Introduzione Rapporto Giovani 2023: “Tra incertezza e voglia di nuovo protagonismo”

Tra incertezza e voglia di nuovo protagonismo

  1. Tempi nuovi sospesi

Il 2022, a livello internazionale, sarà ricordato come l’anno del conflitto in Ucraina, mentre a livello nazionale si sono tenute le prime elezioni politiche post Covid-19. Può, inoltre, essere considerato un anno di passaggio con ancora ben presenti i limiti del modello di sviluppo e di welfare del passato ma non ancora visibili (quindi incerti) gli effetti positivi degli investimenti di Next Generation Eu (destinati, in larga parte, alle misure presenti nel PNRR-Piano nazionale di ripresa e resilienza). Il timore è che il 2023 italiano sia più simile al 2022 anziché vedere un paese ben avviato, al meglio delle sue possibilità, in un solido piano di sviluppo con al centro le nuove generazioni.

Il PNRR (soprattutto nella sezione investimento 1.4 “Intervento straordinario finalizzato alla riduzione dei divari territoriali nelle scuole secondarie di primo e di secondo grado e alla lotta alla dispersione scolastica”) prevede interventi di grande portata per il miglioramento dell’istruzione e dell’inclusione scolastica. Nel frattempo i dati continuano però ad essere preoccupanti. Il tasso di abbandono rimane tra i più alti in Europa. I dati Eurostat più recenti rivelano che i giovani italiani di età 18-24 non arrivati a concludere la scuola superiore (gli ELET, “Early Leavers from Education”) sono oltre il 12,5% (circa tre punti sopra la media Ue). Secondo i dati Istat, “nell’anno scolastico 2021/2022, la quota di ragazzi della V classe della scuola secondaria di secondo grado che non hanno raggiunto un livello di competenza alfabetica sufficiente è stata del 48,5%, stabile rispetto all’anno precedente (48,2%) ma ancora molto distante dai risultati pre-pandemia (35,7% nell’anno scolastico 2018/2019). Anche la competenza matematica inadeguata è elevata, 49,9% in media in Italia, sui livelli dell’anno scolastico precedente (50,3%) ma lontana dai livelli raggiunti nell’anno scolastico precedente alla pandemia (39,3% nel 2018/2019)” .

Anche sul versante NEET (i giovani “Not in Education, Employment or Training”, ovvero coloro che non studiano e non lavorano), il PNRR prevede azioni di rilievo, in particolare di rafforzamento della formazione professionale e delle politiche attive del lavoro. Non bastano però le risorse per convergere verso le migliori esperienze europee, serve una grande attenzione all’implementazione coerente con il contesto italiano e le caratteristiche delle diverse realtà territoriali.

I dati mostrano alcuni progressi ma ancora molto modesti, con divario dal resto d’Europa che, anche qui, rimane molto ampio: nella seconda metà del 2022 la percentuale di Neet, nella fascia 15-24 anni, è scesa a valori attorno al 15%, con media Ue è sotto il 10%. Rimaniamo, quindi, ben saldi al comando in Europa nella classifica dello speco di giovani

Il valore risulta ancor più alto poi nella fascia 25-34 (su livelli oltre il 25%), ovvero quando la grande maggioranza ha finito gli studi, si confronta con le reali possibilità di impiego e confronta aspettative con quello che il mercato offre.

Le difficoltà di solido ingresso nel mondo del lavoro e la carenza di politiche abitative accentua la dipendenza economica dai genitori e porta a rinviare importanti tappe di transizione alla vita adulta. Sulle scelte di vita impegnative e responsabilizzanti, come quella di avere un figlio, oltre alle difficoltà oggettive pesa anche il clima di incertezza verso il futuro causato dalla pandemia e dal conflitto in Ucraina.

Il 2022 è stato anche un anno in cui sia fatti di cronaca (spesso con molta enfasi giornalistica) che dati da varie fonti, hanno confermato come la pandemia non abbia causato solo una crisi sanitaria ma altresì prodotto, soprattutto sugli adolescenti, un peggioramento della condizione psicologica ed emotiva e un impoverimento delle competenze sociali. Un peggioramento che risulta maggiore per chi vive in contesti territoriali deprivati e con meno risorse socio-culturali di partenza. Se da un lato questi giovani hanno bisogno di rispondere all’esperienza collettiva negativa mettendosi alla prova con esperienze concrete personali positive, d’altro lato proprio l’erosione delle life skills (competenze sociali e di cittadinanza) li rende ancor più fragili rispetto alla capacità di ingaggio e impegno nella partecipazione sociale e lavorativa.

