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Troppi squilibri tra generazioni, occorrono case servizi e lavoro

L’Italia è uno dei paesi da più lungo tempo in crisi demografica, ovvero in forte deficit rispetto alla capacità di garantire un ricambio generazionale equilibrato nella popolazione (e, conseguentemente, nei processi sociali e produttivi).

La fecondità italiana è precipitata da valori superiori a due figli in media per donna (soglia di rimpiazzo tra generazioni) a metà degli anni Settanta del secolo scorso, a meno di 1,5 figli prima della metà degli anni Ottanta. Non è poi più risalita sopra tale valore. Questo ha profondamente alterato la struttura per età, con un progressivo sbilanciamento negativo verso le età più giovani. Nella prima metà degli anni Novanta siamo diventati il primo paese al mondo in cui la popolazione inferiore ai 15 anni è scesa sotto quella di chi ha 65 anni e oltre. Successivamente siamo diventati il paese con più bassa incidenza di under 35 in Europa, entrando quindi, in modo più accentuato delle altre economie mature avanzate, in una fase di inedita e marcata riduzione delle coorti entranti in età lavorativa (oltre che riproduttiva).

Queste dinamiche hanno portato all’esaurimento della capacità endogena di crescita della popolazione italiana, entrata dal 2014 in fase di declino, con un saldo naturale negativo non più compensato nemmeno dall’immigrazione. La questione che ora si pone per l’Italia non è più far tornare a crescere la popolazione (destinata in ogni caso a diminuire), ma quanto lasciar aumentare gli squilibri interni tra generazioni. Il rischio maggiore è ora quello di superare il punto di non ritorno anche rispetto alla curva delle nascite.

Nelle “Considerazioni finali”, presentate il 31 maggio in occasione della pubblicazione della Relazione annuale sul 2022, il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha indicato la crisi demografica come una delle maggiori debolezza di fondo del Paese. Ha, in particolare, indicato l’immigrazione come uno dei fattori principali per mitigare la riduzione della forza lavoro potenziale, conseguenza della persistente denatalità. Per quanto rilevante sia e possa continuare ad essere il contributo dei flussi migratori, se la natalità continua a diminuire tali ingressi saranno sempre più insufficienti a colmare gli squilibri strutturali crescenti nel rapporto tra popolazione anziana e in età lavorativa. Se, da un lato, l’immigrazione è un fattore rilevante per rispondere agli squilibri demografici e ai fabbisogni delle imprese in molti settori, d’altro lato non è possibile un’attrazione di qualità senza sviluppo economico e possibilità di integrazione lavorativa e sociale. Inoltre, senza solide politiche familiari e generazionali a trovarsi ancor più in difficoltà nei propri progetti di vita saranno ancor più i figli degli immigrati e le famiglie straniere.

Non è possibile, quindi, affrontare la sfida demografica pensando solo di gestire gli squilibri, spostando in avanti l’età pensionabile e aumentando l’immigrazione, è cruciale intervenire in modo concomitante sulle cause.

I dati, del resto, sono eloquenti. Nel 2010 il numero medio di figli per donna in Italia era pari a 1,44 e ciò consentiva di ottenere 562 mila nascite. Lo scenario mediano delle più recenti previsioni Istat contempla un aumento del tasso di fecondità che consente di risalire fino a 1,44 figli nel 2039, a cui però corrisponde un totale di appena 424 mila nascite. A parità di numero medio di figli per donna ci troveremmo, quindi, con circa 140 mila nascite in meno. L’unico percorso che evita squilibri che si autoalimentano è quello che corrisponde allo scenario alto delle previsioni Istat. Con tale percorso si arriverebbe a circa 1,7 figli per donna nel 2039 con l’esito di riportare in modo solido le nascite attorno al mezzo milione.

Per i valori bassi da cui partiamo e per la struttura per età maggiormente compromessa, è necessario, insomma, convergere verso i paesi con maggior fecondità in Europa. I margini ci sono, dato che, come evidenziano varie ricerche internazionali e le stesse indagini Istat, il numero desiderato di figli è in Italia attorno a due.

Quello che altre economie mature che crescono in modo più solido del nostro hanno capito è che le politiche familiari vanno intese come parte integrante delle politiche di sviluppo, strettamente connesse con l’occupazione giovanile, la partecipazione femminile al mercato del lavoro, lo sviluppo umano a partire dall’infanzia e lungo tutte le fasi della vita. Intervenire in questa direzione in modo sistemico non favorisce solo la vitalità del territorio ma porta anche a migliorare gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.

