Topic: popolazione, risorse e sviluppo

ITALIA 2050. NON E’ SOLO UN FATTO DI POPOLAZIONE

Il 2050 è vicino. Mancano 25 anni, che corrispondono alla distanza di una generazione e di una fase della vita. E’ il tempo che porta un nuovo nato ad essere un giovane uomo o donna. Ma che porta anche chi oggi è giovane a spostarsi nell’età centrale adulta, chi è nella piena età adulta a proiettarsi nella fase matura e anziana. Non è più quindi una distanza che separa il presente dal futuro ma piuttosto una prossimità tra quello che siamo e ciò che stiamo diventando.
E’ anche vero che viviamo sempre più a lungo in un mondo sempre più complesso e in rapido mutamento, quindi nulla è scontato. La demografia ci offre però alcune coordinate solide su cosa sta cambiando e come saremo nel 2050. Alcuni cambiamenti sono di fatto certi e per altri abbiamo tendenze abbastanza consolidate. Ma rimangono comunque anche margini di incertezza sui quali possiamo ancora intervenire per fare in modo di non trovarci con il futuro che capita ma con quello che, nelle condizioni date, più si avvicina a ciò che vogliamo diventare.
Cosa sappiamo, allora, di certo? Tre cose principalmente. La prima è che la popolazione italiana andrà complessivamente a diminuire. La seconda è che lieviterà ulteriormente la componente più matura. Il nostro paese ha, infatti, perso la capacità endogena di crescere a causa di un numero di figli per donna sceso da quasi 50 anni sotto il livello minimo di ricambio generazionale. Le nuove generazioni sono quindi di meno rispetto a quelle precedenti, andando a ridimensionare verso il basso la popolazione a partire dalla base della piramide demografica. D’altro lato il vertice della piramide si allarga e alza perché arrivano in età anziana le generazioni nate quando la natalità era elevata e perché si vive sempre più a lungo.
Insomma, diminuzione e invecchiamento della popolazione sono parte delle informazioni più solide che abbiamo sul 2050.
Sappiamo anche che avremo più persone con una storia migratoria alle spalle, una parte arrivate essi stessi in Italia e una parte nate in Italia da genitori stranieri. Si tratta di un processo alimentato sia dalla spinta ad emigrare da aree del mondo con popolazione in crescita e molto giovane, sia dalla sempre più rilevante carenza di lavoratori in molti settori della produzione e dei servizi in un paese, come il nostro, in cui si riducono le persone in età lavorativa e aumentano gli anziani. Va precisato che la crisi demografica italiana è diventata tale che anche flussi migratori molto abbondanti, non basterebbero a compensare del tutto gli squilibri nel rapporto tra anziani e giovani. Secondo l’Istat in tutti gli scenari previsti per il 2050 i 75enni saranno abbondantemente sopra 800 mila. Nello scenario più favorevole le età sotto i 35 anni non arriverebbero a 650 mila e quelle sotto i 25 anni starebbero sotto le 500 mila. Questo nonostante in tale scenario le entrate annuali dall’estero siano attese posizionarsi sopra le 400 mila annue. In combinazione con un numero medio di figli che da meno di 1,2 attuale sale a oltre 1,5 entro i prossimi quindici anni, in tale scenario si riuscirebbe, quantomeno, ad evitare la trappola demografica e a stabilizzare nei decenni successivi la base della piramide demografica. Ma questo non è per nulla un dato certo, dipende fortemente dal valore dato all’avere figli e alle politiche strutturali in grado di favorire tale scelta.
Al confine tra il dato certo e la tendenza c’è, poi, l’inasprimento delle differenze territoriali. Diminuzione della popolazione e squilibri generazionali sono più accentuati nelle aree più deboli del paese, in particolare nel Mezzogiorno e nelle Aree interne. Quello che rischia di diventare l’Italia nel 2050 si può già vedere in alcuni territori periferici, non più in grado di garantire servizi di base.
Tra le tendenze preoccupanti in atto c’è anche l’aumento delle famiglie che sono tali solo in senso statistico ma non sostanziale, ovvero quelle formate da una sola persona.
I motivi della loro crescente incidenza sono diversi nelle varie fasi della vita. Non si tratta sempre di una scelta. Aumenta tra i giovani la propensione a diventare autonomi, ma spesso le condizioni rispetto ai costi e all’incertezza lavorativa portano a posticipare la formazione di una propria famiglia. In età adulta ci si può ritrovare single dopo il fallimento di una unione. La crescita maggiore e più associata a condizione di fragilità è quella in età anziana. Con l’invecchiamento della popolazione aumenta il numero di persone che si ritrovano sole dopo la perdita del coniuge o di altri congiunti con cui convivevano.
La solitudine è al centro della debolezza nel nostro modo in cu stiamo affrontando i grandi cambiamenti in atto. La popolazione non è un insieme di individui indipendenti, ma va intesa come sistema fatto di storie di vita in relazione tra di loro e in continua tensione con le sfide del proprio tempo. Se si sta indebolendo oggi il nostro essere popolazione non è solo perché la quantità degli abitanti è in diminuzione, ma soprattutto perché ci sentiamo meno uniti, meno parte attiva di un comune destino aperto, di un progetto paese solido da costruire assieme.
La crisi demografica, che combina squilibri e diseguaglianze, può essere superata solo rafforzando i legami: di coppia, tra genitori e figli, tra aree urbane e aree interne, tra nord e sud del paese, tra autoctoni e nuovi arrivati, e di conseguenza tra presente possibile e futuro desiderato.