L’emergenza ha, quindi, esasperato le diseguaglianze, ma ha prodotto anche una discontinuità su significati e priorità, prima ancora che sui comportamenti, con esiti non scontati, visibili sia sul lavoro che sulla partecipazione sociale.

Riguardo all’occupazione, la ripresa economica dopo la frenata provocata dalla crisi sanitaria ha reso ancora più evidente il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. I giornali italiani sembrano fare a gara nel pubblicare notizie (che spesso si rivelano incomplete o largamente infondate) di datori di lavoro che sarebbero disposti a fare ponti d’oro per neoassunti con le competenze di cui hanno bisogno ed invece non trovano giovani interessati. Secondo tali articoli la colpa è semplicisticamente attribuita ai giovani stessi, che preferirebbero, secondo la narrazione comune, rinunciare a lavorare e dipendere a lungo dai genitori o contare sul reddito di cittadinanza piuttosto che rimboccarsi le maniche.

Al di là degli stereotipi e delle letture superficiali del fenomeno, il disallineamento ha varie cause intrecciate. La prima è quella del “degiovanimento”, ovvero della progressiva riduzione demografica delle nuove generazioni. In Italia abbiamo meno giovani, sia rispetto al passato che nel confronto con le altre economie avanzate. All’epoca del miracolo economico del secondo dopoguerra gli under 30 erano oltre la metà della popolazione italiana, ora sono il 27% (il valore più basso in Europa). Il secondo motivo è la debole formazione e la carenza di competenze necessarie per il mondo del lavoro nelle economie moderne avanzate. Il sistema produttivo italiano si accorge della mancanza di manodopera qualificata quando deve assumere, ma, molto meno degli altri paesi con cui ci confrontiamo, si fa per preparare per tempo le competenze necessarie attraverso un’interazione continua tra aziende, scuole e istituzioni. Ma anche questo, pur necessario, risulta sempre meno sufficiente. Non basta, infatti, formare bene i giovani è necessario anche essere attrattivi nei loro confronti e saper valorizzare al meglio il loro specifico capitale umano. Nei Millennial e nella Generazione Zeta è forte il desiderio di essere riconosciuti nella propria specificità. Sentono come riduttivo che venga chiesto di portare solo le competenze di cui l’azienda ha bisogno, mentre vorrebbero soprattutto poter portare quello che sono. Il fenomeno della “Great resignation” è espressione di questo mutamento qualitativo di fondo. Se non sentono di crescere in termini sia di proprio sviluppo umano sia di contributo nello sviluppo dell’azienda con il proprio valore distintivo, perdono motivazione e lasciano. La chiamata che li ingaggia non è quella di sostituire un lavoratore andato in pensione o coprire una mansione scoperta, ma generare valore con la novità che rappresentano.

Questo non vale solo nel mondo del lavoro, ma anche in molti altri campi, compreso quello della partecipazione politica e sociale. Nel 2022 le domande per il Servizio civile hanno subito un rilevante calo. Un segnale preoccupante di fronte agli sforzi di aumentare l’offerta nella prospettiva di renderlo una esperienza “universale”. Per essere universale deve, innanzitutto, essere effettivamente accessibile a ciascun giovane, questo significa chiedersi continuamente come renderlo attrattivo (capace di farsi scegliere) e come migliorare continuamente le condizioni perché sia vissuto come esperienza trasformativa (che rafforza la capacità di sentirsi soggetti attivi del mondo che cambia). Tutto questo come parte di un processo che non ha risultati scontati, ma è un laboratorio continuo in cui si sperimenta, in modo autentico e collaborativo, il fare con le nuove generazioni, con strumenti condivisi per monitorare e valutare gli esiti (al fine di migliorarlo per chi verrà dopo).

Il tempo della giovinezza è sempre pieno di incertezze, di timori verso il futuro ma anche di speranza e voglia di protagonismo. Questo è ancor più vero oggi, in un tempo storico attraversato da grandi trasformazioni  (come quella demografica, ambientale, tecnologica) che mutano il sistema di rischi e opportunità all’interno del quale costruire il proprio percorso di vita; ma caratterizzato anche da grandi eventi imprevisti (come la pandemia e la guerra in Ucraina) che indeboliscono i punti di riferimento per indirizzare le proprie scelte.

