Tagged: immigrazione

L’Italia senza culle che può salvarsi grazie agli immigrati

L’immigrazione non è troppa se si guarda alla componente regolare (quella nettamente prevalente) e alle necessità di crescita (non solo demografica) del nostro Paese. Anzi, è meno di quanto avremmo teoricamente bisogno per compensare gli squilibri autoprodotti dall’accentuata denatalità. Possiamo anche decidere che non vogliamo immigrati e loro discendenti sul nostro territorio, ma è bene aver presente le implicazioni che ne derivano. Un modo per acquisire consapevolezza è quello di vedere come sarebbe oggi la nostra popolazione se non ci fossero stati flussi con l’estero. Per costruire tale scenario ipotetico facciamo coincidere i nati 50 anni fa con i cinquantenni di oggi, i nati 49 anni con i 49enni di oggi, e così via. Nel secolo scorso le nascite straniere erano una quota molto esigua sulle nascite totali, quindi i dati forniti da tale scenario – limitandoci alla fascia 15-50 anni – restituiscono un ritratto sostanzialmente fedele della popolazione italiana attuale se, appunto, le frontiere fossero rimaste chiuse dalla seconda metà degli anni Sessanta ad oggi. I valori ottenuti ci dicono che i 50enni sarebbero ora quasi un milione, i 40enni meno di 800 mila, i 30enni poco più di 550 mila, e ferme attorno a tale livello anche le classi ancor più giovani. Si tratta, di fatto, di un dimezzamento generazionale in 20 anni.

Qual è stato l’impatto dell’immigrazione? Se prendiamo la popolazione realmente residente oggi in Italia e la confrontiamo con lo scenario teorico precedente vediamo che la popolazione dei 40enni si alza su valori abbastanza vicini al dato dei 50enni. Il crollo, invece, delle nascite nei decenni successivi, in particolare dalla seconda metà degli anni Settanta, risulta molto maggiore rispetto all’azione di compensazione fornita dall’immigrazione. Nello specifico, i 35enni, circa 620 mila senza immigrazione, sono invece oggi 735 mila grazie ai flussi di entrata dall’estero. Quest’ultimo valore risulta, però, non solo ben sotto agli attuali 40-50enni, ma anche inferiore rispetto al dato dei 60enni. I 30enni salgono, con il contributo degli stranieri residenti, attorno a 650 mila. Nonostante ciò la perdita risulta pari a uno su tre rispetto ai cinquantenni, e rimangono inoltre sotto anche agli attuali 70enni. Ancor peggiore la situazione degli under 30.

Se guardiamo alle dinamiche ancor più recenti, ovvero all’andamento della natalità negli ultimi anni, si nota come i figli dei residenti stranieri abbiano consentito di contenere la caduta delle nascite italiane ma è altresì vero che il loro apporto risulta sempre più insufficiente. Nonostante tale contributo il 2016 è stato, del resto, l’anno con il record negativo di nati in Italia dall’Unità ad oggi.

Questi dati, nel complesso, mostrano come con frontiere chiuse gli squilibri demografici risulterebbero oggi molto più accentuati, ma evidenziano anche come l’immigrazione sia rimasta largamente al di sotto rispetto a quanto teoricamente servirebbe per riequilibrare la composizione per età della popolazione italiana.

