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Italia stretta dal declino demografico

Il dato sulle nascite nel 2020 appena pubblicato dall’Istat contiene due conferme negative. La prima è il suo porsi in continuità con il declino degli anni precedenti. La seconda è l’ulteriore accentuazione al ribasso causata dalla crisi sanitaria. L’esito è un numero di nati ai minimi storici (404 mila) che rende ancor più ampio il divario record rispetto ai decessi (-342 mila). E’ dalla recessione del 2008, arrivando fino all’impatto della pandemia, che collezioniamo record negativi per la demografia del nostro paese: siamo scesi al livello più basso di nascite di sempre; abbiamo più che dimezzato il livello del baby boom; per la prima volta la popolazione è in declino; siamo entrati in fase di continua riduzione delle potenziali madri e delle fasce centrali lavorative. E’, allora, forse arrivato il tempo di chiedersi perché questo grande tema continuiamo ad affrontarlo con toni di forte preoccupazione quando vengono pubblicati ogni anno nuovi dati negativi, per poi lasciarlo scivolare ai margini del dibattito pubblico e dell’azione politica. E’ diventata la grande questione rimossa del nostro paese.

La rinuncia ai figli e il declino italiano

Nel suo tradizionale discorso di fine anno il Presidente Mattarella ha messo bene in luce l’impatto della crisi sanitaria sul paese, ma anche sulle storie individuali e sui progetti di vita. Ha, infatti ricordato, che la pandemia “ha scavato solchi profondi nelle nostre vite, nella nostra società. Ha acuito fragilità del passato. Ha aggravato vecchie diseguaglianze e ne ha generate di nuove. Tutto ciò ha prodotto pesanti conseguenze sociali ed economiche”. Ha, inoltre, aggiunto che la crisi sanitaria “ha seminato un senso di smarrimento: pone in discussione prospettive di vita. Basti pensare alla previsione di un calo ulteriore delle nascite, spia dell’incertezza che il virus ha insinuato nella nostra comunità”.

Oltre la pandemia, rafforzare salute e capitale umano

Non è eccessivo riconoscere che l’Italia si trovi oggi davanti ad un drammatico bivio. Da un lato c’è il sentiero stretto, tutto in salita, che va verso una nuova fase di sviluppo economico e sociale. Sull’altro lato c’è un’ampia strada in discesa “che porta al disastro” – come ammoniva il direttore Tamburini in un editoriale pubblicato poco prima della seconda ondata pandemica – “reso ancora più drammatico dalla montagna di debito pubblico”. Le nostre fragilità passate e l’impatto della crisi sanitaria ci spingono verso la seconda strada. Servirà, nel nuovo anno, tutta la nostra volontà e lucidità d’intenti per imboccare con decisione la prima. Tra gli squilibri accumulati che ci sbilanciano verso la direzione sbagliata, assieme all’indebitamento c’è anche, forse ancor più, l’invecchiamento demografico. Si tratta di due enormi macigni che gravano sul debole capitale umano delle nuove generazioni, a cui si associa la scarsa capacità di piena valorizzazione nella società e nel mondo del lavoro.

L’emergenza demografica che chiude l’anno nero

Sta per finire un anno che verrà ricordato a lungo nella memoria dei singoli e ben individuabile nella serie storica dei principali indicatori economici, sociali e demografici. Nel 2020 tutti gli aspetti della vita sociale ed economica sono stati vissuti in condizione di emergenza, in modo inatteso e mai sperimentato in precedenza dalle generazioni nate nell’Italia repubblicana. Ai rischi e ai timori per la salute si è, infatti, fin da subito aggiunto anche il disagio materiale (sul fronte del lavoro, del reddito, dell’organizzazione familiare) e quello emotivo (per le difficoltà nelle relazioni sociali e l’incertezza nei confronti del futuro). E’ stato però anche un periodo in cui persone, famiglie, aziende, istituzioni, hanno dovuto guardare la realtà in modo diverso. In molti casi, la necessità di rimettere in discussione pratiche consolidante ha aperto anche nuove opportunità che hanno portato a soluzioni migliori, destinate a rimanere anche oltre l’emergenza. Si è, inoltre, rafforzata la consapevolezza che, sotto molti aspetti, non sarà possibile tornare come prima, ma anche che, sotto molti altri, è bene cogliere la discontinuità per iniziare una fase nuova.

