Più ottantenni che nuovi nati (e altri dati salienti sullo squilibrio demografico italiano)

Secondo i dati recentemente pubblicati dall’Istat¹ nel 2017 sono nati in Italia 458.151 bambini. E’ un numero alto? Basso? Va bene così? Può forse essere utile fornire alcuni riferimenti per orientarsi nella lettura di tale dato (e poi ognuno si faccia la propria opinione).

La smobilitazione del paese dal basso
Partiamo da una considerazione. Se qualsiasi bene economico prodotto nel nostro paese subisse un crollo, quello che al più si rischia è perdere un settore economico strategico. Anche le nascite possono essere considerate un bene prodotto. Se si azzerano è però tutto il paese, non solo qualche settore produttivo, che chiude. L’auspicio che chiuda può essere espresso solo da chi pensa che l’Italia non abbia le potenzialità per portare una dote specifica di creatività, benessere e bellezza nei processi di sviluppo del mondo in questo secolo (e nei futuri). Se siete tra costoro non serve che leggiate il resto di questo articolo.
Pensando di condividere, quindi, l’idea che l’Italia debba giocarsi al meglio le proprie carte per produrre sviluppo e benessere in questo secolo, la questione che si pone riguarda il ruolo che assegniamo alla demografia. Essere 60 milioni, come oggi, o dieci milioni in più o in meno fa la differenza? Una delle obiezioni più comuni rivolte a chi si preoccupa della bassa natalità è che se diminuiamo, in un mondo che invece cresce, non è in fondo così grave. Questa obiezione ha alla base elementi condivisibili ma contiene anche un errore fatale. La diminuzione delle nascite non fa diminuire una popolazione in modo proporzionale a tutte le età, la erode dal basso: gli anziani rimangono (anzi aumentano), mentre si riduce la consistenza delle nuove generazioni. Si accentua quindi il peso della popolazione più vecchia, producendo squilibri generazionali che più si allargano e più costituiscono un freno alla crescita economica e alla sostenibilità del sistema sociale.

Cinque coordinate per orientarsi
Dopo questa premessa passiamo allora ai dati. Quanto possiamo considerare basso il numero delle nascite? Proviamo a dare cinque punti di riferimento.
Primo: le nascite di oggi sono meno della metà dei nati in Italia a metà degli anni Sessanta. Quindi il crollo di questo “bene” è stato piuttosto consistente. Nello stesso periodo il numero medio di figli per donna è sceso da 2,7 a 1,3.
Secondo: il numero di nati registrati nel 2017 (ma anche i primi dati del 2018 non sono in controtendenza) è il più basso dall’Unità d’Italia in poi, compresi i due conflitti mondiali. Ed è dal 2013 che ogni anno successivo battiamo al ribasso tale record negativo (neodemos 12/11/2014 “come può uno scoglio arginare il mare?” La recessione delle nascite e gli effetti del bonus bebè).
Terzo: in altri Paesi questa diminuzione drastica non c’è stata. Ad esempio in Francia il numero medio di figli per donna è rimasto vicino a due (livello di equilibrio generazionale), con la conseguenza che il contingente delle generazioni nate nell’ultimo mezzo secolo risulta sostanzialmente stabile.
Quarto: se si confronta il numero desiderato di figli tra giovani-adulti italiani e coetanei europei i livelli sono del tutto simili e tale valore è in media attorno a 2. Questo significa che in Italia non solo si fanno meno figli rispetto alla media europea ma anche rispetto al numero desiderato dai giovani e dalle coppie italiane.
Quinto: lo squilibrio strutturale della popolazione italiana è arrivato a livelli tali che oggi, per la prima volta, il numero dei nuovi nati è sceso sotto quello degli ottantenni. Le persone residenti in Italia di 80 anni risultano infatti essere 482 mila al primo gennaio 2018, contro 458 mila nati nel corso del 2017.