  1. I contenuti del Rapporto

Il Rapporto giovani 2023 indaga come i giovani vivono e interpretano i cambiamenti in atto e quali ricadute hanno non solo sulle condizioni oggettive ma anche su preferenze, obiettivi e significati del loro essere e agire nella società e nel mondo del lavoro. I dati vengono analizzati sia confrontando i giovani italiani con i coetanei degli altri grandi paesi europei, sia con attenzione alle specificità del contesto italiano.

Nel primo capitolo (“Formarsi in aula e nel lavoro: cosa ne pensano i giovani italiani”) Triani e Mesa analizzano opinioni e valutazioni sulle esperienze svolte in contesto lavorativo negli ultimi anni della scuola secondaria. In particolare vengono prese in considerazione l’alternanza (ASL) e i Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento (PCTO). Oltre i due terzi degli intervistati auspica un rapporto più stretto tra scuola e mondo del lavoro. Anche, più specificamente, rispetto alle ore di PCTO solo una minoranza pensa che andrebbero ridotte. Non è trascurabile il numero di chi teme che tali esperienze, ma ancor più gli stage, possano diventare forme di sfruttamento degli studenti. Ma l’atteggiamento generale, anche tra i liceali, è positivo e costruttivo, ovvero la richiesta è che tali strumenti non vengano indeboliti ma migliorati, sia in termini di sicurezza dell’ambiente di lavoro sia di qualificazione delle attività in coerenza con l’effettivo rafforzamento delle competenze trasversali. In conclusione, secondo gli Autori, occorre “accrescere gli sforzi per coltivare una prospettiva che sappia riconoscere come la cultura del lavoro sia fattore interno alla formazione della persona e come i contesti lavorativi concorrano a costruire valori e atteggiamenti e siano quindi attori culturali”.

Nel secondo capitolo (“Il valore aggiunto delle organizzazioni di economia sociale:  la percezione dei giovani”) Pozzi, Mannarini, Marta, approfondiscono l’atteggiamento nei confronti delle Organizzazioni non profit e di volontariato, la conoscenza che le nuove generazioni ne hanno e quali componenti del valore sociale vengono maggiormente riconosciute e apprezzate. Alla base di tale domande sta anche la sfida concettuale e metodologica di come è possibile misurare il valore sociale del volontariato. Uno dei risultati che emergono con maggior evidenza è che, ancor più per i giovani oggi, la conoscenza e il riconoscimento di valore passa soprattutto per l’esperienza. Chi non ha fatto tale esperienza o non è entrato in contatto diretto con il protagonismo dei volontari, tende ad averne una percezione positiva ma non a coglierne pienamente natura, funzione nel promuovere nella comunità i beni relazionali, capacità di rafforzare le competenze sociali di chi è coinvolto attivamente. Secondo gli Autori, questi risultati offrono interessanti spunti operativi alle Organizzazioni di economia sociale “che spesso lamentano consistenti difficoltà nel coinvolgere i giovani”. Sottolineano, inoltre, come uno dei fattori più importanti nell’incentivare la partecipazione giovanile risieda “proprio nella capacità di tali organizzazioni di rendere visibile e comunicare la dimensione del valore sociale che sottende la loro mission e che si esplica nelle loro attività”.

Nel terzo capitolo (“I giovani e la casa. significati e prospettive”), Bichi, Leone, Migliavacca, esaminano la concezione e significati attribuiti dalle nuove generazioni alla casa e all’abitare, evidenziando sia continuità e discontinuità con la visione tradizionale propria delle generazioni precedenti, sia similarità e differenza rispetto ai coetanei degli altri paesi. Il vivere a lungo con i genitori e la proprietà della casa sono due aspetti riconosciuti della condizione abitativa nel nostro paese. Mutamenti rilevanti si stanno però producendo nei percorsi di transizione alla vita adulta in relazione all’autonomia abitativa, sia in risposta a nuove necessità che a nuove preferenze. Aumenta l’uscita dalla famiglia di origine quando ancora non si ha una stabilità lavorativa, non si è ancora stabilito il luogo in cui stabilirsi nel lungo periodo, non si è pronti per una unione consolidata. In corrispondenza aumenta anche il ricorso all’affitto pur, in molti casi, avendo possibilità di ereditare una casa familiare di proprietà (che rischia però di diventare un vincolo alle scelte di mobilità dei giovani). Tra i profili che si stanno consolidando, ve ne sono due opposti: uno centripeto e uno centrifugo rispetto alle grandi città dove le opportunità di lavoro sono maggiormente concentrate. In quello centripeto la casa è più un bene strumentale (poco identificata come spazio privato o “bene rifugio”), senza un forte legame di appartenenza e prevede spesso soluzioni condivise. La vita è di fatto tutta proiettata all’esterno. Insomma: attrazione verso il centro urbano (per interessi di studio o lavoro) e proiezione esterna all’abitazione.