Per riuscirci, partendo dai livelli più bassi e con una struttura demografica più compromessa, è necessario passare dall’essere stati nel decennio scorso i peggiori in Europa a porsi ora come l’esempio da seguire nelle politiche familiari e per le nuove generazioni da realizzare dopo l’impatto ulteriormente depressivo della pandemia.

E’ però bene essere consapevoli che non esistono misure in grado di essere da sole trasformative, vanno disegnate e implementate in modo da produrre un effetto leva in modo integrato. Il sostegno economico fornisce senz’altro il riscontro più immediato del valore collettivo dato alla scelta di avere figli. Ma perché a tale spinta si agganci un processo di inversione di tendenza che continui nel medio-lungo periodo serve un forte investimento sulle misure di conciliazione. L’asse portate è un solido sistema di servizi per l’infanzia con offerta accessibile – in termini di copertura, costi e qualità adeguata – sul tutto il territorio. La cultura della conciliazione deve, poi, essere aiutata a svilupparsi e consolidarsi nelle aziende (comprese le piccole e medie, aiutandole a trovare soluzioni specifiche in termini di part-time e smart working) e sul versante maschile (promuovendo i congedi obbligatori di paternità). Va, inoltre, rafforzato il percorso di autonomia dei giovani, con adeguate politiche abitative e di inserimento stabile nel mondo del lavoro. Siamo, del resto, il paese in Europa con età più tardiva al primo figlio.

Su tutti questi fronti continuiamo, da troppo tempo, ad essere molto più deboli rispetto alle altre economie avanzate con le quali ci confrontiamo, con conseguenti squilibri che vincolano al ribasso sviluppo e benessere futuro.

Clima: i giovani sono protagonisti

I giovani ci sono e ci credono. Sono sempre di meno ma vogliono contare di più. Non sono facili da trovare dove ci si aspetta che siano, ma mostrano una grande voglia di protagonismo negli ambiti in cui sentono di poter fare la differenza a modo loro.

Vogliono soprattutto esserci dove le cose accadono, dove ci sono questioni considerate centrali per il proprio tempo, dove serve la loro spinta per superare limiti e storture di sistema. Lo si è visto recentemente nella mobilitazione spontanea a favore delle zone alluvionate, lo si riscontra sui temi dell’ambiente e dei diritti, lo si è osservato nella protesta per gli alti affitti universitari. L’elemento comune è il sentire una chiamata a farsi soggetti attivi in modo collettivo nel migliorare una realtà critica con il proprio contributo distintivo, portando le proprie sensibilità e istanze.

La questione ambientale, in particolare, è posta dai giovani come priorità. E’ diventata parte dell’identità generazionale per l’urgenza con la quale è posta e le modalità sperimentate per portarla al centro dell’attenzione pubblica. Se esistono elementi di discontinuità rispetto a come il cambiamento climatico è stato considerato e gestito dalle generazioni precedenti questo non significa che venga considerato un tema di conflitto generazionale. Va anche considerato che l’universo dei giovani è composto da diverse galassie, non da un gruppo monolitico e monopensiero, e al suo interno le posizioni sono articolate, frutto di un pensiero critico complesso ove si riflettono, verosimilmente, esperienze di vita, considerazioni personali, familiari e sociali. Anche rispetto alla radicalità delle azioni da intraprendere, le posizioni sono diverse.

I dati dell’indagine realizzata da Ipsos per l’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo e in collaborazione con il Corriere della Sera, evidenziano in modo chiaro come l’attenzione alla questione riguardi certamente in modo distintivo i giovani, ma imponga un impegno traversale e condiviso. Richiede che tutti si rimettano in discussione: nei comportamenti personali, nell’azione pubblica e nel modello di sviluppo.

Ecco allora che oltre il 60% dei rispondenti auspica che la questione sia gestita insieme da tutte le generazioni, in un costante dialogo e confronto. Riguardo, poi, alla responsabilità del raggiungimento e consolidamento dello sviluppo sostenibile le risposte dei giovani si suddividono in tre blocchi pressoché equivalenti: per circa un terzo degli intervistati lo sviluppo sostenibile dipende dalle scelte quotidiane dei singoli cittadini, per un terzo dalle aziende, per un terzo, infine, dalla politica. Chiedono, implicitamente, un’alleanza – o almeno una sinergia – tra istituzioni, imprese e cittadini per un traguardo comune.