Il peso degli squilibri sul futuro
I dati Eurostat consentono di fare un confronto con gli altri paesi europei mettendo in relazione ad inizio 2017 chi ha 80 anni con coloro che non hanno ancora compiuto il primo compleanno (che provengono dai nati nel 2016). Come si vede in Figura 1, si va da paesi, come l’Irlanda, in cui i nati vincono con un rapporto superiore a 3 a 1 sugli ottantenni, a paesi in cui vincono 2 a 1 (come Svezia e Regno Unito), fino al valore più basso dell’Italia. Poi, con le nascite del 2017, siamo scivolati ancor più giù, diventando il primo paese in Europa ad avere al suo interno più ottantenni che nuovi nati.
Siamo, insomma, il paese che più sta indebolendo le componenti (le nuove generazioni) che dovranno trainare la crescita e finanziare il sistema di welfare nei prossimi decenni, a fronte di un continuo aumento della popolazione nella fase della vita in cui si assorbe ricchezza (età anziana).
Detto in altro modo, se la qualità del futuro dipendesse più dal contributo degli ottantenni che dalle fasce più giovani, allora saremmo quelli che stanno mettendo le basi più solide per il benessere futuro. Se non è così allora forse la denatalità eccessiva ci sta inguaiando e dovremmo mettere urgentemente in atto serie e incisive contromisure attivando tutte le leve disponibili ¹.
Comunque questi sono i dati e ognuno tragga le proprie conclusioni.

ARTICOLO SU NEODEMOS

Battere la denatalità infelice

L’Italia sembra avere una particolare predisposizione – al di là dei nostri desideri e delle nostre potenzialità – a generare spirali negative, e quella demografica è la spirale perfetta nel vincolare verso il basso crescita e benessere futuro. Gli squilibri prodotti sono tali che per la prima volta i nuovi nati sono meno degli ottantenni. Al primo gennaio 2018 le persone di 80 anni residenti in Italia risultano essere 482 mila, mentre le nascite nel corso del 2017 sono state 458 mila. Siamo i primi in Europa a veder realizzato tale sorpasso. Tanto per avere un ordine di paragone, nel Regno Unito e in Svezia i nuovi nati vincono 2 a 1 sugli ottantenni. Questi squilibri non sono prodotti dal fatto di vivere più a lungo (abbiamo una longevità molto simile alla Svezia), ma dalla nostra maggior denatalità.

Il Paese che dimentica i giovani

C’è una crisi che precede la grande recessione, che la congiuntura negativa ha inasprito e che prosegue anche dopo, è quella che investe le nuove generazioni italiane. Una crisi che più che a fattori contingenti esterni va attribuita a persistenti limiti strutturali (e culturali) interni.

