Denatalità. Agire subito per evitare il crollo

La riduzione delle giovani generazioni in rapporto alla popolazione minaccia la stabilità economica del nostro Paese.

Ci sono tre aspetti preoccupanti della demografia italiana. Il primo è dato dalle dinamiche particolarmente negative della natalità e dagli effetti distorcenti che produce sulla struttura per età. Il secondo dall’incapacità di mettere in atto politiche efficaci per dare risposta a tali dinamiche. Il terzo è l’essere entrati in una fase in cui il non agire con misure adeguate e incisive non lascia l’Italia solo in posizione più debole rispetto al resto d’Europa, ma la espone maggiormente ad un inasprimento continuo degli squilibri. Va precisato che la causa della distorsione della struttura per età non è l’invecchiamento in senso proprio, ovvero la longevità. In questo l’Italia non si distingue dalle altre economie mature avanzate. La distorsione è dovuta alla persistente bassa natalità che produce il processo di degiovanimento, ovvero la riduzione continua della consistenza delle nuove generazioni. Come conseguenza di tale processo l’Italia sta subendo un crollo del tutto inedito e maggiore rispetto alle altre economie mature avanzate della fascia giovane-adulta. La combinazione tra bassa fecondità e riduzione della popolazione nell’età in cui si forma una famiglia, rischia di portare ad una sorta di reazione a catena generazionale: meno genitori e via via ancor meno figli e genitori futuri.

La fecondità italiana va considerata bassa nella misura in cui si distanzia dal valore empiricamente osservato nelle economie mature avanzate che in modo più continuativo e solido hanno investito in politiche di sostegno alle scelte genitoriali. Il valore attuale dei paesi più virtuosi in Europa è poco superiore a 1,8. L’Italia da oltre quarant’anni è sotto 1,5 e il valore più recente è 1,24. Quindi senz’altro molto, troppo, più basso.

Un’altra precisazione è il fatto che ciò che distingue il nostro paese dal resto d’Europa non è il minor desiderio di avere figli ma le condizioni considerate necessarie per averli. Dai dati delle ricerche più solide disponibili sul confronto tra intenzioni e comportamenti emerge che l’Italia è tra i paesi sviluppati con maggior divario tra numero di figli che le donne che si trovano oggi alla fine della vita riproduttiva (attorno ai 45 anni) hanno avuto rispetto a quanto dichiaravano di desiderarne quando avevano 20-24 anni. Coerenti con questi dati sono le evidenze oggettive del minor investimento italiano nelle politiche familiari e a supporto dei progetti genitoriali. Difficile trovare in Europa un paese che abbia investito di meno in tale direzione nei primi due decenni di questo secolo.

Un recente report delle Nazioni Unite (World Population Policies 2021) mostra che i paesi con politiche di sostegno alla natalità hanno superato nel mondo quelli impegnati nella riduzione. Si tratta, nel primo caso, dei paesi con fecondità sotto a 2. Oltre al congedo di maternità, lo strumento più adottato è quello dei servizi per l’infanzia fondamentali per la conciliazione tra lavoro e famiglia (88%), seguito dal contributo economico (78%) e dal congedo di paternità (73%). Su tutte queste misure l’Italia è lontana dalle migliori esperienze internazionali.

Rispetto, allora, alla situazione in cui ci troviamo, qual è l’obiettivo che possiamo darci? Quali margini di azione abbiamo? I margini sono quelli di politiche che agiscano sullo spazio possibile, ovvero quello di avvicinarsi al numero desiderato (attorno a 2) o quantomeno al valore che l’esperienza di altri paesi europei mostra come raggiungibile (1,8). Questo non consente di far tornare la popolazione italiana a crescere, oramai in declino irreversibile, ma quantomeno di evitare che le nascite stesse siano vincolate in un lungo percorso discendente, che porterebbe a squilibri sempre meno sostenibili. E’ una strada, quella della cosiddetta “trappola demografica”, sulla quale siamo già avviati se nulla dovesse cambiare, come mostrano i dati dello scenario mediano delle previsioni Istat.

Nel 2019 le nascite sono state circa 420 mila con un tasso di fecondità pari a 1,27. Lo scenario mediano ipotizza un aumento del tasso di fecondità fino ad arrivare a 1,5 nel 2050 ma ciò consentirebbe di ottenere solo 384 mila nascite. Un aumento della fecondità, quindi, non tale da far tornare a crescere le nascite compensando la riduzione delle potenziali madri.

E’ ancora possibile, quindi, evitare la trappola? Si puntando allo scenario alto, quello più favorevole all’interno dei percorsi possibili delineati dall’Istat. Lo scenario alto tiene ancora aperta la possibilità di un’effettiva inversione di tendenza delle nascite riportandole sopra 500 mila. Andrebbe, infatti, a stabilizzare la fascia sotto i 20 anni e quasi a dimezzare la riduzione nella fascia giovane e centrale adulta (tra i 20 e i 54 anni). Tutto questo grazie all’azione combinata di una fecondità che sale verso una media di 1,8 figli e il contributo delle migrazioni (con saldo migratorio annuo che si stabilizza attorno a 250 mila). Detto in altre parole, la popolazione continuerebbe a diminuire ma verrebbe disattivato il meccanismo di avvitamento verso il basso (il che mette in sicurezza la base strutturale dell’Italia futura). Inoltre, la riduzione della forza lavoro potenziale verrebbe contenuta su livelli tali da non costituire uno svantaggio competitivo rispetto agli altri paesi e poter essere compensata sul versante qualitativo: investendo su una lunga vita attiva e sulle opportunità occupazionali di giovani e donne.

E’ importante precisare che investimento sulla qualità e riduzione degli squilibri quantitativi fanno parte di uno stesso processo di convergenza verso lo scenario alto: da un lato minori squilibri rendono disponibili maggiori risorse da investire sulla qualità (formazione, lavoro, ricerca e sviluppo), d’altro lato una migliore occupazione di giovani e donne – in combinazione con politiche che rafforzano autonomia e conciliazione tra lavoro e famiglie – favorisce l’aumento di nuovi nuclei e nascite.

L’auspicio è che alla ripresa autunnale emerga in modo esplicito l’impegno ad abbandonare la tattica del sistema paese di adattamento allo scenario mediano per porsi l’obiettivo strategico di spostarsi progressivamente verso lo scenario alto. Monitorando anno dopo anno l’efficacia politiche via via messe in campo in funzione della capacità di avvicinarci a tale obiettivo.

Una consapevolezza deve essere chiara: se non si va in questa direzione si condanna di fatto il paese a non poter più intervenire sulle cause degli squilibri ma a vederli crescere e a trovarsi sempre più in difficoltà a gestirne le conseguenze.

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