Posts By: Alessandro Rosina

Popolazione: chi è favorito dai numeri

Il mondo è in grande mutamento sotto l’impulso dei cambiamenti demografici. In particolare, l’aumento della longevità porta ad una continua espansione della fase anziana, mentre la riduzione della natalità va a ridurre in modo inedito la consistenza delle nuove generazioni.

Le persone di 65 anni e oltre prima della transizione demografica erano meno del 5%. Oggi su scala globale i livelli sono doppi ed entro il 2050 si arriverà a triplicare. L’Europa si trova già con un dato intorno al 20%. Prima della transizione il numero medio di figli per donna era attorno o superiore a 5. Attualmente è meno della metà. La grande maggioranza dei Paesi presenta oggi una fecondità pari o sotto la soglia di 2, quindi insufficiente a garantire un adeguato ricambio tra generazioni.

Se l’aumento della componente anziana è un processo destinato a continuare lungo il secolo, la popolazione in età attiva non necessariamente è condannata alla riduzione.

Nel caso, infatti, che la fecondità si stabilizzi attorno ai 2 figli per donna, il vertice della piramide demografica andrebbe comunque progressivamente ad alzarsi, ma con base e parte centrale che rimarrebbero solide e stabili. È la discesa sotto tale soglia che alimenta squilibri accentuati che, se non gestiti per tempo, rischiano di diventare insostenibili.

Le attuali differenze tra aree del mondo rispetto alle dinamiche della popolazione in età attiva si devono ai diversi tempi della transizione demografica e a quanto basso viene portato e mantenuto il livello di fecondità nella fase più avanzata della transizione.

Molto interessante è, in questo senso, il confronto tra Cina, India e Africa, le tre aree maggiormente in grado di condizionare il percorso della popolazione mondiale. Attualmente presentano un’analoga entità della popolazione, attorno a 1,4 miliardi.

Europa e Nord America: fine del “dividendo demografico”

Nel 1975, quando venne creato il G7, la demografia di Europa e Nord America (che esprimono, come ben noto, 6 membri su 7) era ancora consistente. La popolazione di tale area si trovava complessivamente poco sopra i 900 milioni di abitanti: un dato vicino al valore della Cina, mentre l’India era a circa due terzi di tale valore e l’Africa non arrivava alla metà. Inoltre, avendo iniziato prima la transizione demografica, Europa e Nord America si trovavano con un sensibile vantaggio in termini di “dividendo demografico”, ovvero nella fase di alta e crescente incidenza della componente che maggiormente contribuisce allo sviluppo economico. La percentuale della fascia 15-64 era vicina al 65% e oltre la metà (il 33%) si trovava nella classe di età più attiva e produttiva, quella tra i 25 e i 49 anni (Figura 1).

A livello mondiale quest’ultima classe (quella centrale nella produzione di ricchezza e sostenibilità sociale) non arrivava al 29%, con Cina, India e Africa posizionate tutte sotto. Un vantaggio che Europa e Nord America hanno mantenuto fino all’ingresso del nuovo secolo ma che nel corso dell’attuale verrà progressivamente eroso: nel periodo dal 2000 al 2035 il dato è destinato, secondo le previsioni delle Nazioni Unite, a scendere dal 37% al 31%.

Cina, India e Africa: chi avanza e chi arretra

La Cina è il Paese che mostra il percorso più anomalo. La riduzione drastica delle generazioni più giovani che si produce con la politica del figlio unico (avviata nel 1979), a fronte di una popolazione anziana ancora molto bassa, ha spinto verso l’alto in modo accentuato la fascia in età lavorativa. Ne è derivato un grande impulso all’economia. La fase con dividendo demografico particolarmente favorevole si è però esaurita nei primi decenni di questo secolo, con la progressiva entrata in età attiva delle generazioni nate dopo la politica del figlio unico. Con quasi altrettanta rapidità osservata nella fase di aumento si è aperta ora una fase di riduzione che preoccupa molto il Governo di Pechino, passato dall’imporre una severa restrizione delle nascite ad essere uno dei più impegnati a sostenerne oggi la ripresa.

Diverso il percorso dell’India, che con un andamento meno drastico di riduzione della feconditàpresenta attualmente un livello attorno ai due figli per donna. La percentuale di popolazione in età attiva mostra una crescita più lineare che continuerà anche nei prossimi decenni, arrivando a superare sia il dato dei paesi occidentali che quello della Cina. Nei primi 35 anni di questo secolo l’incidenza della fascia 25-49 salirà dal 32% al 38%, mentre la Cina scenderà da oltre il 40% al 33% (Figura 1).