Il secondo profilo è invece proprio di chi cerca contesti decentrati, meno inquinati e congestionati, con più aree verdi, più sicurezza, più senso di comunità. Qui la casa tende maggiormente ad essere intesa nella sua versione classica. Gli Autori non trascurano il tema delle diseguaglianze legate al tema dell’abitare: “molte sono le persone prive una casa, in particolare i giovani non riescono a trovare abitazioni economicamente accessibili, altri ancora vivono in case sovraffollate, energicamente inefficienti e in zone prive di servizi”.

Nel quarto capitolo (“Partecipazione politica e comportamento elettorale”), che chiude la prima parte, Bonanomi e Rosina trattano il rapporto tra nuove generazioni e politica a partire dai dati raccolti in un’indagine condotta poco dopo le elezioni del 25 settembre che hanno dato avvio alla XIX legislatura e portato al Governo Meloni. Nel dibattito pubblico si trovano frequentemente analisi giornalistiche che indicano i giovani come disinteressati alla politica e poco responsabili rispetto al dovere civico del voto. Si tratta di una lettura non solo ipersemplificata, ma anche distorta e autoassolutoria per la classe dirigente italiana. Da un lato manca l’attenzione al mutamento antropologico di fondo su come le nuove generazioni interpretano il rapporto tra domande e offerta politica. D’altro lato anche i dati su atteggiamento e partecipazione elettorale smentiscono tale lettura. La percentuale di astenuti non è risultata più alta tra le nuove generazioni rispetto a quelle più mature. Sulla fascia degli under 25 ha inoltre pesato la difficoltà di esercitare il voto se si studia o lavora lontano dal luogo di residenza. Ampio risulta, inoltre, il riconoscimento dell’importanza che la politica può avere per migliorare la vita dei cittadini. La critica dei giovani, piuttosto, “è soprattutto sulle carenze di chi viene eletto e ha posizioni di potere nel fare le scelte che davvero servono al Paese. E’ questo che porta a disillusione rispetto alle istituzioni pubbliche e a diffidenza verso i partiti. Il senso di lontananza è rafforzato anche dalla bassa capacità di coinvolgere i giovani stessi”.

La seconda parte del volume, usualmente dedicata ad alcuni approfondimenti tematici, si apre con un capitolo di Luppi (“La preoccupazione per il conflitto in Ucraina e l’incertezza sui progetti di vita”) che indaga, sui giovani italiani e in ottica comparativa europea, le conseguenze percepite dalle nuove generazioni dall’impatto combinato della pandemia e dell’invasione russa in territorio ucraino. Ne esce un quadro variegato, con alcune categorie sociali particolarmente esposte ad un effetto amplificato rispetto a vulnerabilità già presenti e/o a condizioni di incertezza persistenti. Le preoccupazione rispetto al lavoro sono sentite maggiormente dai giovani italiani e spagnoli, in particolare tra chi ha lavoro precario e chi è alle dipendenze. Chi ha figli avverte maggiormente il peso di un senso generalizzato di incertezza che grava sul futuro collettivo. La fase di età con percezione negativa più forte è quella giovane-adulta, in particolare la fascia 30-34 anni. Quella in cui il passaggio all’età adulta pone le sfide più impegnative e mette di fronte a decisioni con cruciali implicazioni sul percorso successivo. Come avverte l’Autrice: il rischio è quello di un impatto negativo su già deboli progetti di vita: è soprattutto nei contesti di bassa fecondità, come quello italiano o spagnolo, che il sommarsi degli effetti della crisi bellica e di quella pandemica può maggiormente inasprire “le difficoltà connesse alla transizione alla vita adulta più in generale, e, più in particolare, il fenomeno del calo delle nascite e della contrazione della fecondità fra le attuali giovani generazioni”.