SFIDA DEMOGRAFICA E POLITICHE INDUSTRIALI: INTEGRAZIONE NECESSARIA

La demografia ha recentemente conquistato attenzione nel dibattito pubblico italiano. Purtroppo, va detto, in grave ritardo rispetto sia agli altri paesi con cui ci confrontiamo, sia ai tempi necessari per rispondere in modo adeguato alle sfide che pone. I contenuti delle audizioni svolte nelle scorse settimane dalla “Commissione parlamentare sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica in atto” consente di farsi un’idea di quanto i vari soggetti istituzionali e gli enti di ricerca nazionali considerino particolarmente grave la situazione in cui ci siamo posti. Può essere, allora, utile chiarire alcuni punti affinché il dibattito possa davvero portare ad un confronto costruttivo e non rimanere bloccato su letture contrapposte parziali.
Un primo punto riguarda il fatto che il problema non è in sé l’aumento dell’aspettativa di vita. E’ questa una sfida positiva che solo un paese confuso e incapace di gestire i cambiamenti del proprio tempo può trasformare in un fatto negativo. Quando diventa effettivamente un problema? Quando non si mettono le persone nelle condizioni di costruire basi solide di una lunga vita attiva e in salute, ma anche quando si creano accentuati squilibri quantitativi tra generazioni a causa del continuo crollo delle nascite. I paesi in crisi demografica sono quelli più deboli su questi due aspetti.
Un secondo punto da chiarire è il fatto che nella parte finale della transizione demografica tutti i paesi tendono a scivolare sotto il livello di equilibrio nel rapporto tra generazioni, ovvero sotto i due figli per donna. Non tutti si trovano, però, nella stessa situazione. Le attuali donne francesi e svedesi arrivate a 45 anni presentano un numero medio di figli superiore a 1,8, questo significa che le future coorti che arriveranno a 45 anni entro la metà del secolo rimarranno sostanzialmente solide. La fecondità delle 45enni italiane è invece attorno a 1,35, con conseguenti coorti in entrata nell’età lavorativa che tendono a ridursi di circa un terzo. Attuare politiche efficaci, quindi, fa la differenza, ma è anche vero che esse vanno rinnovate e riadattate a esigenze e aspettative che mutano nel tempo.
L’accentuata diminuzione italiana della fecondità è senz’altro la causa dei nostri maggiori squilibri nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni. E’ però altrettanto vero, qui sta il terzo punto da precisare, che non è più di per sé sufficiente un suo aumento per risolvere tali squilibri. Ciò per due motivi. Il primo è che la persistenza della natalità su livelli bassi è arrivata ad erodere la popolazione nell’età in cui si hanno figli. Il secondo motivo è il fatto che un aumento consistente delle nascite nei prossimi anni porterebbe a un più solido ricambio generazionale nel mercato del lavoro dal 2050 in poi. La ripresa della natalità è quindi condizione necessaria per non avere squilibri ancora più accentuati nei prossimi decenni, ma non consente da sola di dare risposte alle esigenze attuali. L’immigrazione adeguatamente gestita e regolata fornisce un doppio beneficio. Il primo è quello di compensare la riduzione della popolazione in età lavorativa andando direttamente incontro ai fabbisogni di aziende e organizzazioni in vari settori. Il secondo è di rafforzare la popolazione in età riproduttiva, contribuendo così a risollevare le nascite. Ma la stessa immigrazione non basta. Se non migliorano le politiche familiari, di genere e generazionali, il nostro paese rimarrà poco accogliente e attrattivo: gli immigrati più dinamici e qualificati tenderanno a scegliere altri paesi o a considerare l’Italia solo come un paese di passaggio.
Nel complesso, il concetto che deve essere chiaro è che ciò che serve per far invertire la tendenza delle nascite, tende a far aumentare anche lo sviluppo economico del paese, il benessere delle famiglie e la sostenibilità sociale. Il prodotto interno lordo dipende da tre elementi: il numero di persone in età attiva, il tasso di occupazione, la produttività. Tutti questi fattori sono legati in modo interdipendente con i meccanismi delle dinamiche demografiche.
Ridurre il divario tra numero di figli desiderati e realizzati assieme ad adeguati flussi migratori consente al contingente di persone in età attiva di non indebolirsi troppo nel presente e nel prossimo futuro. Anche il tasso di occupazione ha buoni margini di miglioramento a causa del nostro sottoutilizzo del capitale umano giovanile e femminile. Ma migliorando la transizione scuola-lavoro e il bilanciamento vita-lavoro, si mette chi desidera avere figli in migliori condizioni per averli. Interventi in questa direzione consentono, quindi, di agire in modo concomitante sia sigli effetti che sulle cause degli squilibri demografici, con benefici sia nel breve che nel medio periodo.
Va aggiunto che miglior ingresso e valorizzazione dei giovani nel mondo del lavoro e migliore conciliazione, come molti studi evidenziano, tendono a favorire ingaggio e clima aziendale, alimentando un possibile circuito virtuoso tra produttività e stipendi. In questo modo il paese diventa anche più attrattivo, ovvero più capace di far arrivare e trattenere chi cerca opportunità di piena valorizzazione.
Infine, prolungare la vita attiva ha un impatto sull’occupazione, ma aumenta la produttività solo se si investe sulla formazione continua e sulle modalità di collaborazione tra generazioni, combinando positivamente esperienza, competenze e nuove tecnologie.
E’ quindi evidente che solo un approccio che sappia inserire la questione demografica in modo sistemico nel contesto delle politiche di sviluppo competitivo del paese, può portare a solidi effetti positivi. L’obiettivo non è, però, di per sé quello di far crescere il pil e la natalità. E’ rendere l’Italia un paese in cui si può: lavorare bene, crescere bene sin dall’infanzia, vivere bene in tutte le fasi della vita, scegliere di rimanere, integrare positivamente esperienze e provenienze diverse. Puntiamo la barra in questa direzione e ci troveremo anche con più benessere economico e più figli desiderati.