Proprio lo sviluppo sostenibile è forse la sfida che consente (e costringe) maggiormente ad adottare una prospettiva che anticipa il futuro desiderato per mettere in discussione quanto si è fatto sinora e impegnando le scelte del presente. Se l’azione delle nuove generazioni è portata a scardinare rendite e finte sicurezze del passato, rispetto alle scelte responsabili del presente che migliorano il futuro i giovani non vogliono sentirsi soli. C’è il riconoscimento che non esistono soluzioni semplici. Va ripensato assieme il modello sociale e di crescita. Ma non è semplice nemmeno cambiare i propri comportamenti. Su questo c’è anche una disponibilità all’autocritica. Più del 40% afferma che in teoria vorrebbe vivere in maniera sostenibile ma che non lo fa “perché non è pratico”. Oltre uno su tre non privilegia la praticità ma non si sente pienamente coerente con l’impegno quotidiano verso la sostenibilità. C’è un miglioramento nel passaggio dagli adolescenti (fascia 14-17) ai giovani (18-22 anni). Qui sono oltre uno su cinque coloro che adottano una posizione di impegno in prima persona anche nelle proprie azioni private. Questo risulta ancor più forte tra le ragazze, che si spendono anche maggiormente in un ruolo di stimolo a comportamenti sostenibili all’interno della famiglia.

Assieme alla necessità di andare oltre quello che le nuove generazioni da sole possono fare, nell’azione individuale e collettiva, c’è anche il riconoscimento dell’importanza di aver solidi punti di riferimento e orientamento. E’, allora, interessante osservare come i pari e i social network siano considerati fonti importanti di informazione e influenza, ma siano preceduti da scienziati ed esperti. Anche i genitori hanno un ruolo importante (soprattutto per gli adolescenti), molto meno, invece, gli influencer. In breve: riferimento a contenuti autorevoli (esperti), possibilità di confronto orizzontale (amici e social network), riscontro in termini di importanza e con soggetti di fiducia (i genitori) sono i principali motori che alimentano conoscenza, consapevolezza, coinvolgimento sui temi ambientali e della sostenibilità.

Per gli adolescenti una fonte importante sono anche gli insegnanti: poco più del 66% dei partecipanti alla ricerca li ha indicati come in grado di influenzarli molto o abbastanza in merito a questi temi. Pare dunque che non solo adolescenti e giovani abbiano bene presenti i tre assi della sostenibilità alla base di Agenda 2030 –  ambientale, sociale ed economica – ma anche che gli adolescenti ripongano grande fiducia nella scuola in merito alla possibilità di educarsi a questi valori. E cosa chiedono alla scuola? Le idee anche qui sono molto chiare e mettono in luce il loro voler essere non “corpi sdraiati” ma “teste pensanti”. Alla scuola chiedono di promuovere in modo accessibile un pensiero complesso, capace di valorizzare la storia del passato ma anche di proiettarsi nel futuro: capire e aver solide radici per poter progettare. Chiedono una lettura interdisciplinare dei fenomeni: per comprendere  e agire nella complessità sono necessarie competenze e conoscenze multiple e integrate.  Chiedono di connettere globale con locale. E, infine, chiedono stimoli per sviluppare un pensiero critico.

Nella grande maggioranza c’è, in definitiva, il desiderio di veder crescere sia la propria capacità di impegno personale sia le condizioni collettive, sociali ed economiche, che favoriscono lo sviluppo sostenibile. Mettono al centro il proprio protagonismo positivo ma riconoscono le competenze agli adulti di cui si fidano e chiedono di costruire insieme sostenibilità integrale e bene comune.

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Servizio Civile. Risorsa preziosa ma i ragazzi vanno sostenuti

Per generare benessere con le nuove generazioni nelle società moderne avanzate è necessario rispondere a tre cruciali domande. La prima è: chi sono i giovani e come si differenziano rispetto alle generazioni precedenti. In secondo luogo ci si deve chiedere come sta cambiando la realtà attorno a loro e quali diverse sfide pone rispetto al passato. Infine è necessario comprendere come i giovani interpretano tali sfide, con quali aspettative e in funzione di quali risultati desiderati. Si tratta di tre domande aperte con risposte che vanno continuamente rimesse in discussione in un processo di costante aggiornamento e sperimentazione. Nessun processo che assegni alle nuove generazioni un ruolo da protagonista è possibile senza riconoscere la specifica novità di cui sono portatrici e senza strumenti efficaci che consentano a tale novità di farsi valore (per sé e per gli altri).

