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UNA SFIDA CRUCIALE PER L’ITALIA. OFFRIRE AI GIOVANI VISIONI E SPAZI PER IL LORO

Nel tempo frammentato e accelerato in cui siamo immersi, ai giovani viene chiesto di costruire il proprio futuro in uno scenario con coordinate incerte e condizioni deboli. I dati dell’ultima edizione del Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo (Il Mulino editore, 2025) confermano con chiarezza che l’inclusione e la valorizzazione delle nuove generazioni dipendono sempre più da tre dimensioni fondamentali: la qualità dell’esperienza scolastica, il senso attribuito al lavoro e la possibilità concreta di incidere sul mondo attraverso la partecipazione politica e sociale.
La scuola non offre solo strumenti per accumulare conoscenze e competenze, ma è uno spazio fondamentali in cui le nuove generazioni imparano a vedersi come soggetti attivi nel mondo. Tuttavia, i dati ci mettono di fronte a una realtà preoccupante: una parte rilevante non riconosce nella scuola un ambiente che valorizza il proprio potenziale. A pensarlo sono in particolare coloro che vivono in condizioni sociali più svantaggiate, per i quali il rischio di abbandono scolastico rimane elevato e le opportunità percepite risultano ridotte.
L’esperienza scolastica, invece, dovrebbe rappresentare un contesto capace di riconoscere le specificità personali e offrire strumenti per orientarsi, esprimersi, emanciparsi. Eppure, meno di uno studente su tre percepisce che la scuola riesca davvero a valorizzare talenti e capacità individuali. Ancora più critica appare la valutazione da parte dei figli di immigrati e degli studenti più fragili, che lamentano una scarsa inclusività e un’inefficace promozione delle competenze interculturali.
La scuola è tanto più efficace quanto più è capace di costruire alleanza educativa, senso di appartenenza e fiducia nel cambiamento possibile. Non bastano strumenti compensativi per chi parte in svantaggio: serve una rigenerazione del senso stesso della scuola come spazio generativo, dove sentirsi a casa, riconosciuti e in grado di migliorare se stessi e il mondo.
Anche il lavoro, come la scuola, deve poter essere vissuto come esperienza trasformativa. I giovani non lo considerano più solo una necessità, ma un elemento fondamentale per la propria identità e il proprio benessere. Chiedono che sia coerente con le proprie passioni e aspettative, oltre a chiedere che sia dignitoso, stabile e adeguatamente retribuito. Desiderano spazi in cui poter contribuire attivamente, crescere e sentirsi parte di un progetto collettivo.
Non è quindi il lavoro in sé a perdere attrattiva, ma la sua riduzione a vincolo e sacrificio, privo di prospettiva. Il “ben-essere” non può più essere separato dal “ben-lavorare”. In questa visione, le organizzazioni hanno un ruolo cruciale: saper valorizzare le nuove generazioni non solo per le competenze tecniche, ma anche per la loro energia innovativa, la sensibilità per i temi ambientali e sociali, la capacità di adattamento e visione. La costruzione di un nuovo patto generazionale sul lavoro passa da qui.
Infine, se la politica fatica a coinvolgere i giovani, non è per disinteresse. Il Rapporto Giovani 2025 conferma che la distanza cresce quando la politica appare autoreferenziale e incapace di affrontare le questioni concrete della vita quotidiana. Tuttavia, l’interesse per il bene comune non è venuto meno: lo si ritrova nei temi ambientali, nei diritti civili, nell’uguaglianza di genere, nella sostenibilità e nella giustizia sociale.
I giovani chiedono coerenza, inclusività e nuovi spazi di espressione. La grande maggioranza degli intervistati crede ancora nella possibilità di migliorare il Paese, e si dice pronta a partecipare se vengono offerte occasioni autentiche di coinvolgimento. È un potenziale che va riconosciuto e coltivato. A livello locale, dove l’impatto delle decisioni è più visibile, la fiducia è maggiore: segno che la prossimità può fare la differenza.
Lo stesso voto non è messo in discussione in sé, ma diventa significativo solo se accompagnato da un’offerta politica percepita come rilevante. Il legame tra scelte elettorali e capitale socio-culturale è netto: i più istruiti e integrati sono più propensi a riconoscere valore al voto. I più fragili, invece, rischiano di disinvestire anche da questo strumento di partecipazione, alimentando un circolo vizioso di esclusione e disillusione.
L’Italia si trova di fronte a una sfida cruciale: offrire alle nuove generazioni non solo retoriche sull’importanza dei giovani, ma strumenti, spazi e visioni che rendano credibile e praticabile il loro protagonismo. I dati indicano con chiarezza che scuola, lavoro e partecipazione politica devono diventare pilastri di una strategia integrata per la coesione intergenerazionale.
Oggi sistema paese, istituzioni e organizzazioni si mostrano spesso spiazzate rispetto ai giovani sia perché fanno fatica a trovarli perché in diminuzione demografica, sia perché quando li trovano non capiscono come “adattarli a loro esigenze”. Il fatto è che i giovani, qualsiasi sia il contesto, non si sentono al loro posto se non percepiscono che quel posto può cambiare con loro.
L’elemento di speranza più forte è la vitalità delle aspirazioni giovanili: i membri delle nuove generazioni desiderano luoghi a cui dare senso attraverso il valore del proprio essere e fare, relazioni fondate sul rispetto, una società più giusta. E, soprattutto, non hanno rinunciato a credere che il cambiamento sia possibile. La speranza che portano con sé – non passiva, ma attiva – è una risorsa generativa che può rinnovare la società, se sostenuta e accompagnata in modo autentico.

