Topic: popolazione, risorse e sviluppo

SFIDA DEMOGRAFICA E POLITICHE INDUSTRIALI: INTEGRAZIONE NECESSARIA

La demografia ha recentemente conquistato attenzione nel dibattito pubblico italiano. Purtroppo, va detto, in grave ritardo rispetto sia agli altri paesi con cui ci confrontiamo, sia ai tempi necessari per rispondere in modo adeguato alle sfide che pone. I contenuti delle audizioni svolte nelle scorse settimane dalla “Commissione parlamentare sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica in atto” consente di farsi un’idea di quanto i vari soggetti istituzionali e gli enti di ricerca nazionali considerino particolarmente grave la situazione in cui ci siamo posti. Può essere, allora, utile chiarire alcuni punti affinché il dibattito possa davvero portare ad un confronto costruttivo e non rimanere bloccato su letture contrapposte parziali.
Un primo punto riguarda il fatto che il problema non è in sé l’aumento dell’aspettativa di vita. E’ questa una sfida positiva che solo un paese confuso e incapace di gestire i cambiamenti del proprio tempo può trasformare in un fatto negativo. Quando diventa effettivamente un problema? Quando non si mettono le persone nelle condizioni di costruire basi solide di una lunga vita attiva e in salute, ma anche quando si creano accentuati squilibri quantitativi tra generazioni a causa del continuo crollo delle nascite. I paesi in crisi demografica sono quelli più deboli su questi due aspetti.
Un secondo punto da chiarire è il fatto che nella parte finale della transizione demografica tutti i paesi tendono a scivolare sotto il livello di equilibrio nel rapporto tra generazioni, ovvero sotto i due figli per donna. Non tutti si trovano, però, nella stessa situazione. Le attuali donne francesi e svedesi arrivate a 45 anni presentano un numero medio di figli superiore a 1,8, questo significa che le future coorti che arriveranno a 45 anni entro la metà del secolo rimarranno sostanzialmente solide. La fecondità delle 45enni italiane è invece attorno a 1,35, con conseguenti coorti in entrata nell’età lavorativa che tendono a ridursi di circa un terzo. Attuare politiche efficaci, quindi, fa la differenza, ma è anche vero che esse vanno rinnovate e riadattate a esigenze e aspettative che mutano nel tempo.
L’accentuata diminuzione italiana della fecondità è senz’altro la causa dei nostri maggiori squilibri nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni. E’ però altrettanto vero, qui sta il terzo punto da precisare, che non è più di per sé sufficiente un suo aumento per risolvere tali squilibri. Ciò per due motivi. Il primo è che la persistenza della natalità su livelli bassi è arrivata ad erodere la popolazione nell’età in cui si hanno figli. Il secondo motivo è il fatto che un aumento consistente delle nascite nei prossimi anni porterebbe a un più solido ricambio generazionale nel mercato del lavoro dal 2050 in poi. La ripresa della natalità è quindi condizione necessaria per non avere squilibri ancora più accentuati nei prossimi decenni, ma non consente da sola di dare risposte alle esigenze attuali. L’immigrazione adeguatamente gestita e regolata fornisce un doppio beneficio. Il primo è quello di compensare la riduzione della popolazione in età lavorativa andando direttamente incontro ai fabbisogni di aziende e organizzazioni in vari settori. Il secondo è di rafforzare la popolazione in età riproduttiva, contribuendo così a risollevare le nascite. Ma la stessa immigrazione non basta. Se non migliorano le politiche familiari, di genere e generazionali, il nostro paese rimarrà poco accogliente e attrattivo: gli immigrati più dinamici e qualificati tenderanno a scegliere altri paesi o a considerare l’Italia solo come un paese di passaggio.
Nel complesso, il concetto che deve essere chiaro è che ciò che serve per far invertire la tendenza delle nascite, tende a far aumentare anche lo sviluppo economico del paese, il benessere delle famiglie e la sostenibilità sociale. Il prodotto interno lordo dipende da tre elementi: il numero di persone in età attiva, il tasso di occupazione, la produttività. Tutti questi fattori sono legati in modo interdipendente con i meccanismi delle dinamiche demografiche.
Ridurre il divario tra numero di figli desiderati e realizzati assieme ad adeguati flussi migratori consente al contingente di persone in età attiva di non indebolirsi troppo nel presente e nel prossimo futuro. Anche il tasso di occupazione ha buoni margini di miglioramento a causa del nostro sottoutilizzo del capitale umano giovanile e femminile. Ma migliorando la transizione scuola-lavoro e il bilanciamento vita-lavoro, si mette chi desidera avere figli in migliori condizioni per averli. Interventi in questa direzione consentono, quindi, di agire in modo concomitante sia sigli effetti che sulle cause degli squilibri demografici, con benefici sia nel breve che nel medio periodo.
Va aggiunto che miglior ingresso e valorizzazione dei giovani nel mondo del lavoro e migliore conciliazione, come molti studi evidenziano, tendono a favorire ingaggio e clima aziendale, alimentando un possibile circuito virtuoso tra produttività e stipendi. In questo modo il paese diventa anche più attrattivo, ovvero più capace di far arrivare e trattenere chi cerca opportunità di piena valorizzazione.
Infine, prolungare la vita attiva ha un impatto sull’occupazione, ma aumenta la produttività solo se si investe sulla formazione continua e sulle modalità di collaborazione tra generazioni, combinando positivamente esperienza, competenze e nuove tecnologie.
E’ quindi evidente che solo un approccio che sappia inserire la questione demografica in modo sistemico nel contesto delle politiche di sviluppo competitivo del paese, può portare a solidi effetti positivi. L’obiettivo non è, però, di per sé quello di far crescere il pil e la natalità. E’ rendere l’Italia un paese in cui si può: lavorare bene, crescere bene sin dall’infanzia, vivere bene in tutte le fasi della vita, scegliere di rimanere, integrare positivamente esperienze e provenienze diverse. Puntiamo la barra in questa direzione e ci troveremo anche con più benessere economico e più figli desiderati.