Il posto dei giovani, tra presente e futuro

Progettare il futuro in un contesto in continua e rapida trasformazione
È ormai consolidato come, nel corso degli ultimi decenni, i profondi mutamenti che hanno interessato le società contemporanee abbiano determinato importanti cambiamenti sulla vita di uomini e donne, che si sono trovati a vivere le proprie scelte in un contesto in continua e rapida trasformazione. Questo è avvenuto, e sta avvenendo, in uno scenario dove i sistemi di welfare (quando presenti) non sempre riescono a garantire efficaci reti di protezione. In una situazione di marcata instabilità, profondamente segnata dalla crisi economico-finanziaria del 2008, la pandemia da Covid-19 ha rappresentato un improvviso e inatteso cambiamento nelle dinamiche globali, determinato una discontinuità imprevista e improvvisa 1.

All’interno di queste dinamiche, i giovani rappresentano la componente più colpita nel breve e nel medio-lungo periodo, sia per quanto riguarda le condizioni materiali, sia relativamente ai processi e alle dinamiche di costruzione dell’identità. Rilevanti (e potenzialmente profonde) sono le conseguenze sulla propensione a investire e progettare il futuro, in un contesto in cui le politiche faticano a dare risposte efficaci e sostegni opportuni, rimanendo sbilanciate verso la tutela delle generazioni adulte (con più peso elettorale e più presenza nelle categorie più influenti e meglio rappresentate). La pandemia ha acuito le diseguaglianze intergenerazionali e intragenerazionali, mettendo a dura prova tanto i sistemi politico-istituzionali quanto i sistemi economico-produttivi. Da ultimo, le recenti tensioni politiche connesse al conflitto russo-ucraino, hanno aggiunto ulteriore incertezza, sia rispetto alle dinamiche economiche della ripresa sia nell’atteggiamento dei singoli verso il futuro.

Uno dei caratteri distintivi delle società avanzate è identificabile nel binomio complessità e rapidità, dal quale derivano molte più opzioni per le nuove generazioni, rispetto alle generazioni precedenti, ma anche un maggior grado di insicurezza rispetto alle scelte da intraprendere. In questo senso la carenza, se non la mancanza, di sistemi di orientamento e supporto negli snodi dei percorsi di vita e professionali, aumenta il vincolo al ribasso di aspirazioni e obiettivi, generando un passaggio alla vita adulta in cui si rischia di portare delusioni e frustrazioni, anziché energie e competenze, necessarie per contribuire alla crescita e allo sviluppo sociale.

Se i giovani, forse ancor più che in passato, rappresentano la chiave fondamentale per agire sul cambiamento, occorre garantire condizioni adeguate perché possano svolgere tale ruolo, a fronte dell’aumento di complessità e dell’indebolimento del loro peso demografico, in senso sia assoluto che relativo, rispetto alle generazioni più mature. Se messe nelle condizioni adeguate, le giovani generazioni rappresentano la componente della popolazione maggiormente in grado di cogliere nuove opportunità dalle trasformazioni in atto. Se, invece, i giovani sono deboli e mal supportati, il rischio è che prevalgano le fragilità esponendoli a vecchi e nuovi rischi.

L’investimento dell’Ue, il ritardo italiano
Il programma NextGenerationEU, con i suoi 750 miliardi di euro messi a budget, rappresenta la principale risposta dell’Europa per porre le basi di una nuova partenza. Al nostro Paese sono stati riconosciuti poco più di 190 miliardi confermando il ruolo che l’Italia ha deciso di giocare attraverso l’attuazione del Piano di Ripresa e Resilienza. La centralità posta dall’Unione Europea sul fattore “giovani” risiede anche nella scelta di titolare il programma proprio alle “nuove generazioni europee” prevedendo, tra le sei principali missioni dei programmi di spesa nazionali, una specifica missione dedicata alle “politiche per la prossima generazione, l’infanzia e i giovani, come l’istruzione e le competenze”.

Nonostante la consistente quota destinata all’Italia, il nostro Paese non ha ritenuto necessario declinare le politiche per il contrasto al divario delle giovani generazioni all’interno del proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), limitandosi, peraltro anche in tema di pari opportunità, a prevedere una generica (quanto poco monitorabile) “priorità orizzontale”. Nonostante ciò, a livello politico si sono attivate anche misure che vanno nel senso di una attenzione specifica, come l’istituzione del COVIGE – Comitato per la Valutazione dell’Impatto Generazionale delle politiche pubbliche presso la Presidenza del Consiglio dei ministri 2.

