Cambiare il lavoro

Il mondo del lavoro si trova di fronte ad un grosso problema: le nuove generazioni si sono messe in testa di voler e poter scegliere.

Il mondo del lavoro si trova di fronte ad un grosso problema: le nuove generazioni si sono messe in testa di voler e poter scegliere. Un cambiamento che trova molti datori di lavoro impreparati e in certa misura sconcertati. Eppure si tratta di una notizia positiva. Ma non per tutti. Solo per i contesti in grado di essere attrattivi verso i giovani e metterli nelle condizioni di dare il meglio di sé.

Questo ha bisogno di alcune condizioni. Serve, innanzitutto, preparare a saper scegliere, ovvero a rendere coerenti le proprie aspirazioni con le proprie effettive capacità ed in relazione con ciò che la realtà offre (non solo per adattarsi ma anche per cambiarla). La carenza di orientamento nel sistema scolastico e nei servizi delle politiche attive rende i giovani italiani più fragili rispetto alla capacità di scelta e più esposti ad esperienze negative. I dati pubblicati nel “Rapporto giovani 2023” dell’Istituto Toniolo, in uscita in questi giorni, evidenziano come nelle nuove generazioni ci sia una forte richiesta di rendere più coerente il rapporto tra scuola e lavoro. Gli imprenditori italiani si  accorgono dei limiti della manodopera quando devono assumere, mentre molto meno si fa, rispetto ai paesi con cui ci confrontiamo, per preparare per tempo le competenze necessarie attraverso un’interazione continua delle aziende con le scuole e i servizi del territorio. Ma interagire con i giovani mentre sono ancora nelle ultime classi della secondaria consente anche di iniziare a prendere le misure reciproche, a capire come cambia il modo di pensare al lavoro, a riconoscere fragilità e potenzialità specifiche nei processi di apprendimento, motivazione e impegno attivo.

Oltre ad adeguata formazione e migliori sistemi di orientamento e accompagnamento all’ingresso nel mondo del lavoro, è sempre più sentita la necessità di mettere in relazione coerente crescita personale e professionale. La flessibilità in Italia è stata interpretata, più che nelle altre economie avanzate, come forma per poter assumere manodopera a basso costo e potersene facilmente disfare quando non più funzionale all’azienda. La bassa qualità della domanda di lavoro ha reso più fragile anche l’offerta, per il basso rendimento dell’istruzione, indebolendo sia le opportunità delle nuove generazioni che la capacità di innovazione e competitività (puntando sulla qualità di prodotti e servizi) del nostro sistema produttivo. Il timore di intrappolamento in percorsi di basso sviluppo professionale ha reso i giovani italiani, anche quelli ben preparati, ipercauti e diffidenti rispetto alla domanda di lavoro. Non a caso, le scelte più accentuate rispetto ai coetanei degli altri paesi sono quelle di rimanere più a lungo a vivere con i genitori in attesa di condizioni migliori e quella di cercare migliori opportunità all’estero. Questa distorsione della lettura della flessibilità – intesa come richiesta di adattarsi ad un esistente sempre più scadente che porta l’esistenza a diventare sempre meno soddisfacente – ha portato ad indebolire non solo il ruolo economico delle nuove generazioni ma anche le loro scelte di vita. A tutto questo i giovani sono diventati sempre più insofferenti. Lo stesso impatto della pandemia ha accelerato un mutamento di fondo sulle priorità da dare alla propria vita e all’idea di lavoro, che risulta incompatibile con questo tipo di flessibilità. Inoltre, le dinamiche demografiche rendono ancor più prezioso che in passato il ruolo dei giovani qualificati per organizzazioni e territori che vogliano alimentare processi di sviluppo avanzato e sostenibile.

La flessibilità che davvero serve è, allora, quella che consente di fare esperienze positive, di scegliere se rimanere in un’azienda o di cambiare per migliorare continuamente le proprie competenze professionali e sociali. L’attenzione, in quest’ottica, più che sulla singola azienda che perde il lavoratore dovrebbe essere sulla persona che migliora la propria capacità di essere attiva nei processi di crescita e produzione di benessere del paese, in grado di portare di più nella nuova azienda in cui entra rispetto a quella che ha lasciato. E’ sul rafforzamento di questi percorsi che si misura la salute del mercato del lavoro nelle società moderne avanzate in continuo e rapido cambiamento. In questa prospettiva le dimissioni sono fisiologiche e spingono le stesse imprese, nel medio periodo, a migliorarsi in tensione continua con la novità che portano le nuove generazioni. Più quindi che preoccuparsi per il fenomeno della Great resignation, va interpretato e accompagnato un processo di mutamento che è articolato e complesso, i cui esiti potenzialmente positivi non sono scontati. Sappiamo, però, che va nella direzione giusta ciò che favorisce il rafforzamento e la valorizzazione dei percorsi formativi e professionali in tutte le fasi di una lunga vita attiva, a partire dai nuovi ingressi.

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