tanto da far mettere in secondo piano l’autorealizzazione.
La situazione di incertezza li porta a posticipare le tappe di entrata nella vita adulta. Subentrano poi le difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia. Di rinvio in rinvio, alla fine ci si trova a non aver avuto il numero di figli desiderato. Secondo i dati Istat, le donne rimaste del tutto senza figli sono salite dall’11 per cento nella generazione del 1950 (che ha concluso la sua storia riproduttiva alla fine del secolo scorso) al 21 per cento della generazione del 1970 (le nuove over 45).

A cosa serve il bonus?

Per come è disegnato, il bonus bebè è una misura di sostegno al reddito per coppie la cui situazione economica è poco florida. Si tratta in sostanza di un trasferimento monetario non condizionato alle famiglie a basso reddito. Il finanziamento non è vincolato a null’altro che alla prova di mezzi e la misura si estende solamente ai figli fino ai tre anni di età. Di fatto, la descrizione corrisponde a una politica di contrasto alla povertà tra le famiglie con figli sotto i quattro anni, cui tuttavia mancano misure di disegno e inclusione attiva e forme di controllo su come gli importi trasferiti vengano utilizzati. Intendiamoci, dati gli elevati livelli di povertà tra minori si tratta comunque di una misura positiva, ma è ben lungi dall’essere efficace per stimolare i tassi di natalità.

Come alzare davvero i tassi di fecondità

Se è comunque un bene mettere al centro del dibattito pubblico il sostegno alle famiglie, è ancor più importante predisporre misure efficaci in grado di restituire la fiducia di vivere in un paese che funziona e che incoraggia a fare scelte di impegno positivo verso il futuro.
Il bonus bebè non offre alle nuove generazioni le sicurezze di cui hanno bisogno prima di “avventurarsi” nella genitorialità. C’è una lunga serie di misure che lo stato può implementare e che sarebbero più appropriate per favorire la scelta di avere un figlio. Ne elenchiamo alcune (per una riflessione più ampia su approccio e misure si veda “Generare futuro”).

  1. Innanzitutto bisogna favorire l’accesso alla casa e al lavoro (stabile). Il Jobs act sembra essere un buon passo in questa direzione. Ma per l’occupazione giovanile e femminile bisogna fare di più. In questo senso la “Garanzia giovani” è lontana dall’essere una politica di successo.
  2. È poi necessario migliorare la possibilità di rimanere nel mercato del lavoro per le coppie con figli. Questo vuol dire servizi di accudimento a costi accessibili fino ai tre anni, ma anche attività rivolte ai bambini più grandi (fino almeno ai 14 anni) negli orari e periodi dell’anno in cui le scuole sono chiuse. Su questo punto negli ultimi anni si sono registrati forti tagli da parte dei comuni. E che fine hanno fatto i mille asili in mille giorni promessi dal presidente del Consiglio e dal ministro Graziano Delrio? Su passodopopasso.italia.it non se ne trova traccia.
  3. Bisogna incentivare i padri a fare la loro parte. Sono molte le ricerche che mostrano che si fanno più figli quando i padri sono più partecipi alla vita familiare. Due giorni di paternità obbligatoria sono solo simbolici, serve di più.
  4. Bisogna, infine, dare più stabilità alle politiche – anche a quelle di trasferimenti economici. Le misure episodiche, con finanziamenti insufficienti e limitati nel tempo possono essere un ottimo strumento di acquisizione del consenso elettorale, ma sono cattive politiche. Gli italiani sanno bene che i governi passano, mentre i figli rimangono.

Milano laboratorio di innovazione diffusa

Ovunque le sicurezze del passato sono in discussione. Se in alcuni paesi prevale ciò che di nuovo si ottiene rispetto a quello che si perde, l’Italia sembra invece spaesata. Spinta dalla storia fuori dalla comfort zone che pensava di aver trovato negli anni Sessanta e all’interno della quale si è trincerata fin quasi alla fine del secolo scorso, ora sembra non aver ben chiaro dove andare e a fare cosa. Ad un certo punto è sembrato che la soluzione fosse semplicemente quella di entrare in Europa. Ma da tempo è oramai ben chiaro che l’appartenenza, anche convinta, all’Unione non significa agganciarsi come un vagone ad una locomotiva; non è sostitutiva del trovare una proprio modello sociale e di sviluppo coerente con i tempi nuovi. Poi è arrivata la crisi economica utilizzata come alibi per continuare nella tattica della difesa e del rinvio anziché cambiare e rilanciare.

Servono cittadini che sanno scegliere

Sarà interessante per ciascun cittadino valutare la coerenza tra i propri progetti di vita e il nuovo corso che intende imprimere chi sostituirà Pisapia a Palazzo Marino. Un diciottenne può, ad esempio, pensare di scegliere di perfezionare il proprio capitale umano in una delle università della città oppure andare all’estero. L’eventuale decisione di fare un’esperienza di formazione o lavoro oltre confine può poi prevedere il ritorno o la scelta definitiva di rimanere altrove. Tutto questo ha a che fare con la scelta del nuovo sindaco?

Un neodiplomato o uno studente universitario può avere un’idea di startup da realizzare. Per provare a concretizzarla con successo ha bisogno di un ecosistema adeguato. Servono competenze avanzate, un ambiente stimolante, finanziamenti possibili, servizi di supporto, incubatori, luoghi di interazione e contaminazione attiva. Contano le politiche di sviluppo, di stimolo alla creazione di un network internazionale, di accesso a spazi, di facilitazione e incentivo all’innovazione da parte dell’ente pubblico?