Topic: popolazione, risorse e sviluppo

L’integrazione non si vede ma va avanti

Siamo continuamente bombardati da notizie e commenti sui nuovi sbarchi, sull’emergenza profughi, sul terrorismo islamico. Il rischio è però quello di perdere di vista la vera sfida che l’immigrazione pone al nostro paese, che più che sulla quantità degli arrivi – da contenere e regolare – si gioca sulle effettive possibilità di integrazione di chi è già qui.
Secondo i dati Istat, la popolazione residente in Italia ad inizio del 2017 era pari a poco più di 60,5 milioni.

Sfruttare la ripresa per mollare le rendite e rilanciare lo sviluppo

Un Paese che guarda positivamente al proprio futuro non mette in contrapposizione nuove e vecchie generazioni, ma mette ciascuna nelle condizioni di dare il proprio migliore contributo. Solo una comunità che invecchia culturalmente, che dà per scontato il proprio declino economico e considera le scelte del presente come salvaguardia del benessere passato – anziché impegno per un domani migliore -, può disattendere esigenze e istanze dei giovani e privilegiare risorse e diritti a beneficio dei più maturi. L’Italia questo ha fatto per lungo, troppo, tempo. Il confronto con le altre economie sviluppate è impietoso sugli squilibri prodotti in termini di spesa sociale destinata, di debito pubblico ereditato, di esposizione al rischio di povertà. La carenza di scelte di impegno collettivo verso il futuro ha prodotto un progressivo scadimento della condizione dei giovani e schiacciato in difesa le loro scelte individuali: sul mercato del lavoro, sull’autonomia, sulla formazione di una propria famiglia.

L’uscita dalla crisi, come sempre accade, tanto più quanto la recessione è stata profonda, produce un rimbalzo sugli indicatori rimasti per molti anni compressi. Ma questi segnali non possono essere rassicuranti sulle possibilità di effettiva crescita nel medio e lungo periodo. Dobbiamo ripensare il concetto stesso di crescita. Più che sul confronto della quantità prodotta e consumata oggi rispetto a ieri, dovremmo infatti poterla misurare sulla qualità possibile domani rispetto a oggi. L’indicatore con maggior grado predittivo del benessere futuro è, infatti, quanto ci aspettiamo che esso possa essere migliore rispetto al presente e quanto mettiamo in condizioni di agire con successo chi è nuovo e porta qualcosa di nuovo. Se, come è accaduto sinora in Italia, i giovani diventano sempre più scoraggiati e sfiduciati, propensi a vedere la propria strada di vita varcare il confine, considerati più figli da proteggere che avanguardie di un mondo nuovo da immaginare e costruire, allora nessun valore positivo congiunturale del Pil potrà mai rassicurarci sul destino del Paese. Ma è proprio ora che il mare sta tornando in buone condizioni e il vento tira a favore, che bisogna alzare le vele e prendere lo slancio che serve. Bisogna crederci, bisogna sostenere e dar adeguati strumenti a chi ci crede, bisogna però anche avere una direzione chiara che metta a valor comune volontà e energie di tutti.

Come avverte Seneca, “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”. Ecco allora che ridurre esogenamente i costi di assunzione per le aziende con sgravi fiscali può essere utile per mettersi in moto, ma sapremo di essere nella direzione giusta solo quanto endogenamente le imprese troveranno conveniente puntare sul capitale umano delle nuove generazioni per migliorare produttività e competitività. Non si tratta solo di rendere più consapevoli i datori di lavoro, ma soprattutto di mettere le basi di un modello di sviluppo in cui – grazie a politiche adeguate e lungimiranti – ciò di cui il Paese ha bisogno per crescere, da un lato, e ciò che le nuove generazioni possono dare, dall’altro, sono aiutati a incontrarsi al loro più alto livello. Per il bene di tutti.