Questo deficit demografico, prodotto dalla denatalità e solo parzialmente compensato dai flussi migratori netti, rischia di pesare negativamente sul nostro futuro più del debito pubblico. Oggi non ne abbiamo chiara percezione, per l’effetto della crisi economica che ha ridotto i posti di lavoro, ma ancor più perché l’asse centrale del mondo produttivo è ancora composto dalle generazioni quantitativamente molto consistenti dei 40-50enni. Nel corso dei prossimi due decenni, però, i copiosi 50enni diverranno pensionati 70enni, mentre i demograficamente scarsi 30enni (e ancor meno 20enni) andranno via via ad occupare le posizioni centrali del mercato del lavoro. Chi vuole chiudere le frontiere deve dire come gestirà questo tracollo della popolazione attiva e il consistente aumento di anziani inattivi (che assorbiranno risorse per pensioni, assistenza privata e sanità pubblica). Nel contempo bisognerà far tornare a crescere le nascite e l’occupazione femminile, investendo ancor più di quanto fatto sinora sugli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia. Ma gli effetti del rialzo delle nascite sul rinforzo delle età lavorative li vedremo tra vent’anni. Se non vogliamo scivolare in condizioni ancora peggiori è fondamentale agire subito, ma nel frattempo serve anche altro. Non si può prescindere dall’aumentare occupazione giovanile ed età al pensionamento, ma il punto centrale sarà l’indebolimento progressivo dell’asse portante della nostra economia, quello costituito dalla popolazione tra i 35 e i 49 anni. Tale fascia è attualmente quella con più alta occupazione e più alta produttività. Difficile pensare di potenziarla senza attrarre nuova immigrazione. La demografia si ferma qui. “Quale” immigrazione e “come” includerla efficacemente nel nostro modello sociale ed economico è questione che riguarda la politica.

***

 

Popolazione italiana in età 15-50. Confronto tra situazione attuale e teorica nel caso di zero migrazioni nette (coincidente con le corrispondenti nascite italiane da 50 a 15 anni fa)  

0001

Nascite in Italia per cittadinanza

0001

 

 

 

2050 L’Europa si spopola

Possiamo sintetizzare le sfide che pone la demografia in questo secolo in quattro punti.
1 – Non siamo mai stati così tanti sulla Terra. Il ritmo di crescita è più lento rispetto al secolo scorso, ma si aggiungeranno comunque almeno altri due miliardi di abitanti prima del 2050 rispetto ai circa 7,5 miliardi attuali.

L’integrazione non si vede ma va avanti

Siamo continuamente bombardati da notizie e commenti sui nuovi sbarchi, sull’emergenza profughi, sul terrorismo islamico. Il rischio è però quello di perdere di vista la vera sfida che l’immigrazione pone al nostro paese, che più che sulla quantità degli arrivi – da contenere e regolare – si gioca sulle effettive possibilità di integrazione di chi è già qui.
Secondo i dati Istat, la popolazione residente in Italia ad inizio del 2017 era pari a poco più di 60,5 milioni.

Immigrazione, i numeri dei nuovi italiani

immigrazione

L’immigrazione è una sfida complessa e delicata che non si vince né con i muri né con l’accoglienza disordinata e indiscriminata. Fa parte di un mondo diverso dal passato che va prima di tutto capito. Questa difficoltà a capire e a trovare soluzioni convincenti la sta vivendo, pur in modi diversi, sia l’Europa che gli Stati Uniti. In questa fase stanno nettamente prevalendo i timori, ma la direzione della storia ci porta comunque verso un pianeta in cui sarà sempre più facile e normale trovarsi a vivere in un luogo diverso da quello in cui si è nati. Un mondo di questo tipo è anche quello che le nuove generazioni sono portate per propria pulsione interna a desiderare. Le resistenze arrivano però da come stiamo vivendo oggi le implicazioni di questo cambiamento.

Immigrazione: fenomeno inevitabile, sfida da vincere

Nei prossimi anni la crisi demografica in atto nel Vecchio continente rischia di compromettere la sostenibilità del sistema sociale e di impoverire la sua capacità di produrre ricchezza per la crescita. Già oggi in Italia senza immigrazione avremmo un crollo dell’economia, con un collasso in alcuni settori dove la presenza straniera è diventata insostituibile. Per ottenere una crescita sostenibile e inclusiva, quindi, serve una combinazione di politiche a favore della natalità, di immigrazione integrabile e di invecchiamento attivo.