Nel sesto capitolo (“La preoccupazione per il riscaldamento globale e la mobilitazione dei Fridays For Future”) Introini e Pasqualini approfondiscono – attraverso una ricerca che combina dati quantitativi e qualitativi – caratteristiche e modalità dello sviluppo nelle nuove generazioni della sensibilità ambientalista e come si trasforma in urgenza di agire attraverso comportamenti individuali e movimenti collettivi. I dati confermano come la preoccupazione sia in generale elevata e ampiamente condivisa sia la consapevolezza dell’urgenza che pone. Alta, di conseguenza, è la propensione ad adottare pratiche personali più sostenibili (meno sprechi, più consumi responsabili) ma molto più bassa è la disponibilità ad agire collettivamente in modo stabile e strutturato attraverso l’adesione ad una organizzazione pro-ambiente. In particolare il movimento Fridays For Future è ben conosciuto, nei suoi valori e obiettivi, solo da una minoranza dei giovani. La grande maggioranza condivide tali valori e obiettivi (oltre il 70% dei 18-34enni intervistati), mentre si scende al 40% per quanto riguarda l’adesione alle strategie di azione e mobilitazione (per il 60% circa tale movimento dovrebbe migliorare la sua capacità di formulare idee e proposte concrete per contrastare il cambiamento climatico). Nel complesso, secondo gli Autori “sembrerebbe esistere una platea di potenziali attivisti disponibili e uno spazio, quindi, per una sua ulteriore espansione. La palla passa quindi al movimento stesso, alla sua capacità di elaborare narrative efficaci che possano comunicare con più efficacia ciò che esso realmente fa a questa più ampia platea”.

Come per l’edizione precedente, anche in questa il volume dedica una specifica attenzione alle specificità territoriali interne (l’anno scorso al Sud in generale) e offre uno sguardo verso l’esterno (dopo la Spagna si approfondisce qui il caso del Portogallo).

Nel primo di questi due focus Ellena e Luppi descrivono la condizione delle nuove generazioni in Toscana combinando i dati di una ricerca quantitativa e una qualitativa. In positivo emerge una maggior soddisfazione, rispetto al quadro nazionale, rispetto alla propria vita e alle proprie scelte formative. Maggiori sono anche l’attaccamento al territorio e la fiducia nelle istituzioni locali. Questo favorisce anche una maggior consapevolezza rispetto alle condizioni da migliorare e si lega ad una crescita della domanda di buona politica ma anche di maggior coinvolgimento. In negativo pesa una fecondità più bassa rispetto ad altre regioni e una struttura demografica più sfavorevole verso i giovani. Gli autori sottolineano, inoltre, che tra le criticità sollevate “si annoverano anche l’assenza nei piccoli centri abitati di servizi e politiche sociali a supporto di apprendimento, ascolto psicologico e sussistenza materiale per i giovani”.

Chiude il volume il capitolo di Simões sulla realtà e le sfide che vivono i giovani portoghesi. Viene offerto un ritratto generale sulla condizione delle nuove generazioni in Portogallo a fronte dell’impatto della Grande recessione e della crisi sanitaria, andando poi ad approfondire limiti, specificità e caratteristiche della transizione scuola-lavoro. Partendo da condizioni strutturali di forte svantaggio, secondo l’Autore, negli ultimi dieci anni il Portogallo ha fortemente investito in politiche attive del lavoro, serve però ora una maggior capacità di mirare le politiche con “una prospettiva incentrata sulla persona, al fine di rispondere alle esigenze di coloro che sembrano essere più a rischio di rimanere indietro nel percorso della transizione scuola-lavoro”.

I dati e le analisi di questo Rapporto evidenziano come molti contesti (famiglie, scuola, aziende, organizzazioni, istituzioni) stiano sperimentando una crescente difficoltà ad ottenere dai giovani ciò che si vorrebbe e ci si aspetta da loro. Il problema è forse dovuto al fatto che tutti (troppi) partono da “ciò che ad essi serve che i giovani siano” anziché da “ciò che i giovani sono e vogliono diventare”.

Ecco allora che, dopo tanto tempo, anche in Italia potremmo avere politiche attive per l’impiego, formazione di competenze, contratti stabili, ma con giovani che non si riconoscono nell’idea di lavoro che gli viene proposto. Potremmo avere misure di sostegno alla formazione di una famiglia e di conciliazione vita e lavoro, ma con giovani adattatisi a sentirsi realizzati anche senza figli. Potremmo avere un servizio civile che si estende in modo universale, ma che non riesce a intercettare i mutamenti nella domanda di impegno sociale.

Far soffiare il vento con forza dopo che è stato a lungo flebile non porta automaticamente i giovani ad issare le loro vele. Se non è chiaro dove andare e come aggiornare le coordinate del sistema di orientamento, le vele rischiano di rimanere basse o solo timidamente alzate.

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