Uscire dalla crisi non basta se rimaniamo una società tribale

L’Italia può anche uscire dalla crisi ma non farà mai un vero salto di qualità verso il futuro se rimarrà un paese tribale, pieno di furbi che proteggono privilegi privati e interessi di classe.

Il presidente della Regione Lombardia ha certamente avuto il merito di mettere sul piatto un tema che “spacca”, non solo all’interno del proprio partito. Reazioni negative e aperture sull’introduzione del reddito di cittadinanza hanno sparigliato le strette logiche di appartenenza politica accomunando Salvini con una parte ampia del sindacato, da un lato, e Grillo con illustri esponenti del centrosinistra, dall’altro. Le idee dovrebbero contare più delle ideologie. Bene ha fatto quindi chi non ha risposto con una chiusura pregiudiziale. Siamo però anche abituati ad annunci che non si traducono in azioni concrete.

 

Chiunque abbia a cuore misure che migliorino le condizioni dei cittadini, più che far muro dovrebbe allora per prima cosa chiedere a Maroni di spiegare meglio cosa intende fare e poi pretendere un percorso trasparente di realizzazione, monitoraggio e valutazione dell’efficacia con indicatori condivisi e misurabili. Come si fa, del resto, ad opporsi alla sperimentazione di uno strumento che in Italia manca e che invece c’è in quasi tutti gli altri paesi europei? Dobbiamo però anche chiarire meglio di cosa stiamo parlando. “Reddito di cittadinanza”, come sottolineato da chi ragiona da tempo su queste misure, è infatti una espressione che genera confusione e ambiguità. E’ rivolto a tutti o è mirato a risollevare chi si trova in condizione di forte deprivazione sociale? In quest’ultimo caso più che di cittadinanza si tratterebbe di reddito di inclusione sociale. E poi, oltre ai criteri per ottenerlo ci sono anche condizioni per mantenerlo, evitando, ad esempio, che diventi un disincentivo al lavoro? Nel rispondere ad alcune obiezioni Maroni ha aggiunto elementi di chiarimento ma la proposta rimane ancora vaga.

Il dibattito attorno a questa misura andrebbe inserito all’interno di una riflessione più ampia su come fare in modo che welfare, riduzione delle diseguaglianze e crescita economica possano evolvere assieme. I dati dell’Istat segnalano che la recessione potrebbe essere finita, ma se rimangono tutti i vincoli strutturali e culturali che avevamo prima della crisi continueremo ad essere un paese ingiusto ed inefficiente. Per rilanciare il paese abbiamo bisogno di investire e questo significa redistribuire le risorse nella direzione delle nuove generazioni, ma senza impoverire le più mature, e verso le politiche attive, ma senza lasciare ai margini chi non può più partecipare al mercato del lavoro. Per questo la recente sentenza della Corte costituzionale che ha imposto al Governo di applicare la rivalutazione anche per le pensioni superiori a tre volte il minimo – livelli che l’80% dei giovani non riescono attualmente a raggiungere come reddito da lavoro figuriamoci in futuro come pensione – è un pesante colpo inferto a chi vorrebbe un’Italia diversa, non solo più giusta e solidale, ma anche più efficiente nell’usare le proprie risorse e liberare le sue potenzialità. Non è solo una questione di equità generazionale e sociale, ma di quanto e come vogliamo collettivamente crescere. L’Italia può anche uscire dalla crisi ma non farà mai un vero salto di qualità verso il futuro se rimarrà un paese tribale, pieno di furbi che proteggono privilegi privati e interessi di classe, anziché evolversi in un sistema maturo e moderno, che stimola e alimenta logiche di intelligenza comunitaria.

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