Un Paese che ha abolito i figli non può sperare nella rinascita

Il Family Act – a cui finalmente il Governo ha dato via libera – funzionerà non tanto per i rilevanti interventi che prevede ma nella misura in cui riuscirà a diventare il punto di partenza di un nuovo paradigma.

I paesi che non prendono sul serio la demografia ne pagano le conseguenze addebitandone i costi sul conto delle nuove generazioni. Costi che in Italia sono destinati a crescere in modo abnorme se non si interviene con politiche efficaci in grado di contrastare lo scadimento del rapporto quantativo e qualitativo tra vecchie e nuove generazioni.

Il Family Act – a cui finalmente il Governo ha dato via libera – funzionerà non tanto per i rilevanti interventi che prevede ma nella misura in cui riuscirà a diventare il punto di partenza di un nuovo paradigma. Quello che altre economie mature che crescono in modo più solido del nostro hanno capito è che le politiche familiari vanno intese come parte integrante delle politiche di crescita, strettamente connesse con l’occupazione giovanile, la partecipazione femminile al mercato del lavoro, lo sviluppo umano a partire dall’infanzia e lungo tutte le fasi della vita. In un report appena pubblicato dall’European Parliamentary Research Service, dal titolo “Demography on the European agenda. Strategies for tackling demographic decline”, si ribadisce in modo chiaro che “Demography matters”, ovvero che la demografia conta perché struttura e dinamiche della popolazione sono in stretta interdipendenza con l’economia, il mercato del lavoro, la salute pubblica, lo sviluppo territoriale.

Un esempio interessante dell’approccio da adottare è quello della Germania che nel decennio precedente l’emergenza sanitaria è stata in grado di invertire la dinamica negativa delle nascite, portandole dal minimo di 663 mila del 2011 a circa 790 mila. Del tutto opposto il percorso dell’Italia che nello stesso periodo è scesa da valori attorno a 550 mila a meno di 440 mila. L’esito è ben visibile nella fascia anagrafica 0-4: in Europa ci sono oggi in tale età, rispetto al 2011, oltre 600 mila bambini tedeschi in più e circa mezzo milione di bambini italiani in meno.

I risultati positivi della Germania si devono ad un solido piano di potenziamento delle politiche familiari – in termini di sostegno economico e servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia – realizzato proprio in concomitanza della precedente recessione. Ciò ha consentito non solo di limitare gli effetti negativi sulle famiglie con figli, ma di migliorare anche il clima di fiducia (che favorisce scelte di impegno positivo verso il futuro). In Italia, al contrario, la recessione del 2008-2013 ha visto le coppie con figli combattere sul fronte dell’inasprimento delle difficoltà oggettive con a supporto deboli e frammentate politiche familiari. L’esito è stata una Caporetto sociale che ha lasciato in eredita un nocivo mix di senso di abbandono, sfiducia e insicurezza.

La natalità è l’indicatore più sensibile, nei paesi più avanzati, alle condizioni oggettive del presente e alle prospettive future. Nei contesti caratterizzati da fiducia e aspettative positive, chi desidera avere un figlio più facilmente realizza tale scelta, aumenta la presenza di giovani e si rafforza il loro contributo allo sviluppo sostenibile. Dove invece le famiglie si sentono sole, si riduce la scelta di avere un figlio e si accentuano gli squilibri demografici.

Se quindi è utile consolidare strutturalmente le politiche sociali in periodo di normalità, ancor più importanti sono i segnali verso i cittadini nelle fasi congiunturali negative. Inoltre, gli squilibri demografici italiani, da tempo tra i più accentuati al mondo, rischiano di essere ulteriormente aggravati dalla crisi sanitaria, con impatto tale da relegarci definitivamente ai margini dei processi più virtuosi di sviluppo nel resto di questo secolo.

La Germania presentava un processo di invecchiamento peggiore al nostro, ma è riuscita a rafforzare la consistenza delle nuove generazioni attraverso un aumento del tasso di fecondità assieme ad un attento governo delle immigrazioni. Grazie a ciò nei prossimi decenni si troverà con un peso relativo degli anziani simile al nostro ma potendo contare su una popolazione attiva sensibilmente più robusta.

Ogni stato membro dell’Unione ha proprie strategie e politiche per gestire positivamente l’interdipendenza tra economia e demografia. I princìpi sono però consolidati e continuamente ribaditi nei pareri del Comitato economico e sociale europeo, anche se non tutti i paesi si mostrano ugualmente sensibili e impegnati nel realizzarli in modo efficace. In primo luogo avere figli non deve produrre ricadute negative sul lavoro o esser fattore di impoverimento, ma inserirsi positivamente nel percorso di realizzazione personale e professionale che porta a migliorare la propria capacità di essere e fare nella società e nel sistema produttivo. L’Italia è, invece, tra le economie mature avanzate che meno si sono dotate di strumenti per favorire la conciliazione tra tempi di vita e tempo di lavoro, con un welfare informale che sempre meno riesce a compensare e messo in crisi ulteriormente dall’emergenza sanitaria. In secondo luogo avere un figlio deve entrare all’interno dei confini della progettazione possibile nei percorsi di transizione alla vita adulta delle nuove generazioni, non posizionarsi oltre un orizzonte che viene spostato sempre più in avanti fino alle soglie della rinuncia. La mancanza di adeguate misure a sostegno dell’autonomia e dell’intraprendenza (attraverso housing e politiche attive del lavoro) rischia di mantenere molti giovani italiani nella condizione di figli fino all’età in cui diventa troppo tardi per diventare genitori.

L’Italia è da troppo tempo uno dei casi meno virtuosi in Europa rispetto alla capacità di policy per la effettiva attuazione di questi due principi, con tutte le conseguenze che ne derivano. Il momento storico ci offre ora l’occasione unica (irripetibile sotto molti aspetti) di diventare l’esempio di paese che meglio ha saputo riorientare politiche e risorse verso un percorso di sviluppo strutturalmente più solido. Riusciremo a coglierla prima che sia troppo tardi?

L’ARTICOLO COMMENTATO NELLA RASSEGNA STAMPA DI RAI RADIO 1

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