SFIDA DEMOGRAFICA E POLITICHE INDUSTRIALI: INTEGRAZIONE NECESSARIA

La demografia ha recentemente conquistato attenzione nel dibattito pubblico italiano. Purtroppo, va detto, in grave ritardo rispetto sia agli altri paesi con cui ci confrontiamo, sia ai tempi necessari per rispondere in modo adeguato alle sfide che pone. I contenuti delle audizioni svolte nelle scorse settimane dalla “Commissione parlamentare sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica in atto” consente di farsi un’idea di quanto i vari soggetti istituzionali e gli enti di ricerca nazionali considerino particolarmente grave la situazione in cui ci siamo posti. Può essere, allora, utile chiarire alcuni punti affinché il dibattito possa davvero portare ad un confronto costruttivo e non rimanere bloccato su letture contrapposte parziali.
Un primo punto riguarda il fatto che il problema non è in sé l’aumento dell’aspettativa di vita. E’ questa una sfida positiva che solo un paese confuso e incapace di gestire i cambiamenti del proprio tempo può trasformare in un fatto negativo. Quando diventa effettivamente un problema? Quando non si mettono le persone nelle condizioni di costruire basi solide di una lunga vita attiva e in salute, ma anche quando si creano accentuati squilibri quantitativi tra generazioni a causa del continuo crollo delle nascite. I paesi in crisi demografica sono quelli più deboli su questi due aspetti.
Un secondo punto da chiarire è il fatto che nella parte finale della transizione demografica tutti i paesi tendono a scivolare sotto il livello di equilibrio nel rapporto tra generazioni, ovvero sotto i due figli per donna. Non tutti si trovano, però, nella stessa situazione. Le attuali donne francesi e svedesi arrivate a 45 anni presentano un numero medio di figli superiore a 1,8, questo significa che le future coorti che arriveranno a 45 anni entro la metà del secolo rimarranno sostanzialmente solide. La fecondità delle 45enni italiane è invece attorno a 1,35, con conseguenti coorti in entrata nell’età lavorativa che tendono a ridursi di circa un terzo. Attuare politiche efficaci, quindi, fa la differenza, ma è anche vero che esse vanno rinnovate e riadattate a esigenze e aspettative che mutano nel tempo.
L’accentuata diminuzione italiana della fecondità è senz’altro la causa dei nostri maggiori squilibri nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni. E’ però altrettanto vero, qui sta il terzo punto da precisare, che non è più di per sé sufficiente un suo aumento per risolvere tali squilibri. Ciò per due motivi. Il primo è che la persistenza della natalità su livelli bassi è arrivata ad erodere la popolazione nell’età in cui si hanno figli. Il secondo motivo è il fatto che un aumento consistente delle nascite nei prossimi anni porterebbe a un più solido ricambio generazionale nel mercato del lavoro dal 2050 in poi. La ripresa della natalità è quindi condizione necessaria per non avere squilibri ancora più accentuati nei prossimi decenni, ma non consente da sola di dare risposte alle esigenze attuali. L’immigrazione adeguatamente gestita e regolata fornisce un doppio beneficio. Il primo è quello di compensare la riduzione della popolazione in età lavorativa andando direttamente incontro ai fabbisogni di aziende e organizzazioni in vari settori. Il secondo è di rafforzare la popolazione in età riproduttiva, contribuendo così a risollevare le nascite. Ma la stessa immigrazione non basta. Se non migliorano le politiche familiari, di genere e generazionali, il nostro paese rimarrà poco accogliente e attrattivo: gli immigrati più dinamici e qualificati tenderanno a scegliere altri paesi o a considerare l’Italia solo come un paese di passaggio.
Nel complesso, il concetto che deve essere chiaro è che ciò che serve per far invertire la tendenza delle nascite, tende a far aumentare anche lo sviluppo economico del paese, il benessere delle famiglie e la sostenibilità sociale. Il prodotto interno lordo dipende da tre elementi: il numero di persone in età attiva, il tasso di occupazione, la produttività. Tutti questi fattori sono legati in modo interdipendente con i meccanismi delle dinamiche demografiche.
Ridurre il divario tra numero di figli desiderati e realizzati assieme ad adeguati flussi migratori consente al contingente di persone in età attiva di non indebolirsi troppo nel presente e nel prossimo futuro. Anche il tasso di occupazione ha buoni margini di miglioramento a causa del nostro sottoutilizzo del capitale umano giovanile e femminile. Ma migliorando la transizione scuola-lavoro e il bilanciamento vita-lavoro, si mette chi desidera avere figli in migliori condizioni per averli. Interventi in questa direzione consentono, quindi, di agire in modo concomitante sia sigli effetti che sulle cause degli squilibri demografici, con benefici sia nel breve che nel medio periodo.
Va aggiunto che miglior ingresso e valorizzazione dei giovani nel mondo del lavoro e migliore conciliazione, come molti studi evidenziano, tendono a favorire ingaggio e clima aziendale, alimentando un possibile circuito virtuoso tra produttività e stipendi. In questo modo il paese diventa anche più attrattivo, ovvero più capace di far arrivare e trattenere chi cerca opportunità di piena valorizzazione.
Infine, prolungare la vita attiva ha un impatto sull’occupazione, ma aumenta la produttività solo se si investe sulla formazione continua e sulle modalità di collaborazione tra generazioni, combinando positivamente esperienza, competenze e nuove tecnologie.
E’ quindi evidente che solo un approccio che sappia inserire la questione demografica in modo sistemico nel contesto delle politiche di sviluppo competitivo del paese, può portare a solidi effetti positivi. L’obiettivo non è, però, di per sé quello di far crescere il pil e la natalità. E’ rendere l’Italia un paese in cui si può: lavorare bene, crescere bene sin dall’infanzia, vivere bene in tutte le fasi della vita, scegliere di rimanere, integrare positivamente esperienze e provenienze diverse. Puntiamo la barra in questa direzione e ci troveremo anche con più benessere economico e più figli desiderati.

