La sfida della longevità va oltre l’età pensionabile

Ora che si riapre il cantiere sulle pensioni, con la cosiddetta fase 2, è necessario abbandonare l’atteggiamento difensivo rispetto ai cambiamenti demografici e passare a incentivare comportamenti individuali desiderati con ricadute sociali eque e sostenibili.

Viviamo sempre più a lungo, ma ce ne accorgiamo poco e ancor meno ci stiamo occupando di come spender bene gli anni che ogni nuova generazione aggiunge alle precedenti. Molto più ci stiamo invece preoccupando del trovarci ad andare in pensione più tardi. Detto in altro modo, abbiamo percezione degli effetti della longevità più sul versante negativo, ovvero per gli aggiustamenti necessari sulla tenuta della spesa pubblica, che sulle prospettive che apre nella vita delle persone.

L’errore che non dobbiamo fare, dopo aver sconfitto i rischi di morte in età precoce, è quello di condannarci ora a vedere la longevità come accidente e inconveniente. Questo atteggiamento distorto ha condizionato l’azione politica, portandola ad inserire nuovi vincoli più che incoraggiare nuove opportunità. In particolare, allo spostamento in avanti dell’età alla pensione non ha corrisposto un aumento dell’investimento in formazione continua e su fattori di “age management” in grado di rendere il prolungamento della vita lavorativa positivo per le persone e produttivo per le aziende. Un altro aspetto deteriore è stata la scorciatoia del contenimento degli effetti degli squilibri demografici con l’ampliamento delle iniquità generazionali.

Ora che si riapre il cantiere sulle pensioni, con la cosiddetta fase 2, è necessario abbandonare l’atteggiamento difensivo rispetto ai cambiamenti demografici e passare a incentivare comportamenti individuali desiderati con ricadute sociali eque e sostenibili. Un malinteso da superare è la confusione nel dibattito pubblico tra longevità e invecchiamento della popolazione. La longevità deve diventare un’opportunità, mentre l’invecchiamento demografico è un problema. Quest’ultimo processo corrisponde ad uno squilibrio quantitativo nel rapporto tra anziani e persone in età attiva. Presi due paesi con stessi livelli di occupazione e crescita, quello con maggior invecchiamento tende a produrre meno ricchezza e ad assorbire più spesa sociale. L’Italia è uno dei paesi in condizione più complicata da questo punto di vista. Il motivo non è tanto la longevità, simile a paesi come Francia e paesi Scandinavi, ma il crollo delle nascite che ha portato a una diminuzione di giovani e, in prospettiva, degli adulti nelle età lavorative centrali. I dati delle più recenti previsioni Istat, prendendo lo scenario mediano, ci dicono che lo sbilanciamento verso il basso di giovani e adulti è più forte dello sbilanciamento verso l’alto di anziani e grandi anziani. Una nave con carico sbilanciato rischia di naufragare appena le acque si agitano. Nei prossimi vent’anni gli under 30 si ridurranno di quasi due milioni di persone, mentre gli over 80 aumenteranno di 1,6 milioni. Le persone di età 30-59 sanno 4,8 milioni di meno, mentre la fascia 60-79 si troverà con 4,1 milioni in più. Questi squilibri vanno governati. Una risposta va nella direzione di anticipare e rendere più solido l’ingresso delle nuove generazioni nel mondo del lavoro. Attualmente abbiamo tassi di occupazione degli under 30 tra i più bassi in Europa, compresi i laureati, come ha mostrato il Presidente dell’Istat Alleva in una recente Audizione alla Commissione Affari costituzionali della Camera in merito a due proposte di legge sull’equità intergenerazionale dei trattamenti previdenziali.

Ma è necessario, più in generale, mettere ogni generazione nelle condizioni di valorizzare tutte le fasi della vita. Uno dei mutamenti più rilevanti prodotti dal vivere più a lungo riguarda il concetto stesso di “anziano”. Ogni stagione della vita ha proprie specificità che, se colte positivamente, possono dare buoni frutti. C’è però una fase finale non tanto caratterizzata da cambiamenti, come vale per le precedenti fasi, ma da progressive perdite irreversibili. Una ricerca dell’Università Cattolica mostra come si sentano anziane, a parità di età, soprattutto le persone che perdono autonomia, che perdono il coniuge, che perdono stimoli e progettualità di vita, che vedono restringersi la rete di relazioni. Criteri usati tradizionalmente, come il superamento dei 65 anni – che definisce ancora oggi la soglia statistica di entrata in età anziana – come il pensionamento e come il diventare nonni sono invece sempre meno legati al sentirsi “vecchi”. La stessa ricerca citata indica come la grande maggioranza degli italiani tra i 65 e i 74 anni si senta uscita dall’età pienamente adulta ma non ancora entrata in quella anziana. Si tratta di una fase della vita in forte cambiamento sia quantitativo che qualitativo, che pone una sfida epocale nell’organizzazione personale e nella produzione di valore sociale, non semplicemente risolvibile con un algoritmo che lega in modo automatico aspettativa di vita ed età pensionabile.

Rispondi

  • (will not be published)