Investire sui giovani per alimentare lo sviluppo

Ora che Pil e occupazione sembrano aver ritrovato il segno giusto, il tema è come incentivare e alimentare un vero e solido percorso di crescita. Per essere “vero” deve accompagnarsi ad un aumento di quantità e qualità del lavoro. Per essere “solido” deve inserirsi nei percorsi più promettenti di sviluppo di questo secolo. Entrambi questi elementi convergono nel portare al centro il capitale umano delle nuove generazioni. Non è un caso che le economie avanzate che stanno crescendo di più siano quelle con più elevati livelli di formazione dei giovani e più bassa disoccupazione giovanile.
Se assieme alla crisi vogliamo lasciare alle spalle un paese che si è troppo a lungo adagiato sulle rendite del passato e decidiamo di scommette sulle forze che possono produrre nuovo benessere, abbiamo bisogno di attivare due circuiti virtuosi, uno a livello macro e uno a livello micro.
Quello macro mette, appunto, in relazione positiva gli obiettivi di sviluppo del paese e il ruolo attivo e qualificato delle nuove generazioni per raggiungerli. Senza valorizzare l’energia e l’intelligenza delle nuove generazioni il paese non può porsi obiettivi ambiziosi. Ma è anche vero che solo attraverso una crescita solida possono espandersi le opportunità dei nuovi entranti. Politiche di sviluppo, formazione e inclusione attiva nel mercato del lavoro devono quindi essere parte di una stessa strategia. L’investimento dei giovani sulla propria formazione e sulla crescita personale, deve essere aiutato a diventare vincente in termini di ritorno occupazionale e remunerativo. Così come l’investimento pubblico sulle nuove generazioni deve diventare vincente per la collettività in termini di nuova ricchezza economica prodotta e nuovo benessere sociale generato. L’opposto di un paese in cui più si studia e più aumenta la probabilità di andare all’estero e non tornare.
Il circuito virtuoso a livello micro mette invece in relazione positiva formazione di competenze e loro effettiva messa alla prova e applicazione. La questione non è tanto se la scuola secondaria debba durare un anno di meno, ma cosa è bene che i ragazzi italiani siano preparati a saper essere e saper fare alla fine del loro percorso scolastico. Non basta una buona base culturale, ma serve anche stimolare consapevolezza e la capacità di cercare il proprio posto nel mondo che cambia e di rafforzare competenze ed esperienze utili a raggiungere obiettivi professionali e di vita desiderati. Al di là del titolo di studio, come mostra la recente indagine di Unioncamere, sono proprio esperienze e competenze a fare la differenza.
Il futuro di un paese si può allora misurare dal numero di giovani che mettono in relazione positiva il binomio “imparare” e “fare”, all’interno di un processo che porta a migliorare continuamente non solo conoscenze e abilità tecniche ma alimenta anche la fiducia in sé stessi e il desiderio di capire e saperne di più per provare a fare ancora meglio.
Troppi giovani italiani non riescono ad attivare tale circolo virtuoso e scivolano nella condizione più problematica dei NEET (under 30 che non studiano e non lavorano), quella degli inattivi e scoraggiati. E’, inoltre, interessante notare come il Servizio civile sia svolto soprattutto da ragazzi con buon livello culturale, che lo considerano un’esperienza positiva di rafforzamento di competenze sociali e trasversali utili per la vita ma anche per il lavoro. Tendono però a rimanere fuori da tale esperienza i ragazzi che vivono in contesti più deprivati. Questi ultimi rischiano di scivolare nel circolo vizioso del “non imparare” e “non fare”, accumulando senso di impotenza, esclusione sociale e frustrazione. Soprattutto per questi giovani l’alternanza scuola-lavoro e il rilancio del Servizio civile – che con la riforma punta ad essere universale (scelto da tutti) senza diventare obbligatorio (imposto dall’alto) – vanno nella giusta direzione, ma cruciale è un’implementazione seria ed efficiente, in grado offrire una esperienza che faccia davvero la differenza. Il fatto che per entrambi questi programmi, allo stato attuale, non vi sia un rigoroso piano di valutazione sulle competenze acquisite è una carenza che va quanto prima colmata.

La sfida della longevità va oltre l’età pensionabile

Viviamo sempre più a lungo, ma ce ne accorgiamo poco e ancor meno ci stiamo occupando di come spender bene gli anni che ogni nuova generazione aggiunge alle precedenti. Molto più ci stiamo invece preoccupando del trovarci ad andare in pensione più tardi. Detto in altro modo, abbiamo percezione degli effetti della longevità più sul versante negativo, ovvero per gli aggiustamenti necessari sulla tenuta della spesa pubblica, che sulle prospettive che apre nella vita delle persone.

Fragilità di un paese demograficamente sbilanciato

I dati dello squilibrio demografico

L’Italia è un paese demograficamente sempre più sbilanciato. A indicarlo sono soprattutto due dati forniti dall’Istat. Il primo è il divario negativo crescente tra nascite e decessi. Nel corso del 2016 le persone che hanno iniziato sul suolo italiano la loro vita (i nati) sono state 142mila in meno rispetto a coloro che l’hanno conclusa (i morti). Il numero di nascite diminuisce non solo per le difficoltà ad avere i figli desiderati, ma anche per la progressiva riduzione delle potenziali madri: le donne di 50 anni sono oltre 500mila, mentre le donne di 30 anni sono meno di 350mila e quelle di 20 anni meno di 300mila. Le donne nate nel periodo del baby boom sono oramai uscite dall’età fertile e il ruolo riproduttivo è ora sempre più assegnato alle generazioni demograficamente meno consistenti nate dopo la fine degli anni Settanta. Riguardo ai decessi, il loro numero diminuisce con la longevità, ma aumenta con l’invecchiamento della popolazione. Ovvero viviamo più a lungo e si riducono i rischi di morte in età avanzata, ma cresce il numero di persone nelle età in cui i rischi sono più elevati.