La demografia è uno dei principali ambiti colpiti dalla pandemia, sia per l’effetto diretto sull’aumento della mortalità, sia per le conseguenze indirette sui progetti di vita delle persone. Come ben noto, la situazione del nostro paese risultava già da troppo tempo problematica su questo fronte. Il maggior invecchiamento della popolazione ci ha resi più vulnerabili al virus. I fragili percorsi formativi e professionali dei giovani in Italia (soprattutto se provenienti da famiglie con medio-basso status sociale), i limiti della conciliazione tra vita e lavoro (soprattutto sul lato femminile), l’alta incidenza della povertà per le famiglie con figli (soprattutto oltre il secondo), con il contraccolpo della crisi sanitaria rischiano di rendere ancor più debole la scelta di formare una propria famiglia e avere dei figli. Anche l’aumento del senso di insicurezza va in tale direzione.

Da un lato, i livelli ante Covid-19 su questo insieme di indicatori non possono essere considerati una normalità positiva a cui tornare. D’altro lato le conseguenze dell’impatto della crisi sanitaria non sono scontate e potrebbero portare – come già accaduto con la recessione del 2008-13 – ad un adattamento al ribasso, andando così ad accentuare squilibri demografici incompatibili con uno sviluppo solido del nostro paese.

Lo scenario in cui ci troviamo proiettati richiede, in ogni caso, un attento monitoraggio della condizione delle famiglie e delle nuove generazioni, oltre che dell’evoluzione del sistema di rischi e opportunità all’interno del quale le scelte e i comportamenti demografici si collocano. Solo adeguate ricerche e analisi possono fornire il supporto conoscitivo necessario per politiche efficaci, in grado di aiutare il Paese a riprogettarsi e partire in modo nuovo, favorendo un’apertura positiva e vitale verso il futuro.

Il quadro attualmente più completo delle conoscenze disponibili, delle ricerche in corso (in ambito nazionale e internazionale) e delle evidenze empiriche emergenti, si può trovare nel Rapporto “L’impatto della pandemia di Covid-19 su natalità e condizione delle nuove generazioni”, curato dal gruppo di esperti su “Demografia e Covid-19” istituito ad aprile dalla ministra Bonetti, e presentato ieri in un webinar promosso dal Dipartimento per le politiche della famiglia. Riguardo alle nascite, i dati parziali dei primi otto mesi dell’anno evidenziano già una riduzione di circa 6,5 mila nati rispetto allo stesso periodo del 2019. Questo significa che, al netto della pandemia, il 2020 si preannunciava già in ulteriore diminuzione. Un sondaggio condotto a novembre tra i più qualificati esperti italiani sui temi demografici (attivi in ambito accademico o nei principali istituti di ricerca), conferma un orientamento generale ad anticipare un effetto negativo. In particolare, a ritenere che il 2020 sarà caratterizzato da una sensibile riduzione dei concepimenti sono circa 3 intervistati su 4. Il 20 percento pensa che l’impatto sarà limitato, mentre solo circa il 5% ritiene che ci sarà un incremento. Si tratta di un quadro coerente con i dati della prima indagine europea sull’impatto della pandemia sui progetti di vita di giovani e giovani-adulti (18-34 anni) condotta da Istituto Toniolo e Ipsos a fine marzo e poi replicata ad ottobre, che mostrano come gli italiani siano quelli che più si sono trovati a rivedere al ribasso le scelte programmate (uscire dalla casa dei genitori, formare una propria famiglia, avere un figlio).

Di particolare rilevanza, per le ricadute su tali scelte sono i dati sui percorsi professionali e sulle possibilità di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro. Nel secondo trimestre 2020 il tasso di occupazione femminile risulta sceso al 48,4%, consolidando la distanza rispetto alla media europea. Si accentua anche il divario generazionale. Sempre nello stesso periodo, la riduzione del tasso di occupazione è risultata pari a -3,2 punti percentuali nella fascia 25-34 anni, pari a -1,6 nella fascia 35-49 e a -0,8 in quella 50-64. A essere più colpita risulta quindi la classe di età che già presentava il più ampio divario rispetto alla media europea, ma anche quella più delicata per la costruzione dei progetti di vita.

