Topic: degiovanimento

Un cambio di passo necessario per i giovani

Nel tradizionale Discorso di fine anno il Presidente Mattarella ha ben espresso la contraddizione di un’Italia che, da un lato, disconosce le attese delle nuove generazioni e le fa sentire “fuori posto”, dall’altro, ha “bisogno dei giovani”, “delle loro speranze”, “della loro capacità di cogliere il nuovo”.

Una transizione debole verso il futuro senza i giovani

Se non cogliamo l’occasione per costruire un paese migliore dopo la discontinuità prodotta dalla pandemia – attraverso capacità di visione e impegno collettivo – sicuramente peggioreremo e di molto. L’impatto della crisi sanitaria sta rendendo ancor più pesanti alcuni squilibri che erano già su livelli record del nostro paese: in particolare sul versante finanziario (debito pubblico), demografico (denatalità) e sociale (accesso a opportunità e benessere). Ma la crisi in corso sta ulteriormente indebolendo i percorsi formativi e lavorativi, in particolare delle nuove generazioni.

Come rispondere al declino demografico

I dati pubblicati dall’Istat ufficializzano la conclusione di una lunga fase di crescita della popolazione italiana. Nei primi decenni del secondo dopoguerra siamo aumentati soprattutto perché facevamo molti figli, in grado di compensare persino l’alto numero di espatri. Tale effervescente fase demografica tocca l’apice a metà anni Sessanta e si esaurisce negli anni Settanta. Nel 1977 il numero medio di figli per donna scende sotto la soglia di due, per poi inabissarsi sotto uno e mezzo nel 1984. A partire dagli anni Ottanta il saldo migratorio da negativo inizia a virare verso valori positivi aprendo una nuova fase in cui la diminuzione della popolazione italiana viene più che compensata dagli ingressi dall’estero. Le previsioni Istat, con base 2011, mettevano comunque in conto che ad un certo punto l’immigrazione non sarebbe più bastata ad alimentare la crescita totale. Questo sarebbe però dovuto accadere molto più in là, attorno al 2040, non già nel 2015. Il motivo dell’anticipazione del declino è da attribuire all’impatto particolarmente severo della crisi economica in un paese con una demografia già da tempo in sofferenza. I fattori negativi si sono inaspriti e quelli positivi si sono raffreddati: le nascite sono crollate ai livelli più bassi di sempre, le iscrizioni all’anagrafe dall’estero si sono ridimensionate, le cancellazioni verso l’estero sono lievitate. Inoltre, anche la fecondità delle donne straniere è scesa sotto i due figli per donna.

Quello che però preoccupa non è tanto essere qualche migliaio in più o in meno. Ciò che dobbiamo guardare con attenzione ed affrontare, con maggiore e rinnovata capacità che in passato, sono gli squilibri generazionali, che interagiscono con quelli sociali e territoriali. La riduzione delle nascite sottrae popolazione dal basso: rende meno consistenti le generazioni più giovani mentre la popolazione anziana continua ad aumentare ed anzi accresce il suo peso relativo. Gli over 65 di cittadinanza italiana non hanno infatti subito alcuna riduzione nel corso del 2015 e continueranno ad aumentare nei prossimi decenni. Mentre i giovani sono già da tempo in progressivo declino, tanto da poterci fregiare oggi d’essere il paese in Europa con più bassa presenza di under 30.

Il declino demografico dell’Italia va quindi soprattutto letto nel rapporto tra generazioni. I giovani sono potenziali produttori di nuova ricchezza che fa crescere l’economia e va a sostenere le politiche sociali. Gli anziani tendono più ad assorbire risorse (per pensioni e spesa sanitaria) che a generane di nuove. Il declino demografico non ci dice solo che i secondi crescono più dei primi e nemmeno che i secondi crescono mentre i primi diminuiscono: ci avverte che abbiamo reso la diminuzione dei giovani ancor più accentuata della crescita degli anziani.