L’Africa, soprattutto nella parte sub-sahariana, presenta tutt’ora livelli di fecondità elevati, che mantengono la popolazione under 25 nettamente prevalente. Il peso della fascia tra i 25 e i 49 anni è comunque in crescita arrivando nei prossimi dieci anni quasi a convergere con il dato di Europa-Nord America, per poi portarsi stabilmente sopra nel resto del secolo.

Produttività: il secondo dividendo demografico

I Paesi nella fase più avanzata della transizione demografica, conclusa la finestra favorevole del “dividendo demografico”, si trovano con la sfida di dover generare sviluppo e benessere su basi e condizioni completamente diverse rispetto al passato. Dovendo nel contempo confrontarsi con aree del mondo in rafforzamento quantitativo della fascia centrale adulta.

Da un lato le economie mature avanzate devono evitare che i livelli di fecondità scendano su valori troppo bassi e, assieme, compensare con adeguati flussi migratori l’indebolimento eccessivo della popolazione in età attiva, dall’altro lato devono strategicamente puntare a rendere più efficiente l’uso della componente attiva migliorando occupazione e produttività.

La spinta alla crescita economica di una popolazione in cui si vive sempre più a lungo, in cui migliorano le condizioni di salute, in cui cresce la quota di chi ha elevata formazione, in cui aumentano le opportunità legate alle nuove tecnologie, corrisponde a quello che viene indicato come “secondo dividendo demografico”. Per cogliere positivamente gli aspetti qualitativi del secondo dividendo – in sintonia con le prospettive della transizione verde e digitale – è necessario rafforzare le competenze avanzate, l’investimento in ricerca, sviluppo e innovazione, la valorizzazione piena del capitale umano sul versante sia maschile che femminile.

I Paesi maggiormente in crisi demografica nell’area dell’Asia orientale stanno, in particolare, puntando molto su ricerca e sviluppo. Giappone e Corea del Sud sono anche ai vertici della percentuale dei giovani che arrivano alla laurea. Nella stessa Cina l’accesso all’educazione terziaria è cresciuto sensibilmente negli ultimi decenni. Tali Paesi presentano però divari maggiori rispetto alla media dei Paesi OCSE tra occupazione femminile e maschile.

Varia è la situazione all’interno dell’Europa. Vi si trovano Paesi con basso gap occupazionale di genere, alta quota di laureati e di investimento in ricerca e sviluppo, come i Paesi scandinavi, ma anche contesti con tutti e tre tali indicatori posizionati su livelli tra i più bassi nei ranking OCSE (in particolare alcuni paesi del Sud e dell’Est Europa).

In questo quadro l’Italia risulta essere uno dei Paesi con maggior riduzione in corso della popolazione in età attiva e più debole investimento sulla presenza qualificata giovanile e femminile nella forza lavoro. È quello che maggiormente rischia, da un lato, di perdere – con la transizione demografica – le condizioni quantitative che favorivano la crescita in passato senza cogliere, dall’altro, le opportunità di generare nuovo sviluppo – in coerenza con la transizione verde e digitale – facendo leva sui fattori qualitativi che migliorano occupazione e produttività.

Demografia. Una Europa senza figli. Servono 7 milioni di lavoratori nel 2030

Benvenuti nell’era del rinnovo generazionale debole. Su scala globale la popolazione anziana è in continuo esuberante aumento mentre le nascite hanno smesso di correre. In gran parte del mondo sono, anzi, già in fase di arretramento. Prima della transizione demografia il numero medio di figli per donna era attorno o superiore a 5, attualmente è meno della metà. La grande maggioranza dei paesi presenta oggi una fecondità pari o sotto la soglia di 2, quindi insufficiente a garantire il ricambio generazionale. Dai timori per una fecondità troppo elevata, che porta ad una crescita sostenuta della popolazione, si sta passando alla preoccupazione per una fecondità troppo bassa che alimenta squilibri accentuati all’interno delle popolazioni.

Per la natalità ruolo centrale per gli asili nido

La demografia è una sfida, può essere un problema, è anche sempre più un rebus. E’ una sfida perché ci costringe a cambiare, ma non necessariamente in negativo. Il vivere a lungo e bene è un processo che va alimentato in positivo fornendo strumenti per cogliere per tempo il meglio dalle varie fasi. Può essere un problema perché va ad alterare il rapporto tra generazioni, con un aumento della fascia più matura della popolazione rispetto a quella più giovane. Squilibri che però si può evitare che diventino insostenibili con politiche a supporto della scelta di aver figli per chi li desidera. E’ sempre di più, anche, un rebus, perché anche i paesi che da più lungo tempo sono attenti e investono in modo solido sul versante delle politiche familiari non riescono a raggiungere la media dei due figli per donna (pur, comunque, non scendendo troppo sotto).