Il 2020 potrebbe essere anche l’anno – come verificheremo dai dati provvisori del Censimento permanente presentati oggi dall’Istat – in cui scopriamo (prima ancora che venga contabilizzato l’’impatto completo della pandemia) di essere scesi sotto la soglia dei 60 milioni di abitanti. Un dato decisamente peggiore rispetto alle previsioni. Le proiezioni con base 2011 prefiguravano una discesa sotto tale livello solo dopo la metà del secolo. Anche secondo le proiezioni più recenti (base 2018, scenario mediano), che scontavano l’andamento demografico negativo dell’ultimo decennio, la discesa sotto la soglia dei 60 milioni si sarebbe dovuta osservare non prima del 2030.

Il Rapporto del gruppo di esperti su “Demografia e Covid-19” si conclude con un capitolo sulle misure messe in campo o annunciate in campo europeo e italiano, con particolare attenzione a Next Generation Eu e al Family act. Ma oltre alla necessità di solide e credibili misure di policy, servirà anche un clima sociale positivo che proietti tutto il paese in avanti, non solo per superare l’emergenza ma, soprattutto, per alimentare un nuovo processo di sviluppo in cui possa essere collocata con fiducia la realizzazione del desiderio di avere un figlio. Al contrario, lasciare che l’emergenza sanitaria diventi una ulteriore occasione per le nuove generazioni di revisione al ribasso dei propri progetti di vita, condannerebbe tutto il paese ad un declino irreversibile. Il segnale più chiaro di quale tra questi due scenari andrà ad imporsi ce lo daranno le dinamiche della natalità dal 2022 in poi.

Investire sull’infanzia con piani e risorse adeguate

Il piano nazionale di ripresa e resilienza (pnrr) “Next generation Italia” comincia finalmente a trovare forma. Si tratta di un passaggio cruciale per il nostro paese. Il momento particolare che stiamo oggi attraversando, la forte necessità di superare limiti e contraddizioni del passato, le prospettive aperte dalla transizione digitale e verde, l’entità delle risorse destinate, lo rendono un’occasione unica per mettere nuove basi al nostro percorso di sviluppo. Rappresenta, quindi, uno strumento concreto per capire quali sono le nostre priorità e quale idea di paese vogliamo realizzare.

Una delle priorità, ribadita recentemente dal premier Conte e che trova conferma nelle versioni preliminari disponibili del piano, è il potenziamento del sistema dei servizi per l’infanzia. Investire sul benessere e l’educazione delle nuove generazioni, fin dai primi giorni di vita, è il modo migliore per prendersi cura del futuro a partire dal presente. Lo dimostra in modo chiaro un ampio Rapporto pubblicato oggi da “Alleanza per l’infanzia” assieme ad “#educAzioni” ”, due realtà che raccolgono una rete molto ampia di associazioni di terzo settore, di organizzazioni del civismo attivo, oltre che di esperti e studiosi da anni impegnati su questo tema. Si tratta di un documento particolarmente prezioso per chi voglia farsi un’idea chiara sulle ragioni e sulle evidenze – basate sui dati più aggiornati e le ricerche nazionali e internazionali più rilevanti – che stanno alla base della necessità di “ampliamento, rafforzamento e integrazione della copertura dell’offerta di servizi educativi e scolastici per i bambini tra 0 e 6 anni e degli interventi a sostegno della genitorialità”. Il Rapporto contiene, inoltre, una dettagliata proposta di realizzazione, con indicazione delle risorse necessarie e le possibilità di finanziamento.

Il punto di partenza è la constatazione che complessivamente, fino ad oggi, l’Italia “non è stata capace di sviluppare politiche pubbliche adeguate a promuovere, come avvenuto invece in molti altri paesi occidentali, l’educazione e lo sviluppo umano a partire dalla primissima infanzia in coerenza sia con il benessere relazionale ed economico delle famiglie, sia con la prospettiva di una crescita solida e di qualità del Paese”.

Il livello di copertura sotto i tre anni – mettendo assieme nidi pubblici, convenzionati e totalmente privati – arriva al 25%, molto sotto il target europeo fissato al 33% e a valori che arrivano oltre il 50% in vari paesi, come la Francia e la Svezia. La Germania è un altro esempio interessante a cui guardare per l’impegno negli ultimi quindici anni a rafforzare la copertura e a ridurre i costi di accesso, riuscendo a convergere verso la media europea partendo da livelli inferiori ai nostri. Nello stesso periodo in Italia i livelli sono rimasti bassi e senza evidenza di un solido processo di convergenza né con l’Europa e nemmeno all’interno del nostro territorio. Il sistema dei servizi per l’infanzia risulta particolarmente debole nelle regioni meridionali. Ma rilevanti sono anche le diseguaglianze sociali: la frequenza ai nidi risulta più ridotta per i bambini provenienti da famiglie con basso reddito e bassa istruzione dei genitori: “sono di fatto esclusi, quindi, i bambini che più trarrebbero giovamento, come mostrano le ricerche internazionali, da esperienze educative extrafamiliari di qualità”.

