Topic: popolazione, risorse e sviluppo

Crisi demografica, la rivoluzione in culla

L’Umanità si trova nel mezzo di una transizione demografica, un processo che dagli alti rischi di morte e dagli elevati livelli di fecondità del passato sta portando a un nuovo (teorico) equilibrio su livelli bassi.

All’epoca dell’Unità d’Italia il rischio di morte entro il primo anno di vita era superiore al 20%, meno della metà dei nati arrivava all’età dei propri genitori e l’aspettativa di vita era attorno ai 30 anni. Oggi un bambino che nasce ha una probabilità vicina a 1 di attraversare incolume tutte le fasi della vita fino all’età anziana (l’aspettativa di vita è oggi superiore agli 82 anni). Bastano oggi, quindi, due figli per sostituire in media i due genitori.

Se la fecondità rimane posizionata sopra tale livello la popolazione va a crescere, tendenzialmente fino all’infinito. Se si colloca sistematicamente sopra la popolazione va a diminuire, tendenzialmente fino all’estinzione. Rispetto alla popolazione mondiale e nel lungo periodo, dal punto di vista teorico ci si può aspettare che la fecondità si stabilizzi attorno a due, oppure ci siano fasi di oscillazione tra valori inferiori e valori superiori a tale soglia.

Quello che attualmente si osserva è, invece, che tutti i paesi arrivati nella parte finale della transizione demografica sono andati a collocarsi sotto il tasso dei due figli per donna. La popolazione di un paese, però, non necessariamente diminuisce e la forza lavoro può rimanere solida, a fronte di un aumento della componente anziana, se la fecondità non scende troppo sotto la soglia di due e la riduzione delle nuove generazioni viene compensata da adeguati flussi migratori. Questo è stato finora il caso della Svezia, ma anche di altri paesi (come la Francia, del Regno Unito, degli Stati Uniti).

Il caso svedese

La Svezia è stata tra i paesi precursori della transizione demografica. La mortalità inizia a mostrare segnali di diminuzione già dalla prima metà dell’XIX secolo, con conseguente progressivo aumento dell’aspettativa di vita. I paesi scandinavi sono stati anche i primi a ridurre la fecondità a due figli per donna e a scendere sotto tale livello. L’aver favorito la partecipazione femminile al mercato del lavoro ha portato negli anni Settanta a ricadute negative sulla fecondità svedese. Nel 1978 il numero medio di figli risultava sceso a 1,6 mentre in Italia era ancora vicino a 2. Il percorso successivo è però stato opposto. La Svezia ha sperimentato e rafforzato strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia (in termini di politiche pubbliche e welfare aziendale), favorendo anche la condivisione di genere all’interno delle coppie. La fecondità è così tornata a salire vicino a due ad inizio anni Novanta, mentre in Italia è precipitata sotto 1,3.

Dato che il mondo è in continuo cambiamento, si trasforma il mercato del lavoro, mutando condizioni e aspettative rispetto ai progetti di realizzazione professionale e di vita, le politiche di genere e familiari vanno considerate un continuo cantiere. Ciò che funzionava per una generazione non necessariamente funziona per quella successiva. La Svezia è uno dei paesi che maggiormente ha sperimento e innovato, con conseguente percorso altalenante: da una media di 2 figli è scesa a 1,5 a fine XX secolo, è risalita a 2 nel corso del primo decennio del XXI secolo, per poi ridiscendere sotto 1,5 negli anni più recenti.

Società in evoluzione

Questo percorso, nonostante la diminuzione negli ultimi anni, non può quindi essere considerato un fallimento delle politiche di genere e familiari. Rimangono due aspetti sostanziali rispetto a paesi in crisi demografica cronicizzata come l’Italia. Mentre il nostro paese – a causa di una fecondità persistentemente sotto 1,5 da quarant’anni – è entrato in una fase di trappola demografica (ovvero di diminuzione dei potenziali genitori), la Svezia ancora può contare su generazioni consistenti in età riproduttiva.

Inoltre, se anziché calcolare il dato congiunturale della fecondità (che risente anche delle fasi di posticipazione della scelta di avere un figlio ma non necessariamente di rinuncia), si prende in considerazione la fecondità effettiva delle generazioni, si nota come la Svezia non sia mai scesa sotto 1,8 figli. La generazione di chi ha oggi 40-45 anni non è sotto tale valore. Mentre la stessa generazione italiana ha avuto poco più di 1,3 figli.