Il progressivo processo di disinvestimento sulle giovani generazioni, che ha caratterizzato negli ultimi decenni il nostro Paese, incidendo in termini di riduzione in quantità e qualità adeguata di nuovi entranti nella popolazione, nella società, nell’economia, non è solo iniquo ma anche controproducente 3. Determina una riduzione delle loro prospettive anche rispetto agli ambiti e ai territori nei quali vivono: partecipano di meno al mercato del lavoro, rimangono più a lungo dipendenti dalle famiglie, si devono adattare a lavori spesso irregolari o sottopagati, oppure scelgono di emigrare. La lunga dipendenza dai genitori rappresenta sempre più una risposta a squilibri generazionali e all’aumento delle incertezze occupazionali.

Il tema delle diseguaglianze strutturali continua a rappresentare un elemento determinante e discriminante nelle chance che definiscono il destino sociale. In definitiva, i giovani italiani sono numericamente pochi, risultano meno formati a livello avanzato, poco valorizzati quando si inseriscono nel sistema produttivo, più passivamente a carico del sistema pubblico o della famiglia di origine 4. Se compariamo l’Italia con gli altri Paesi europei, emerge come i giovani siano meno messi nella condizione di creare valore per il “sistema Paese” e più esposti al rischio di diventare un peso in termini di costi sociali.

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Esigua, fragile, demotivata. Una generazione fantasma si aggira per l’Italia

Il rapporto tra giovani e mondo del lavoro è in profonda trasformazione. Alto è il rischio, in particolare, che la generazione Zeta, la prima a svolgere tutta la propria vita in questo secolo e la prima a proiettare tutta la propria carriera lavorativa nel post pandemia, diventi una ghosting generation.

L’Italia, con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ha concentrato la sua attenzione sulla necessità di dare una infrastruttura al paese che, da un lato, superi i limiti del passato e, dall’altro, sia coerente con le sfide del futuro legate alla transizione verde e digitale. Tutto questo, però, non può essere realizzato come un vestito con modello, foggia e materiale pensati per il cambio di stagione ma senza aver preso misure, caratteristiche e preferenze di chi dovrà indossarlo. Misure, caratteristiche e preferenze delle nuove generazioni corrispondono a tre ordini di fattori sottovalutati nel recente passato, ma destinati ora a pesare in modo combinato sulla possibilità di rilancio del paese con il rischio di vincolarla al ribasso.

Il primo è quello che ha cause più strutturali e radicate nei processi di medio-lungo periodo. Ci siamo preoccupati negli ultimi decenni dell’invecchiamento, ovvero del continuo aumento della popolazione anziana, ma molta meno attenzione abbiamo dato alla progressiva e accentata riduzione della consistenza quantitativa delle nuove generazioni. I dati Eurostat più recenti evidenziano come l’Italia sia lo stato membro con percentuale più bassa di under 30: 28,3% contro valori superiori al 33% in gran parte d’Europa.

Il riscontro dell’essere il paese che sta affrontando la più drastica riduzione del potenziale di forza lavoro in modo del tutto inedito rispetto al passato, lo si può ottenere dal confronto tra la fascia di età 30-34 e la fascia 50-54. In Italia la prima risulta ridotta del 33% rispetto alla seconda, mentre il divario è più contenuto in Francia (meno del 10 percento) e in Germania (meno del 15 percento). Insomma, la generazione che si sta immettendo all’interno dei processi produttivi nel nostro paese è un terzo in meno rispetto a chi ha occupato sinora la parte centrale della forza lavoro. Nessun altro paese in Europa sta sperimentando un crollo di questa entità. Come ci siamo preparati sinora?

Questo processo di “degiovanimento”, finora trascurato, va considerata una delle sfide principali di tutto il paese, rispetto alla quale le nuove generazioni non vanno considerate il problema ma aiutate a diventare la soluzione. Formare bene i giovani, inserirli in modo efficiente nel mondo del lavoro, valorizzarne al meglio il contributo qualificato nelle aziende e nelle organizzazioni, consente di rispondere alla riduzione quantitativa dei nuovi entranti con un rafforzamento qualitativo della loro presenza nei processi che alimentano sviluppo economico, innovazione sociale, competitività internazionale. Frenerebbe, inoltre, la loro fuga verso l’estero e li metterebbe anche nelle condizioni di realizzare in modo più solido il loro progetti di vita, con conseguenze positive sulla formazione di nuovi nuclei familiari e sulla natalità.