La storia insegna ad aprirsi al futuro

Spostarsi sul territorio è un fatto naturale della vita. I movimenti migratori sono stati uno dei principali motori del popolamento del pianeta e del suo sviluppo economico e sociale. Se ciascuna persona nata dalla rivoluzione del Neolitico in poi fosse rimasta ferma nel suo luogo di nascita, avremmo avuto più divisioni e conflitti, meno interscambi culturali e commerciali, un percorso di civiltà bloccato o comunque molto più lento. È altresì vero che il timore dello “straniero” è stato una costante della storia umana. Gli arrivi dall’esterno possono essere perturbatori rispetto a consolidati equilibri nel luogo di accoglienza. Aiutano però anche, come avviene nel confronto tra generazioni, a vedere con occhi diversi la realtà e ad affrontare con energie nuove le sfide che essa pone. Il tema vero è allora come vengono gestite e come possono essere regolate le acquisizioni esterne, non tanto come opporsi a chi arriva. Barricarsi rispetto all’esterno è una scelta da popolazione debole o in declino. Le persone vengono messe in un ambiente chiuso e asettico quando hanno un sistema immunitario compromesso e qualsiasi piccola contaminazione è una minaccia alla sopravvivenza. Un organismo sano ha invece più da guadagnare aprendosi che chiudendosi.

Un atteggiamento di chiusura combinato con una fase di declino l’abbiamo già sperimentato nella nostra storia. Come ha ben documentato, tra gli altri, lo storico economico Carlo Maria Cipolla, dopo la caduta dell’Impero romano tutto il continente europeo scivolò verso condizioni di arretratezza culturale ed economica. Si diffuse in maniera pervasiva uno spirito di rinuncia, di sospetto e paura verso il mondo esterno. La svolta che consentì di mettere le basi di una nuova Europa, in grado di assumere un ruolo guida per lo sviluppo globale, si realizzò quando l’autarchia e i rapporti servili del sistema curtense iniziarono a essere scardinati dalla vitalità del lavoro libero e dallo scambio continuo nelle città. E «alla base del fenomeno cittadino vi fu un massiccio movimento migratorio». La vivacità delle città era alimentata soprattutto da «gente che aveva lasciato dietro di sé il mondo rurale e feudale senza rimpianti e cercava un mondo nuovo». Citando Henri Pirenne, Carlo Cipolla ricorda inoltre che «quando una persona entrava da una delle porte, diventava soggetta a una diversa legge, come quando oggi si passa da uno Stato ad un altro».1 Alla base di una nuova fase di crescita che modificherà il percorso di sviluppo dell’Europa nel mondo c’è quindi soprattutto un cambiamento di atteggiamento, di uscita dallo stato di rinuncia, sfiducia e chiusura per aprirsi sistematicamente all’esterno, strutturando rapporti di continuo scambio e interazione su ogni livello. Interessante è il caso della Repubblica di Venezia, ai tempi del suo massimo fulgore, come raccontato da Andrea Zannini in “Venezia città aperta. Gli stranieri e la Serenissima XIV-XVII sec.”.2 Nella prefazione al libro, Giuseppe Del Torre ricorda, in particolare, come la Serenissima si sia confrontata per tutta la sua storia con la necessità di assorbire dall’esterno manodopera più o meno qualificata per alimentare le sue strutture commerciali e manifatturiere. La crescita delle comunità straniere e la presenza multietnica – grazie a una gestione “flessibile e intelligente” in grado di favorire, con grande senso pragmatico, processi di convivenza e integrazione – «costituì un patrimonio da incrementare piuttosto che un pericolo da combattere». La vera forza delle città italiane ed europee fu, dunque, quella di credere in un processo di sviluppo nel quale più che difendere vecchi equilibri e privilegi, attraverso esclusioni, vincoli e obblighi, contavano invece il movimento di merci e di persone, la mobilitazione di energie e aspirazioni, il dinamismo sociale, il confronto e l’innovazione tecnica. Divennero così progressivamente più importanti le porte rispetto alle mura.3