Crisi demografica, la rivoluzione in culla

L’Umanità si trova nel mezzo di una transizione demografica, un processo che dagli alti rischi di morte e dagli elevati livelli di fecondità del passato sta portando a un nuovo (teorico) equilibrio su livelli bassi.

All’epoca dell’Unità d’Italia il rischio di morte entro il primo anno di vita era superiore al 20%, meno della metà dei nati arrivava all’età dei propri genitori e l’aspettativa di vita era attorno ai 30 anni. Oggi un bambino che nasce ha una probabilità vicina a 1 di attraversare incolume tutte le fasi della vita fino all’età anziana (l’aspettativa di vita è oggi superiore agli 82 anni). Bastano oggi, quindi, due figli per sostituire in media i due genitori.

Se la fecondità rimane posizionata sopra tale livello la popolazione va a crescere, tendenzialmente fino all’infinito. Se si colloca sistematicamente sopra la popolazione va a diminuire, tendenzialmente fino all’estinzione. Rispetto alla popolazione mondiale e nel lungo periodo, dal punto di vista teorico ci si può aspettare che la fecondità si stabilizzi attorno a due, oppure ci siano fasi di oscillazione tra valori inferiori e valori superiori a tale soglia.

Quello che attualmente si osserva è, invece, che tutti i paesi arrivati nella parte finale della transizione demografica sono andati a collocarsi sotto il tasso dei due figli per donna. La popolazione di un paese, però, non necessariamente diminuisce e la forza lavoro può rimanere solida, a fronte di un aumento della componente anziana, se la fecondità non scende troppo sotto la soglia di due e la riduzione delle nuove generazioni viene compensata da adeguati flussi migratori. Questo è stato finora il caso della Svezia, ma anche di altri paesi (come la Francia, del Regno Unito, degli Stati Uniti).