Crisi demografica, la rivoluzione in culla

L’Umanità si trova nel mezzo di una transizione demografica, un processo che dagli alti rischi di morte e dagli elevati livelli di fecondità del passato sta portando a un nuovo (teorico) equilibrio su livelli bassi.

All’epoca dell’Unità d’Italia il rischio di morte entro il primo anno di vita era superiore al 20%, meno della metà dei nati arrivava all’età dei propri genitori e l’aspettativa di vita era attorno ai 30 anni. Oggi un bambino che nasce ha una probabilità vicina a 1 di attraversare incolume tutte le fasi della vita fino all’età anziana (l’aspettativa di vita è oggi superiore agli 82 anni). Bastano oggi, quindi, due figli per sostituire in media i due genitori.

Se la fecondità rimane posizionata sopra tale livello la popolazione va a crescere, tendenzialmente fino all’infinito. Se si colloca sistematicamente sopra la popolazione va a diminuire, tendenzialmente fino all’estinzione. Rispetto alla popolazione mondiale e nel lungo periodo, dal punto di vista teorico ci si può aspettare che la fecondità si stabilizzi attorno a due, oppure ci siano fasi di oscillazione tra valori inferiori e valori superiori a tale soglia.

Quello che attualmente si osserva è, invece, che tutti i paesi arrivati nella parte finale della transizione demografica sono andati a collocarsi sotto il tasso dei due figli per donna. La popolazione di un paese, però, non necessariamente diminuisce e la forza lavoro può rimanere solida, a fronte di un aumento della componente anziana, se la fecondità non scende troppo sotto la soglia di due e la riduzione delle nuove generazioni viene compensata da adeguati flussi migratori. Questo è stato finora il caso della Svezia, ma anche di altri paesi (come la Francia, del Regno Unito, degli Stati Uniti).

Il caso svedese

La Svezia è stata tra i paesi precursori della transizione demografica. La mortalità inizia a mostrare segnali di diminuzione già dalla prima metà dell’XIX secolo, con conseguente progressivo aumento dell’aspettativa di vita. I paesi scandinavi sono stati anche i primi a ridurre la fecondità a due figli per donna e a scendere sotto tale livello. L’aver favorito la partecipazione femminile al mercato del lavoro ha portato negli anni Settanta a ricadute negative sulla fecondità svedese. Nel 1978 il numero medio di figli risultava sceso a 1,6 mentre in Italia era ancora vicino a 2. Il percorso successivo è però stato opposto. La Svezia ha sperimentato e rafforzato strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia (in termini di politiche pubbliche e welfare aziendale), favorendo anche la condivisione di genere all’interno delle coppie. La fecondità è così tornata a salire vicino a due ad inizio anni Novanta, mentre in Italia è precipitata sotto 1,3.

