Posts By: Alessandro Rosina

L’alleanza tra politica, pratiche e pensiero

La decisione su chi sarà il nuovo sindaco di Milano dipenderà più dal voto delle primarie che da quello di giugno. Sono molti i motivi per andare a votare domenica, qualsiasi sia il candidato preferito. Majorino ha fatto una campagna coraggiosa e appassionata, partendo da un’esperienza amministrativa solida e seguendo una vocazione propria, senza aspettare direttive o spinte dall’alto. Riempirlo di consensi sarebbe un segnale forte di una città che, più che i conti freddi, mette al centro le persone e premia l’autodeterminazione. Balzani raffigura la continuità con Pisapia, anche se non necessariamente con la sua amministrazione. Ha caratteristiche importanti dalla sua parte, come l’essere donna e competente. Chi pensa di votarla solo per evitare di consegnare la città al manager di Expo fa un torto alle sue alte qualità. Giuseppe Sala rappresenta la Milano pragmatica, quella di chi non si sente necessariamente né per Renzi né contro Renzi e che assegna un bilancio positivo, nella sostanza, all’Esposizione universale. Sala ha gli stessi difetti di Pisapia: non è donna e non è giovane. Ha però, come Pisapia, dalla sua parte assessori che tali caratteristiche le possiedono e che hanno anche saputo dimostrare sul campo il proprio valore.

Chi fa la guerra ai trentenni

Ignorati dalla politica

Iniziamo dall’ignoranza politica. Gran parte della classe dirigente italiana non sa cosa siano le nuove generazioni, un po’ per carenza di propri strumenti culturali e un po’ per disinteresse. Quello che conta per chi ha posizioni di potere e influenza in questo paese è aumentare (o quantomeno mantenere) quello che ha conquistato e fermare tutto ciò che può mettere in discussione quanto ha raggiunto. In un sistema rigido, poco aperto al cambiamento, con meccanismi di ricambio inceppati, il vantaggio va tutto alle componenti della società orientate a difendere le rendite del passato a discapito di chi vuole produrre nuovo benessere futuro. L’attenzione è semmai concentrata sui propri singoli figli. In un paese in cui l’ascensore sociale è bloccato, in cui il successo sociale dei giovani è più legato alle risorse dei genitori che al proprio impegno e alle proprie capacità, i “figli di” hanno un vantaggio competitivo rispetto agli altri. Perché allora politici interessati non al bene comune ma al proprio potere e al bene unico dei propri figli, dovrebbero realizzare misure che tolgono a tutti gli ostacoli dalla pista annullando le corsie preferenziali per i propri protetti? Questo non significa che scientemente la politica cerchi di mantenere lo status quo, ma è poco motivata a cambiarlo e ha poche spinte dalla società italiana per farlo. Arriviamo così al tema dell’iperprotezione da parte dei genitori, che non riguarda solo i politici.

Iperprotetti dai genitori

Esiste nel nostro Paese una grande disponibilità di aiuto da parte di madri e padri italiani, culturalmente predisposti a dare di tutto e di più ai propri figli in cambio del piacere di sentirsi parte attiva nella costruzione del futuro che immaginano per essi. Il rischio è però quello di scadere, appunto, nell’iperprotezione e nell’eccesso di protagonismo sul destino dei figli accentuando dipendenza e insicurezza. Al genitore medio italiano non importa davvero quali sono gli obiettivi dei figli e come incoraggiarli a realizzarli seguendo la propria strada, ha invece bene in mente cosa desidera lui per il proprio figlio e ha le sue idee su come farglielo ottenere. Allo stesso modo la classe dirigente italiana non ha ben chiaro quali siano le sensibilità specifiche e le vere potenzialità delle nuove generazioni, ha invece bene in mente cosa essa si aspetta dai giovani in funzione della propria idea (superata) di paese. Nessuno quindi fornisce incoraggiamento e supporto alle nuove generazioni italiane per mettere a frutto le proprie capacità e costruire un futuro coerente con le proprie sensibilità e i propri desideri. La conseguenza è che i giovani italiani rimangono ai margini o il futuro vanno a costruirselo altrove.