Il secolo della forza lavoro in declino

La popolazione mondiale non è mai cresciuta in modo così differenziato nelle varie fasce d’età e nelle diverse aree del mondo. Questa crescita disomogenea è dovuta ai diversi tempi in cui si sta realizzando la transizione demografica e ai differenti livelli degli indicatori demografici raggiunti nella fase avanzata di tale processo.

Uno degli esiti principali della transizione è la riduzione a livelli molto bassi dei rischi di morte dalla nascita fino alla fine dell’età lavorativa (e oltre). Il secondo grande cambiamento è la diminuzione della fecondità. Nel 1950 il tasso di fecondità mondiale era di circa 5 figli per donna, mentre è oggi pari a 2,3. Se il tasso di fecondità si stabilizza attorno ai 2 figli, la popolazione in età lavorativa trova una sua configurazione solida e stabile: la base demografica perde la configurazione a piramide e assume una forma rettangolare, con coorti che entrano in età lavorativa equivalenti a quelle che escono.

Cosa ci rende un paese in crisi demografica e come provare a uscirne

Per un lungo periodo nella storia dell’umanità, fino a poche generazioni fa, il tasso di fecondità è stato attorno o superiore alla media dei cinque figli per donna. Un valore elevato? No, necessario per dare continuità alla popolazione compensando gli elevati rischi di morte. Al momento dell’Unità d’Italia, oltre un nato su cinque non arrivava al primo compleanno e solo meno della metà dei figli raggiungeva l’età dei propri genitori. Il passaggio dagli alti livelli di mortalità e natalità del passato a quelli bassi attuali è noto come transizione demografica. Si tratta di un cambiamento di coordinate del sistema demografico a cui corrisponde un abbassamento da cinque (e oltre) a due del livello di fecondità necessario per un equilibrato ricambio generazionale. Quando i rischi di morte dalla nascita fino all’età adulta scendono su livelli molto bassi, infatti, sono sufficienti due figli in media per sostituire i due genitori.

I paesi con tasso di fecondità sceso a due figli per donna e stabilizzato attorno a tale soglia tendono a perdere la struttura per età fatta a piramide (molti giovani e pochi anziani) e ad acquisirne una con base e parte centrale simile a un rettangolo. La punta in età avanzata si allarga e si alza, per effetto della longevità, ma la base rimane solida. Questo consente di investire risorse sulla qualità degli anni in più di vita grazie a una popolazione in età lavorativa che non si indebolisce.

Lo stesso risultato si può ottenere anche con un tasso di fecondità che scende poco sotto i due figli per donna, se la riduzione delle nuove generazioni è efficacemente compensata dall’immigrazione.

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Diventare padri è come nascere per la terza volta nella vita

Cosa vuol dire diventare genitori e, in particolare, essere padri oggi? In passato a tale figura corrispondeva un’autorità indiscussa. La funzione strumentale di tale ruolo e la mortalità infantile, portavano ad un distacco emotivo verso i figli finché non avessero raggiunto un’età utile per le strategie familiari: sul lato femminile nella prospettiva di un conveniente matrimonio, sul lato maschile nella direzione di assicurare la continuità del benessere economico. Questo modello viene progressivamente eroso con l’entrata nella modernità. L’ordine costituito non ha più valore in sé. Non va semplicemente trasmesso così com’è alle generazioni successive.