E’, insomma, vero che oggi la realtà è più complessa, che è in aumento il senso di insicurezza nei confronti del futuro e che sono in mutamento gli orientamenti di valore, ma affermare che le politiche familiari e di genere della Svezia non funzionano più è quantomeno prematuro. Il calo attuale è però senz’altro un segnale della necessità di non accontentarsi delle misure attuali e di sperimentare soluzioni nuove.

Diamo ai giovani la possibilità di costruire nuove famiglie

In una prima fase – sostanzialmente fino alle generazioni nate a metà degli anni Cinquanta – la riduzione delle nascite è avvenuta attraverso una convergenza verso i due figli per coppia: valore attorno a cui si è consolidato il modello di riferimento nelle preferenze di coppia e che sostanzialmente corrisponde all’equilibrio nel rapporto tra generazioni nei paesi con bassa mortalità. In una seconda fase – a partire soprattutto dalle generazioni entrate nella vita adulta dalla metà degli anni Settanta in poi – si riscontra un processo di rinvio e riduzione delle nascite molto più accentuato rispetto al resto d’Europa. La Svezia, ad esempio, ha anticipato i cambiamenti nella formazione delle unioni di coppia e nelle opportunità di occupazione femminile, ma ha continuato a mantenere – grazie allo sviluppo di adeguate politiche di sopporto all’autonomia giovanile e alla conciliazione tra famiglie e lavoro – un numero di figli per coppia vicino a 2 anche per le generazioni nate negli ultimi decenni del XX secolo e diventate adulte nel XXI secolo. Mentre le stesse generazioni italiane sono scese sotto la media di 1,5 figli.

Welfare e benessere riducono la forza della crisi demografica

Ciò che rende dinamica una popolazione non è tanto l’aumento o la diminuzione degli abitanti, ma lo sviluppo delle fasi della vita, il succedersi delle generazioni e il rapporto in evoluzione tra di esse. Il declino e gli squilibri demografici sono, piuttosto, la conseguenza di quello che non funziona nei meccanismi che generano benessere lungo il corso della vita e nelle relazioni intergenerazionali. Il sistema di indicatori provinciali pubblicati ogni anno dal Sole 24 Ore sulla qualità della vita nelle diverse fasce d’età (Bambini, Giovani e Anziani), arrivato alla quinta edizione, risulta quindi particolarmente prezioso.

Serve una formazione solida e continua per una società della longevità sostenibile

Non può esserci una buona longevità senza adeguata lungimiranza. Non è possibile governare positivamente i cambiamenti demografici se non si adotta un orizzonte generazionale. Mancano 25 anni al 2050, il che significa che la metà di questo secolo non è un punto generico del futuro, ma il luogo concreto in cui andranno a vivere in età adulta gli attuali giovani e in età matura avanzata gli attuali adulti. E non c’è nessuna possibilità di vivere bene in tale luogo se i pochi 15-24 anni non si troveranno ad essere 40-49enni ben formati e ben inseriti nel mondo del lavoro, oltre a fare in modo che gli attuali 40-49enni arrivino nella fascia 65-74 attivi e in piena salute.

Il secolo della forza lavoro in declino

La popolazione mondiale non è mai cresciuta in modo così differenziato nelle varie fasce d’età e nelle diverse aree del mondo. Questa crescita disomogenea è dovuta ai diversi tempi in cui si sta realizzando la transizione demografica e ai differenti livelli degli indicatori demografici raggiunti nella fase avanzata di tale processo.

Uno degli esiti principali della transizione è la riduzione a livelli molto bassi dei rischi di morte dalla nascita fino alla fine dell’età lavorativa (e oltre). Il secondo grande cambiamento è la diminuzione della fecondità. Nel 1950 il tasso di fecondità mondiale era di circa 5 figli per donna, mentre è oggi pari a 2,3. Se il tasso di fecondità si stabilizza attorno ai 2 figli, la popolazione in età lavorativa trova una sua configurazione solida e stabile: la base demografica perde la configurazione a piramide e assume una forma rettangolare, con coorti che entrano in età lavorativa equivalenti a quelle che escono.