Un’alleanza per guidare la Nave Italia

Caro Direttore,
la nave Italia sta viaggiando nella direzione sbagliata. Trasformare la rabbia diffusa in odio può dare la sensazione di alleviare i problemi. Affermare che l’Italia può fregarsene delle compatibilità internazionali è un inganno che sarà pagato caro. Immaginare che la crescita si ottenga semplicemente aumentando il debito e alimentando i consumi è una illusione pericolosa.
Più presto il paese uscirà da questa fase onirica, meglio sarà. L’Italia ha bisogno, anzi l’opportunità, di cominciare a scrivere una pagina di storia nuova.
Ma per andare al di là di questa stagione triste è necessario avere una lettura diversa.
Sono tre le piste principali su cui lavorare.
Crescita economica e sviluppo sociale devono tornare a marciare insieme. Per navigare in mare aperto non possiamo più tollerare chi distrugge valore: sperperando denaro pubblico, distruggendo l’ambiente, sfruttando il lavoro, non pagando le tasse. Attorno a politiche nuove abbiamo al contrario bisogno di alleare tutti coloro che contribuiscono alla creazione del ben-essere e ben-vivere comune. Se vogliamo trasformare la rabbia in energia, la nostra convivenza e le nostre istituzioni vanno ricostruite su un nuovo scambio “contributivo e sostenibile” cosi da ridisegnare completa-mente i rapporti cittadino-stato e lavoro-impresa. Per mettere il passato alle spalle, la vera svolta è passare dalla irresponsabilità diffusa alla partecipazione costruttiva. Non dobbiamo aver paura di darci traguardi ambiziosi: aspirare ad una società dove ciascuno (incluso chi oggi é ai margini) sia messo in condizione di dare il proprio contributo per migliorare l’esistente, sentendosene responsabile
Il valore va prima di tutto creato e poi redistribuito, in una logica dinamica e virtuosa che attribuisca alla redistribuzione una funzione di investimento mirato sia alla riduzione delle diseguaglianze che alla produzione di nuovo valore e maggior benessere. In un paese che invecchia il rapporto tra tradizione e innovazione va ristabilito investendo nei giovani e nelle loro potenzialità, senza relegarli in panchina con politiche paternalistiche e assistenzialistiche. Solo ciò che migliora oggi la capacità di essere e fare delle nuove generazioni porta ad un futuro comune migliore. Non si esce dalla crisi semplicemente immaginando che l’economia sia una macchina da rendere efficiente. La sfida che abbiamo davanti è piuttosto quella di realizzare un modello di crescita sostenibile capace di farci fare un passo in avanti sul piano culturale e spirituale. E di raccordare meglio mezzi e fini, efficienza e inclusione, innovazione e umanizzazione, individuo e collettività realizzando una crescita di qualità, attributo che non è dei sistemi ma delle persone e delle comunità. Per questo non ci sarà nessuna nuova stagione senza mettere al centro la formazione, la scuola, il lavoro. Dove anche il welfare sia visto come investimento sociale, attivo e abilitante.
Lo scopo di questo intervento è quello di innescare processi e suscitare alleanze tra le tante forze positive che già operano nel paese. Forze, autonome dai partiti politici, dei mondi vitali dell’impegno sociale, educativo, civile, non che sono oggi disperse e che rischiano di finire sommerse dall’onda alta del populismo.
Non servono manifesti e cartelli politici, è venuto il momento di associare queste forze in uno sforzo comune. Serve un passo avanti per uscire dal “ricatto di breve termine”: tutto ci dice che i progetti umani con un orizzonte corto sono inefficaci e finiscono per essere dannose.
Invece che promesse mirabolanti o imperativi categorici, il paese a cui pensiamo lavora per unire visione e competenza, innovazione e inclusione, audacia e saggezza, sogno e concretezza.
Ricominciamo da qui. Insieme.

Mauro Magatti
Marco Bentivogli
Leonardo Becchetti
Alessandro Rosina

Insegnare come si naviga oltre la linea d’ombra

Quello che sta volgendo al termine in questi giorni non è stato un sinodo sui giovani, ma per loro e soprattutto con loro: perché i giovani c’erano e si son fatti sentire, con una presenza luminosa e rumorosa, attiva sui social e nei ‘circoli minori’ (i gruppi ristretti di discussione divisi per lingua), ma anche negli atri, sulle terrazze, dovunque ci si possa incontrare informalmente. Una presenza rispettosa, ma non intimidita dai titoli altisonanti dei padri sinodali (eminenze, eccellenze, beatitudini…): tutti insieme, in un cammino comune, non scontato, ciascuno portando il proprio contributo, a volte anche critico ma sempre costruttivo. Dopo il sinodo sulla famiglia, rispetto al quale è stata da tutti riconosciuta una continuità, la chiesa affronta un tema davvero cruciale, non solo per il suo futuro ma per quello dalla società intera. Perché la giovinezza è la stagione delle ‘scelte’ cruciali trasformative per la costruzione della vita adulta, quella dell’uscita dalla ‘linea d’ombra’.