Una trappola da evitare

E’ bene essere consapevoli che per la situazione in cui l’Italia si trova (come combinazione di persistente bassa fecondità e struttura demografica sbilanciata a sfavore delle nuove generazioni) la possibilità di dare impulso a una solida nuova fase che porti verso lo scenario alto si può ottenere solo allineandosi alle migliori esperienze europee.

(ESTRATTO)

E’ bene essere consapevoli che per la situazione in cui l’Italia si trova (come combinazione di persistente bassa fecondità e struttura demografica sbilanciata a sfavore delle nuove generazioni) la possibilità di dare impulso a una solida nuova fase che porti verso lo scenario alto si può ottenere solo allineandosi alle migliori esperienze europee.

Le esperienze europee ci dicono che l’aiuto economico è la leva più efficace come effetto di breve periodo per risollevare le nascite, perché consente di sbloccare – tanto più dopo una crisi e in condizioni di incertezza – una scelta lasciata in sospeso e continuamente rinviata. Ma affinché a tale impulso si agganci un effettivo processo di inversione di tendenza che prosegua nel medio-lungo periodo serve un processo di solido miglioramento di servizi e strumenti a favore delle famiglie e a sostegno delle scelte genitoriali (con monitoraggio e valutazione continua dell’efficacia rispetto ai risultati attesi).

Un recente report delle Nazioni Unite (World Population Policies 2021)  mostra che i paesi con politiche di sostegno alla natalità hanno superato nel mondo quelli impegnati nella riduzione. Si tratta, nel primo caso, dei paesi con fecondità sotto a 2. Oltre al congedo di maternità, lo strumento più adottato è quello dei servizi per l’infanzia fondamentali per la conciliazione tra lavoro e famiglia (88%), seguito dal contributo economico (78%) e dal congedo di paternità (73%). Su tutte queste misure l’Italia è lontana dalle migliori esperienze internazionali.

Non si tratta di convincere ad avere figli o di creare pressione psicologica su chi non li vuole, ma semplicemente di favorire un ecosistema favorevole alla libera scelta di averli. I margini su cui possono agire le politiche familiari in Italia sono ampi, dato che lo spazio strategico possibile è quello del divario (“deficit demografico”) tra la fecondità attuale (1,25) e il numero desiderato (attorno a 2) o quantomeno il valore che l’esperienza di altri paesi europei mostra come raggiungibile (1,8). I dati delle ricerche più solide disponibili sul confronto tra intenzioni e comportamenti mostrano come l’Italia sia tra i paesi sviluppati con maggior divario tra numero di figli che le donne che si trovano oggi alla fine della vita riproduttiva (attorno ai 45 anni) hanno avuto rispetto a quanto dichiaravano di desiderarne quando avevano 20-24 anni.

Nessun paese maturo avanzato ha visto ridursi tale divario senza mettere in campo misure solide e strumenti efficaci di sostegno alla natalità. Vale, piuttosto, il contrario: il numero desiderato può ridursi nei contesti in cui la carenza di politiche e di attenzione pubblica porta a consolidare il messaggio che la nascita di un figlio non è considerata un valore sociale ma solo un costo e una complicazione a carico dei genitori. E’ quello che rischia l’Italia.

I dati dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo evidenziano che le nuove generazioni italiane ed europee, in ampia maggioranza, desiderano avere dei figli (propri o adottivi), ma si sentono anche liberi di non averne. Non sentono di doverli avere per un imperativo biologico o per confermarsi ad una norma sociale, ma hanno il desiderio di condividere con essi il piacere di vederli crescere in un contesto di sicurezza, con adeguate cure e benessere. Sono tali condizioni che mancano maggiormente nei Paesi, come l’Italia, che si distinguono per una fecondità più bassa e un continuo rinvio dell’età al primo figlio. Avere un figlio deve poter entrare all’interno dei confini della progettazione possibile nei percorsi di transizione alla vita adulta delle nuove generazioni, non posizionarsi oltre un orizzonte che viene spostato sempre più in avanti fino alle soglie della rinuncia. La mancanza di adeguate misure a sostegno dell’autonomia e dell’intraprendenza (attraverso housing e politiche attive del lavoro) rischia di mantenere molti giovani italiani nella condizione di figli fino all’età in cui diventa troppo tardi per diventare genitori.

Lo stesso concetto di sviluppo sostenibile mette al centro il ruolo delle nuove generazioni e la qualità del futuro che attivamente possono contribuire a realizzare attraverso le decisioni individuali e collettive (queste ultime indebolite anche dal minor peso elettorale conseguenza del degiovanimento).

Va allora presa piena consapevolezza che senza l’impegno a convergere con politiche mirate verso lo scenario alto si privano le nuove generazioni della possibilità di invertire la tendenza agendo sulle cause, condannandole a dover solo gestire le conseguenze di squilibri crescenti. Viene disatteso, in tal caso, il principio che sta a fondamento dello sviluppo sostenibile, ovvero quello di non fare scelte oggi che deteriorano irreparabilmente condizioni e opportunità di chi verrà dopo.

E’ importante, inoltre, ribadire che investimento sulla qualità e riduzione degli squilibri quantitativi fanno parte di uno stesso processo di convergenza verso lo scenario alto: da un lato minori squilibri rendono disponibili maggiori risorse da investire sulla qualità (formazione, lavoro, ricerca e sviluppo), d’altro lato una migliore occupazione di giovani e donne – in combinazione con politiche che rafforzano autonomia e conciliazione tra lavoro e famiglia – favorisce l’aumento di nuovi nuclei e nascite.

Anche qualità della vita nelle fasi più mature ha bisogno di un rinnovo generazionale che funzioni, sia per ciò che lega il benessere futuro con le scelte in età giovanile, sia per il rapporto quantitativo tra generazioni che dipende dall’andamento della natalità, oltre che dalle scelte dei giovani di rimanere sul territorio o spostarsi.

Una popolazione, a differenza delle singole persone, può sia invecchiare che ringiovanire o rimanere con una struttura ben bilanciata (che, come abbiamo detto, corrisponde ad una fecondità attorno alla media di due figli). Il percorso in cui si è inserita l’Italia rischia di essere quello di un invecchiamento irreversibile, nel quale via via che il tempo passa ci si deve rassegnare a far di meno e star peggio rispetto all’anno precedente.

Una parte sempre più ampia del territorio italiano si trova già oggi in forte sofferenza come conseguenza degli squilibri prodotti dal debole rinnovo generazionale, con difficoltà a garantire servizi di base. La sfida dell’attrattività verso le nuove generazioni è ancor più sentita per i comuni montani e le aree interne, realtà decentrate ma cruciali per la tenuta complessiva del territorio sotto il profilo idrogeologico, paesaggistico e dell’identità culturale. Questi contesti anticipano quello che potrebbe diventare il paese se non inverte la tendenza.

Non ci sono risposte semplici alla sfida demografica. E’, tuttavia, vero che affrontarla in modo sistemico e integrato non consente solo di rispondere agli squilibri strutturali, ma di avere anche famiglie che realizzano le proprie scelte di vita, giovani e donne che trovano piena valorizzazione, immigrati messi nelle condizioni di effettiva integrazione, aziende che combinano attenzione al benessere del lavoratore e produttività, sistema paese che riduce le diseguaglianze generazionali, di genere e sociali per mettere in campo al meglio tutte le sue potenzialità.

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