Finora il nostro paese si è però rivelato tra quelli in Europa con politiche meno efficaci su questo fronte. E qui sta il secondo ordine di fattori che nel dopo pandemia si stanno ulteriormente complicando. E’ ben noto il fatto che il nostro paese da troppo tempo detiene il record in Europa di NEET (i giovani che non studiano e non lavorano). Le cause vanno attribuite a limiti e inefficienze in tutto il percorso di transizione scuola-lavoro. La risposta non sta, però, solo nel rafforzamento dei centri per l’impiego. Come molte ricerche sul tema evidenziano, a monte c’è anche un deficit di formazione e di competenze di molti ragazzi che escono dal sistema dell’istruzione. Oltre alla preparazione culturale e tecnica, a fare la differenza tra chi rischia di trovarsi intrappolato nella condizione di Neet e chi, invece, trova la propria strada, è la debolezza delle soft skill (o delle life skill più in generale).

Proprio su questo tipo di competenze si registra il maggior peggioramento dopo l’impatto pandemico. I dati del Rapporto giovani 2022 dell’Istituto Toniolo, appena pubblicato, evidenziano come nel suo complesso la crisi sanitaria sia stata vissuta dai giovani come una grande esperienza collettiva negativa, che ha eroso in modo marcato le risorse positive interne e le competenze sociali in tutte le dimensioni. A diminuire è in particolare chi afferma di avere (“molto” o “moltissimo”) una “Idea positiva di sé” (scesi nei due anni di pandemia da 53,3% del 2020 a 45,9% nel 2022) ma anche chi ha “Motivazione ed entusiasmo nelle proprie azioni” (passati da 64,5 a 57,4%) e chi sa “Perseguire un obiettivo” (da 67,0 a 60,0%).

Il peggioramento è ancora maggiore per chi vive in contesti territoriali deprivati e con meno risorse socio-culturali di partenza. Da un lato questi giovani hanno bisogno di rispondere all’esperienza collettiva negativa mettendosi alla prova con esperienze concrete personali positive. D’altro lato proprio l’erosione delle life skill li rende ancor più fragili rispetto alla capacità di ingaggio e impegno nella partecipazione sociale e lavorativa.

Se, quindi, già prima della pandemia molti giovani si trovavano fuori dal radar delle politiche di attivazione, oggi il non farsi rintracciare rischia per molti di diventare intenzionale. A prevalere sembra essere il bisogno di ritagliarsi un tempo di ritrovata normalità del presente senza restrizioni e complicazioni, ma rischiano di aumentare disorientamento e vulnerabilità se non vengono aiutati a ridefinire le coordinate in cui ritrovare una propria progettualità. Il rischio è che la Zeta diventi una “ghosting generation”, demograficamente leggera e con i singoli membri portati a sottrarsi. Giovani connessi ma con deboli segnali di presenza e con bassa propensione a dar spiegazioni del perché chi li cerca non li trova  (non solo nella dimensione affettiva).

Molti si sottraggono anche (in questo caso soprattutto chi ha maggior formazione e più alte aspirazioni) perché lasciano i contesti – territori e organizzazioni – che non forniscono stimoli e valorizzazione all’altezza delle proprie aspettative. E qui si entra nel terzo ordine di fattori. Sempre i dati del Rapporto giovani, in coerenza con altri segnali emergenti, mostrano come la pandemia abbia accelerato anche un cambiamento nel sistema di priorità e indotto a ridefinire lo spazio strategico in cui collocare la propria azione nei processi di sviluppo economico e sociale, quindi anche rispetto a senso e valore da dare al lavoro.

Si tratta di un cambiamento che complica ancor di più i meccanismi, quantitativi e qualitativi, di confronto e incontro tra domanda e offerta. L’esito auspicato è che la debolezza demografica dei nuovi entranti possa favorire una crescente attenzione non solo rispetto a cosa possono portare nelle aziende in termini di competenze tecnologiche ma ancor prima a come riconoscere e valorizzarne le specificità antropologiche. Ciò significa dare più importanza, dal lato dell’offerta, a cosa sono portati a dare e desiderano essere rispetto a ciò che, lato domanda, ci si aspetta debbano conformarsi a fare (troppo spesso, finora, adattandosi al ribasso).

Da come il mondo del lavoro sarà in grado di gestire questo aumento di complessità dipende il destino di una generazione che oggi è al bivio tra essere lasciata diventare una ghosting generation ed essere aiutata a ricoprire un ruolo da protagonista nei processi di cambiamento e sviluppo del paese.