Il caso svedese

La Svezia è stata tra i paesi precursori della transizione demografica. La mortalità inizia a mostrare segnali di diminuzione già dalla prima metà dell’XIX secolo, con conseguente progressivo aumento dell’aspettativa di vita. I paesi scandinavi sono stati anche i primi a ridurre la fecondità a due figli per donna e a scendere sotto tale livello. L’aver favorito la partecipazione femminile al mercato del lavoro ha portato negli anni Settanta a ricadute negative sulla fecondità svedese. Nel 1978 il numero medio di figli risultava sceso a 1,6 mentre in Italia era ancora vicino a 2. Il percorso successivo è però stato opposto. La Svezia ha sperimentato e rafforzato strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia (in termini di politiche pubbliche e welfare aziendale), favorendo anche la condivisione di genere all’interno delle coppie. La fecondità è così tornata a salire vicino a due ad inizio anni Novanta, mentre in Italia è precipitata sotto 1,3.

Dato che il mondo è in continuo cambiamento, si trasforma il mercato del lavoro, mutando condizioni e aspettative rispetto ai progetti di realizzazione professionale e di vita, le politiche di genere e familiari vanno considerate un continuo cantiere. Ciò che funzionava per una generazione non necessariamente funziona per quella successiva. La Svezia è uno dei paesi che maggiormente ha sperimento e innovato, con conseguente percorso altalenante: da una media di 2 figli è scesa a 1,5 a fine XX secolo, è risalita a 2 nel corso del primo decennio del XXI secolo, per poi ridiscendere sotto 1,5 negli anni più recenti.

Società in evoluzione

Questo percorso, nonostante la diminuzione negli ultimi anni, non può quindi essere considerato un fallimento delle politiche di genere e familiari. Rimangono due aspetti sostanziali rispetto a paesi in crisi demografica cronicizzata come l’Italia. Mentre il nostro paese – a causa di una fecondità persistentemente sotto 1,5 da quarant’anni – è entrato in una fase di trappola demografica (ovvero di diminuzione dei potenziali genitori), la Svezia ancora può contare su generazioni consistenti in età riproduttiva.

Inoltre, se anziché calcolare il dato congiunturale della fecondità (che risente anche delle fasi di posticipazione della scelta di avere un figlio ma non necessariamente di rinuncia), si prende in considerazione la fecondità effettiva delle generazioni, si nota come la Svezia non sia mai scesa sotto 1,8 figli. La generazione di chi ha oggi 40-45 anni non è sotto tale valore. Mentre la stessa generazione italiana ha avuto poco più di 1,3 figli.

E’, insomma, vero che oggi la realtà è più complessa, che è in aumento il senso di insicurezza nei confronti del futuro e che sono in mutamento gli orientamenti di valore, ma affermare che le politiche familiari e di genere della Svezia non funzionano più è quantomeno prematuro. Il calo attuale è però senz’altro un segnale della necessità di non accontentarsi delle misure attuali e di sperimentare soluzioni nuove.

Diamo ai giovani la possibilità di costruire nuove famiglie

In una prima fase – sostanzialmente fino alle generazioni nate a metà degli anni Cinquanta – la riduzione delle nascite è avvenuta attraverso una convergenza verso i due figli per coppia: valore attorno a cui si è consolidato il modello di riferimento nelle preferenze di coppia e che sostanzialmente corrisponde all’equilibrio nel rapporto tra generazioni nei paesi con bassa mortalità. In una seconda fase – a partire soprattutto dalle generazioni entrate nella vita adulta dalla metà degli anni Settanta in poi – si riscontra un processo di rinvio e riduzione delle nascite molto più accentuato rispetto al resto d’Europa. La Svezia, ad esempio, ha anticipato i cambiamenti nella formazione delle unioni di coppia e nelle opportunità di occupazione femminile, ma ha continuato a mantenere – grazie allo sviluppo di adeguate politiche di sopporto all’autonomia giovanile e alla conciliazione tra famiglie e lavoro – un numero di figli per coppia vicino a 2 anche per le generazioni nate negli ultimi decenni del XX secolo e diventate adulte nel XXI secolo. Mentre le stesse generazioni italiane sono scese sotto la media di 1,5 figli.