Dato che il mondo è in continuo cambiamento, si trasforma il mercato del lavoro, mutando condizioni e aspettative rispetto ai progetti di realizzazione professionale e di vita, le politiche di genere e familiari vanno considerate un continuo cantiere. Ciò che funzionava per una generazione non necessariamente funziona per quella successiva. La Svezia è uno dei paesi che maggiormente ha sperimento e innovato, con conseguente percorso altalenante: da una media di 2 figli è scesa a 1,5 a fine XX secolo, è risalita a 2 nel corso del primo decennio del XXI secolo, per poi ridiscendere sotto 1,5 negli anni più recenti.

Società in evoluzione

Questo percorso, nonostante la diminuzione negli ultimi anni, non può quindi essere considerato un fallimento delle politiche di genere e familiari. Rimangono due aspetti sostanziali rispetto a paesi in crisi demografica cronicizzata come l’Italia. Mentre il nostro paese – a causa di una fecondità persistentemente sotto 1,5 da quarant’anni – è entrato in una fase di trappola demografica (ovvero di diminuzione dei potenziali genitori), la Svezia ancora può contare su generazioni consistenti in età riproduttiva.

Inoltre, se anziché calcolare il dato congiunturale della fecondità (che risente anche delle fasi di posticipazione della scelta di avere un figlio ma non necessariamente di rinuncia), si prende in considerazione la fecondità effettiva delle generazioni, si nota come la Svezia non sia mai scesa sotto 1,8 figli. La generazione di chi ha oggi 40-45 anni non è sotto tale valore. Mentre la stessa generazione italiana ha avuto poco più di 1,3 figli.

E’, insomma, vero che oggi la realtà è più complessa, che è in aumento il senso di insicurezza nei confronti del futuro e che sono in mutamento gli orientamenti di valore, ma affermare che le politiche familiari e di genere della Svezia non funzionano più è quantomeno prematuro. Il calo attuale è però senz’altro un segnale della necessità di non accontentarsi delle misure attuali e di sperimentare soluzioni nuove.

Diamo ai giovani la possibilità di costruire nuove famiglie

In una prima fase – sostanzialmente fino alle generazioni nate a metà degli anni Cinquanta – la riduzione delle nascite è avvenuta attraverso una convergenza verso i due figli per coppia: valore attorno a cui si è consolidato il modello di riferimento nelle preferenze di coppia e che sostanzialmente corrisponde all’equilibrio nel rapporto tra generazioni nei paesi con bassa mortalità. In una seconda fase – a partire soprattutto dalle generazioni entrate nella vita adulta dalla metà degli anni Settanta in poi – si riscontra un processo di rinvio e riduzione delle nascite molto più accentuato rispetto al resto d’Europa. La Svezia, ad esempio, ha anticipato i cambiamenti nella formazione delle unioni di coppia e nelle opportunità di occupazione femminile, ma ha continuato a mantenere – grazie allo sviluppo di adeguate politiche di sopporto all’autonomia giovanile e alla conciliazione tra famiglie e lavoro – un numero di figli per coppia vicino a 2 anche per le generazioni nate negli ultimi decenni del XX secolo e diventate adulte nel XXI secolo. Mentre le stesse generazioni italiane sono scese sotto la media di 1,5 figli.

Welfare e benessere riducono la forza della crisi demografica

Ciò che rende dinamica una popolazione non è tanto l’aumento o la diminuzione degli abitanti, ma lo sviluppo delle fasi della vita, il succedersi delle generazioni e il rapporto in evoluzione tra di esse. Il declino e gli squilibri demografici sono, piuttosto, la conseguenza di quello che non funziona nei meccanismi che generano benessere lungo il corso della vita e nelle relazioni intergenerazionali. Il sistema di indicatori provinciali pubblicati ogni anno dal Sole 24 Ore sulla qualità della vita nelle diverse fasce d’età (Bambini, Giovani e Anziani), arrivato alla quinta edizione, risulta quindi particolarmente prezioso.

Serve una formazione solida e continua per una società della longevità sostenibile

Non può esserci una buona longevità senza adeguata lungimiranza. Non è possibile governare positivamente i cambiamenti demografici se non si adotta un orizzonte generazionale. Mancano 25 anni al 2050, il che significa che la metà di questo secolo non è un punto generico del futuro, ma il luogo concreto in cui andranno a vivere in età adulta gli attuali giovani e in età matura avanzata gli attuali adulti. E non c’è nessuna possibilità di vivere bene in tale luogo se i pochi 15-24 anni non si troveranno ad essere 40-49enni ben formati e ben inseriti nel mondo del lavoro, oltre a fare in modo che gli attuali 40-49enni arrivino nella fascia 65-74 attivi e in piena salute.