Una sfida inevitabile

Oggi il tema dell’immigrazione è tornato centrale. I grandi flussi da un paese all’altro sono alimentati da tre importanti fattori: l’evoluzione demografica, le diseguaglianze economiche, l’instabilità politica. Usualmente i flussi partono dai paesi in cui c’è una esuberanza di giovani e vanno verso paesi che offrono maggiori opportunità di lavoro. Viviamo in un mondo in cui ci sono forti squilibri tra paesi con elevata natalità e basso sviluppo, da un lato, e invecchiamento della popolazione e alti livelli di benessere, dall’altro. Questo divario è particolarmente forte tra la sponda Nord e quella Sud del Mediterraneo. Dagli anni Novanta in poi abbiamo avuto consistenti flussi di entrata dall’Est Europa, destinati però progressivamente a ridursi per l’accentuata denatalità che oramai caratterizza tale area. Gli arrivi nell’Europa occidentale dai paesi dell’ex blocco sovietico possono essere considerati anche un esempio del terzo fattore, quello dell’instabilità politica. Oggi l’instabilità politica caratterizza maggiormente altre aree, alimentando flussi di profughi verso l’Europa dal Medio Oriente e dal Nord Africa. L’area che invece nei prossimi decenni alimenterà i maggiori flussi migratori è l’Africa subsahariana, per la forte spinta dell’esuberante demografia in combinazione con condizioni di basso sviluppo. La crescita della popolazione africana nei prossimi decenni sarà tale da non poter essere sostenuta tutta da processi interni di crescita economica.

Il quadro demografico, economico e geopolitico attorno al Mediterraneo è tale da rendere inevitabile il continuo flusso di immigrati verso l’Italia e l’Europa anche, forse ancor più, nel prossimo futuro. Si tratta di dinamiche di un processo più generale di mobilità che in larga parte avverrà anche tra paesi in via di sviluppo e dalle zone rurali alle megalopoli. L’immigrazione è quindi inevitabile, a meno che non si pensi di poter togliere l’Italia dal centro del Mediterraneo e portarla su Marte. Oltre a essere inevitabile è però anche in buona misura necessaria e utile.

Un fenomeno necessario

L’Europa è in crisi demografica. Da decenni produce un numero di figli sensibilmente inferiore a quello necessario per un equilibrato ricambio generazionale. Questo prima e più ancora che a una diminuzione della popolazione porta a uno squilibrio nella struttura per età. La riduzione delle nascite porta a una contrazione della presenza delle nuove generazioni. L’aumento della longevità fa, invece, aumentare la possibilità per le vecchie generazioni di arrivare in età anziana e di rimanerci sempre più a lungo. Nei prossimi anni ci troveremo quindi con sempre più persone ritirate dal lavoro che assorbiranno risorse per pensioni e spesa sanitaria, da un lato, e sempre meno persone in età da lavoro, dall’altro. Un quadro che rischia di diventare insostenibile, impoverendo la capacità di produrre ricchezza per la crescita e la sostenibilità del sistema sociale. È possibile rispondere a questa sfida in modo positivo, ovvero creando le premesse per un futuro che non sia peggiore del presente e che anzi ambisca anche a essere migliore? Sì, a tre condizioni. La prima è favorire una ripresa delle nascite, soprattutto dal momento che il numero di figli che si hanno è in tutti i paesi europei, seppur in misura diversa, sensibilmente inferiore a quanti effettivamente desiderati. La seconda è mobilitare nel sistema produttivo le risorse disponibili, finora sottoutilizzate, in particolare giovani e donne, oltre al crescente numero di persone potenzialmente attive in età matura. Il terzo è rinvigorire la popolazione con l’immigrazione, rafforzando le carenze di manodopera in vari settori e rendendo più sostenibile il rapporto tra lavoratori e inattivi.