Un cambio di passo necessario per i giovani

Nel tradizionale Discorso di fine anno il Presidente Mattarella ha ben espresso la contraddizione di un’Italia che, da un lato, disconosce le attese delle nuove generazioni e le fa sentire “fuori posto”, dall’altro, ha “bisogno dei giovani”, “delle loro speranze”, “della loro capacità di cogliere il nuovo”.

Una gioventù debole in un paese sempre più vecchio

Struttura demografica con base sempre più stretta

I dati del Censimento pubblicati dall’Istat a fine 2023 forniscono le coordinate principali del percorso demografico del nostro paese. Ci dicono che il numero dei residenti dal 2014 è in continua diminuzione e che siamo entrati nel 2023 sotto i 59 milioni di abitanti. Nel corso dell’ultimo anno la popolazione è ulteriormente scesa, trascinata verso il basso da un divario tra nascite e decessi che rimane ampiamente negativo, solo in parte compensato dal saldo migratorio. Una diminuzione che procede in modo differenziato lungo la dimensione territoriale e dell’età.

Il Censimento mostra come la perdita di abitanti sia in larga parte concentrata nel Sud Italia e nei centri con meno di 5 mila abitanti (che sono oltre i due terzi dei comuni italiani). Lasciare che gli squilibri demografici aumentino significa lasciare che diventino ancor più fragili i territori già più fragili. E mostra come, rispetto a una popolazione anziana che continua a crescere, sia in spiccata riduzione la consistenza quantitativa delle nuove generazioni. Il processo che più sta incidendo sugli squilibri demografici e con intensità maggiore nel nostro paese è quest’ultimo. Un processo che continuiamo a sottovalutare e a lasciare ai margini del dibattito pubblico. Se si effettua una ricerca su Google, si trova che nel corso del 2023 la voce “invecchiamento della popolazione” fornisce oltre 13 mila risultati, mentre “degiovanimento” ne totalizza poco più di 160. La voce “invecchiamento dal basso” – utilizzata dai demografi per indicare gli effetti della denatalità sulla struttura per età – produce meno di 10 risultati.

Continuiamo a pensare che, in termini di questione demografica, la principale anomalia dell’Italia sia la longevità, che fa aumentare la popolazione nelle età più mature. Invece, la longevità intesa come vivere bene e a lungo va considerata la nuova normalità da favorire, una sfida che accomuna l’Italia con le economie più avanzate. Nessun paese mette in atto politiche per contenere la longevità, mentre nel resto d’Europa si introducono politiche più solide delle nostre per favorire la natalità.

La preoccupazione maggiore dell’Unione europea non è l’aumento degli anziani, ma l’indebolimento della popolazione attiva, a causa della riduzione delle coorti di nuovi entranti in età lavorativa. L’anomalia italiana, che ci caratterizza da troppo tempo, è l’intensità del degiovanimento quantitativo (sempre meno giovani) entrato in circolo vizioso con il degiovanimento qualitativo (debole presenza nella società e nel mondo del lavoro).

Nell’Unione europea negli ultimi 20 anni (dal 2002 al 2022, usando i dati Eurostat comparativi più recenti), la popolazione nella fascia d’età 30-34 – quella di raccordo tra la fase giovane e adulta – è diminuita di 4,4 milioni (da 32,5 a 28,1 milioni). La corrispondente perdita dell’Italia è stata di 1,3 milioni (figura 1). Si tratta, in termini assoluti, del dato peggiore tra i paesi dell’Ue-27. In termini relativi corrisponde a oltre il 30 per cento della perdita complessiva dell’Unione. Detto in altro modo, quasi un terzo dell’indebolimento delle coorti europee entranti nel pieno dell’età lavorativa lo si deve all’Italia.

Se si guarda invece alla popolazione anziana in condizione più fragile, quella di chi ha 85 anni e oltre, nello stesso intervallo temporale l’aumento è stato di circa 6,2 milioni di abitanti nel complesso Ue-27 e l’Italia ha segnato una variazione positiva di poco meno di 1 milione, pari al 16 per cento dell’aumento complessivo dell’Unione. Un dato sostanzialmente in linea con gli altri grandi paesi con cui ci confrontiamo.

LEGGI ARTICOLO COMPLETO