Come se ne esce? Non c’è un’unica soluzione, ma un complesso di azioni che dobbiamo mettere in campo urgentemente e tutte assieme: rinvigorire le nascite, ampliare la partecipazione alla forza lavoro, rendere una sfida positiva il vivere più a lungo, aumentare l’attrazione di qualità e l’integrazione degli immigrati. Sostenere e incoraggiare i percorsi professionali dei giovani e i progetti di formazione di una famiglia consentirebbe al paese di potenziare le sue capacità produttive e generative, limitando anche la fuoriuscita verso altri paesi. Migliorare le misure di conciliazione tra lavoro e famiglia permetterebbe a molte donne (ma anche uomini) di mettere in relazione positiva la scelta di avere un figlio e di essere attive nel mercato del lavoro. Una conciliazione che sempre di più, come conseguenza dell’invecchiamento, riguarda anche la cura degli anziani non autosufficienti. Cruciale è inoltre l’apporto dell’immigrazione, che non può essere quella gestita come emergenza e piegata allo sfruttamento, ma resa parte integrante di un comune modello sociale e di sviluppo. Infine, dobbiamo valorizzare molto di più le opportunità che il vivere più a lungo offre, in ogni campo. Non tanto obbligando le persone a lavorare più a lungo per decreto ma creando le condizioni per mantenersi economicamente e socialmente attivi per scelta e con successo.

Il declino demografico non si vince guardando solo alla quantità, ma promuovendo prima di tutto la qualità della vita delle persone, delle loro relazioni, dell’essere attive ad ogni età, del poter realizzare con successo i propri progetti sia lavorativi che familiari. Tutto questo ha però fortemente bisogno anche di una politica di qualità.

Expat, la generazione delle opportunità

Si sono spesi fiumi di inchiostro e fiato da riempirci mongolfiere, sui giovani che se ne vanno dall’Italia. Peccato che quell’inchiostro e quel fiato, in molti casi, siano troppo spesso spesi male. Per piangerci addosso, per maledire un Paese che non sa valorizzare i propri talenti, per puntare il dito contro chi – politici, imprenditori, insegnanti, genitori – quei talenti (nell’accezione più ampia) non è riuscito a valorizzarli. Nella retorica dei ”cervelli in fuga” è implicito il senso di una duplice sconfitta. Di chi se ne va, perché è stato costretto a farlo. Di chi l’ha lasciato partire, per i supposti costi mal investiti nell’educazione di chi parte.
È una retorica che non ci piace e che vogliamo decostruire, mattone dopo mattone. In primo luogo perché è depressiva. Soprattutto, però, perché è sbagliata. Basterebbe guardare la realtà senza farsi inquinare la vista dall’autocommiserazione per capire che non è così e che la retorica della “fuga” è limitativa rispetto alla portata e alle implicazioni dei grandi processi in atto nel mondo che vedono protagoniste le nuove generazioni.

Il degiovanimento infelice dell’Italia

Nel 2013 l’Italia ha raggiunto il valore più basso di sempre nella curva delle nascite. Il punto più alto era stato raggiunto mezzo secolo fa, nella prima metà degli anni Sessanta, con oltre un milione di nati ogni anno. Si è scesi sotto le 900 mila unità nel 1972, sotto le 800 mila nel 1976, sotto le 700 nel 1979, sotto le 600 mila nel 1984, da allora non siamo più risaliti sopra tale livello. L’ultimo dato fornito dall’Istat, quello appunto del 2013, indica 514 mila nati, ma sarebbero 410 mila senza il contributo dell’immigrazione. Questi sono i valori assoluti.

Se facciamo riferimento al tasso di fecondità totale, ovvero al numero medio di figli per donna, è dal 1978 che ci troviamo sotto il fatidico valore di 2 (ovvero sotto la soglia di sostituzione generazionale) e dal 1984 sotto 1,5. Oggi il dato arriva a malapena a 1,4. Questo ci rende uno dei paesi sul pianeta con maggior persistenza della bassa fecondità.