Secondo le più recenti previsioni dell’Eurostat (base 2013) la combinazione tra aumento della popolazione over 65 e diminuzione della fascia 15-64 produrrà un aumento progressivo del tasso di dipendenza degli anziani dal 28% circa attuale fino a toccare il 50% attorno alla metà del secolo. Di fatto significa passare da quattro persone in età attiva per ogni anziano a un rapporto di due su uno. Tali previsioni contemplano un aumento della fecondità da 1,55 a 1,76 figli e, soprattutto, un ingresso netto di oltre un milione di migranti l’anno (complessivamente oltre 50 milioni di arrivi da oggi al 2060). Con tasso di fecondità costante e senza immigrazione il quadro risulterebbe, quindi, decisamente peggiore. Questi dati mostrano come l’immigrazione di per sé non sia in grado di bilanciare il rapporto tra forza lavoro potenziale in diminuzione e anziani inattivi in aumento, ma consenta di renderlo molto meno accentuato. Guardando oltre la crisi e con l’obiettivo di alimentare una crescita sostenibile e inclusiva in una società vitale, serve quindi una combinazione di politiche a favore della natalità, a favore di un’immigrazione integrabile, a favore dell’invecchiamento attivo.

I dati Istat relativi all’Italia indicano a inizio 2015 una popolazione residente di nazionalità italiana in età attiva (15-64 anni) pari a 35,3 milioni che scenderà a 26,5 milioni nel 2050, a fronte di un aumento degli over 65 italiani dai 13,1 milioni attuali a 18,6 milioni a metà secolo. Il contributo degli stranieri residenti in età attiva è attualmente di 3,9 milioni e salirà a oltre 8 milioni nel 2050. In altri termini senza stranieri avremmo nel 2050 una popolazione che acquista 5,5 milioni di over 65 e perde 8,8 milioni di persone in età attiva (soprattutto nelle fasce più produttive). Con gli stranieri la perdita in età attiva si riduce a 4,6 milioni e l’aumento in età anziana incrementa di 2,2 milioni. In termini relativi il tasso di dipendenza degli anziani anziché salire al 70,4% sarà nel 2050, grazie agli immigrati, previsto pari al 60,8% (rispetto al 33,7 attuale). Si tratta di un apporto compensativo particolarmente rilevante, non in grado, come abbiamo detto, di annullare gli squilibri crescenti del processo di invecchiamento, ma di moderarli significativamente.

I tre scenari

Secondo i dati forniti dalla Fondazione Leone Moressa, senza immigrazione avremmo oggi 2,3 milioni di lavoratori in meno con una perdita pari a circa il 9% del PIL. Si produrrebbe un crollo dell’economia, con un collasso in alcuni settori dove la presenza straniera è diventata insostituibile: nell’assistenza agli anziani, nei servizi per le famiglie, nelle imprese edili, nella ristorazione, nell’agricoltura. Non solo mancherebbe la ricchezza prodotta dagli stranieri, che sempre secondo la Fondazione Leone Moressa in tasse eccede di circa 4 miliardi i costi (welfare, integrazione, contrasto all’irregolarità), ma peggiorerebbero anche le condizioni delle famiglie italiane (per le difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia) e le imprese risentirebbero del calo di consumi degli immigrati in Italia. In sintesi, chi dice di non volere l’immigrazione dà per scontato il declino dell’Italia, questo è bene averlo presente. Chi è accogliente rispetto all’immigrazione accetta una sfida, complessa e delicata da vincere, anche questo è bene tenerlo ben presente.

L’immigrazione ci pone davanti tre scenari, solo due sono possibili e solo uno è auspicabile. Il primo (voluto dalla pancia) è quello dell’immigrazione zero, impraticabile ma che porterebbe in ogni caso a marginalizzazione e declino dell’Italia. Il secondo (dettato dal buon cuore) è l’immigrazione subìta e incondizionata, che oltre al rischio di declino espone all’inasprimento delle diseguaglianze e dei conflitti sociali. Il terzo (consigliato dalla testa) è un’immigrazione funzionale, ben gestita ed esplicitamente inclusa come parte integrante del nostro modello di sviluppo. Purtroppo il dibattito pubblico italiano è dominato dal confronto acceso tra i primi due scenari e poco in concreto stiamo facendo per progettare e realizzare il terzo.