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I diritti sono solo retorica senza una cultura della “diversità”

Nel secolo scorso l’Europa ha imparato una grande lezione. A proprie spese ha verificato che è una follia pensare di formare una popolazione chiusa e “pura” in cui è sterilizzata la presenza dell’altro e sono eliminate le diversità. In questa settimana della memoria è bello e confortante vedere quanti eventi coinvolgenti e culturalmente densi Milano riesce ad organizzare e come alta sia la partecipazione civile. Tener vivo il ricordo però non basta è necessario costruire una “società diversa”. Una società non solo in grado di tollerare la diversità ma di considerarla un valore. Se il secolo passato è stato quello in cui abbiamo imparato a riconoscere i diritti degli altri, a vederli uguali a noi, in questo dovremmo invece imparare a riconoscere che il loro essere diversi da noi è una ricchezza. Diversità e diseguaglianze non devono essere più sinonimi. Ed è anzi vero che il maggior successo nella riduzione delle discriminazioni lo si ottiene quando si considera la diversità stessa un bene comune da valorizzare. Abbiamo bisogno di costruire una società in cui nessuno è autorizzato a sentirsi più uguale degli altri ma nella quale tutti si sentono ugualmente ingaggiati nel reciproco impegno del “comprendersi”, non solo per migliorare conoscenza e convivenza ma anche per contaminarsi con stimoli, idee, diversi punti di vista, e rafforzare così la propria capacità di stare e fare assieme nel mondo.

Riannodare demografia e sviluppo

L’Italia è un paese in affanno, prostrato dalla crisi, con troppi freni che ne imbrigliano le energie e ne comprimono la vitalità. Uno dei riscontri più evidenti di questa depressione economica e sociale è offerto dall’andamento delle nascite. A metà degli anni Sessanta nascevano un milione di bambini, oggi con fatica arriviamo a farne la metà. Dopo il record negativo di 503 mila nascite nel 2014, immigrati compresi, i dati non definitivi del 2015 sembrano ancora peggiori. Anche Milano evidenzia un andamento delle nascite che dopo un picco di oltre 12 mila e 500 raggiunto negli anni precedenti la crisi scende attorno alle 11 mila e 500. Quest’ultimo dato, a differenza della situazione nazionale, non è però un record negativo, risultando comunque di circa 2 mila unità superiore rispetto ai valori di metà anni Novanta. Questa differenza tra andamento nazionale e cittadino la si vede anche nella composizione per età della popolazione. Mentre nella popolazione italiana la consistenza demografica di chi ha meno di 5 anni è più bassa rispetto a qualsiasi altra fascia di età dai 70 in giù, viceversa, tra i residenti a Milano, il peso più ridotto corrisponde a chi ha oggi tra i 15 e i 20 anni.

Mettere a confronto le idee per il futuro

Poter ragionare e confrontarsi sulle idee per la città, questo è il motivo per cui Milano non ha voluto rinunciare alle primarie, nemmeno in cambio di un eventuale nome considerato “sicuro”. I politici vogliono soprattutto vincere, mentre l’obiettivo dei cittadini è essere ben governati. Non accontentiamoci, allora, di prendere quello che la politica è disposta a darci ma pretendiamo quello che pensiamo la nostra città abbia bisogno. Certo, le primarie si possono anche fare male e possono anche far male. Ma è proprio questa mentalità che affonda l’Italia, ovvero la malsana convinzione che se una cosa potenzialmente utile non funziona bene vada eliminata anziché impegnarsi a farla funzionare meglio. Viva quindi le primarie. Forse non diventeranno le primarie più belle d’Italia, ma quello che senz’altro è bello è che Milano non smetta mai di provare a dare il meglio.