Nella versione preliminare del pnrr del Governo italiano i “nidi d’infanzia” sono inseriti come una delle linee di intervento della componente “Parità di genere” (a cui nel complesso sono destinati 4,2 miliardi di euro) della missione “Parità di genere, equità sociale e territoriale”. Una collocazione che va a confermare una visione limitata e parziale, in parte anche distorta, nel dibattito pubblico italiano della funzione dei servizi per l’infanzia, che non possono essere ricondotti semplicemente ad uno strumento di conciliazione e utile per le donne. Abbiamo detto che il pnrr “Next generation Italia” dovrebbe riflettere una visione del paese, è quindi importante che assieme agli interventi di policy favorisca in modo coerente i cambiamenti culturali necessari per il loro migliore impatto nei processi di crescita economica e di benessere sociale.

Il Rapporto “Investire nell’infanzia” di Alleanza per l’infanzia ed #educAzioni bene evidenzia come l’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro sia una questione sempre più centrale non solo per le famiglie, ma anche per le aziende, non solo sul versante femminile, ma anche maschile. Il Rapporto dedica tutta una prima ampia e documentata parte alle ricadute dei nidi – intesi come punto di partenza di un percorso educativo di qualità per le nuove generazioni – sui bambini stessi, sulle loro famiglie, sulla società e l’economia, con ritorni positivi sia immediati che nel medio e lungo periodo. “Ragionando pragmaticamente anche in termini di indicatori strategici per lo sviluppo del Paese”, il potenziamento dei servizi di qualità per l’infanzia è elemento centrale di un percorso di qualità della crescita che possa favorire un aumento: dei tassi di partecipazione femminile al mercato dal lavoro, della natalità, dello sviluppo educativo delle nuove generazioni, dei livelli di benessere economico delle famiglie e dei livelli di fiducia; oltre che una riduzione della povertà infantile (materiale ed educativa), delle diseguaglianze di opportunità, del gender gap (in termini di equilibrio dei ruoli all’interno della coppia). Difficile, insomma, trovare un altro tipo di investimento con ritorno economico e sociale così ampio, sia di breve periodo (maggiore occupazione femminile e maggior benessere delle famiglie), che verso il futuro prossimo (rafforzamento del capitale umano delle nuove generazioni e loro prospettive di occupazione, minor costi sociali dovuti a fragilità e diseguaglianze di partenza, minori squilibri demografici).

La conciliazione è quindi solo una parte, pur rilevante. Meglio sarebbe stato inserire questa linea di intervento nella missione “Istruzione”. Ma anche le risorse indicate nel piano appaiono inadeguate rispetto agli obiettivi attesi. La versione preliminare del pnrr è molto generica, ma informazioni fornite in diverse occasioni dal Governo e da forze della maggioranza indicano in 750 mila posti, in termini assoluti, e nel 60 percento, in termini relativi, la copertura da raggiungere. E’ irrealistico però arrivarci anche destinando la metà dei 4,2 miliardi complessivi assegnati dal piano alla componente “Parità di genere”.

Secondo le stime riportate dal Rapporto “Investire nell’infanzia” per arrivare più ragionevolmente ad una copertura pubblica del 33% in ciascuna regione, il costo è di 4,8 miliardi in conto capitale e 2,7 miliardi di spesa corrente. Se poi si vuole raggiungere una effettiva gratuità del servizio, in modo da favorire un accesso ampio come per le materne, va aggiunta una ulteriore cifra stimata in 1 miliardo e 325 milioni l’anno.

Abbiamo già visto misure potenzialmente utili a cui sono state destinate risorse rilevanti, come il Reddito di cittadinanza, trovare poi una realizzazione insoddisfacente. Per mettere le basi di una nuova fase di crescita dobbiamo essere ambiziosi, ma proprio per questo servono interventi con obiettivi credibili e risorse commisurate, ben strutturati e integrati all’interno di un processo da monitorare e potenziare anno dopo anno rispetto alla capacità di consentire alle persone di migliorare la propria condizione e farsi parte attiva dello sviluppo del Paese.