Topic: giovani

Chi fa la guerra ai trentenni

Ignorati dalla politica

Iniziamo dall’ignoranza politica. Gran parte della classe dirigente italiana non sa cosa siano le nuove generazioni, un po’ per carenza di propri strumenti culturali e un po’ per disinteresse. Quello che conta per chi ha posizioni di potere e influenza in questo paese è aumentare (o quantomeno mantenere) quello che ha conquistato e fermare tutto ciò che può mettere in discussione quanto ha raggiunto. In un sistema rigido, poco aperto al cambiamento, con meccanismi di ricambio inceppati, il vantaggio va tutto alle componenti della società orientate a difendere le rendite del passato a discapito di chi vuole produrre nuovo benessere futuro. L’attenzione è semmai concentrata sui propri singoli figli. In un paese in cui l’ascensore sociale è bloccato, in cui il successo sociale dei giovani è più legato alle risorse dei genitori che al proprio impegno e alle proprie capacità, i “figli di” hanno un vantaggio competitivo rispetto agli altri. Perché allora politici interessati non al bene comune ma al proprio potere e al bene unico dei propri figli, dovrebbero realizzare misure che tolgono a tutti gli ostacoli dalla pista annullando le corsie preferenziali per i propri protetti? Questo non significa che scientemente la politica cerchi di mantenere lo status quo, ma è poco motivata a cambiarlo e ha poche spinte dalla società italiana per farlo. Arriviamo così al tema dell’iperprotezione da parte dei genitori, che non riguarda solo i politici.

Iperprotetti dai genitori

Esiste nel nostro Paese una grande disponibilità di aiuto da parte di madri e padri italiani, culturalmente predisposti a dare di tutto e di più ai propri figli in cambio del piacere di sentirsi parte attiva nella costruzione del futuro che immaginano per essi. Il rischio è però quello di scadere, appunto, nell’iperprotezione e nell’eccesso di protagonismo sul destino dei figli accentuando dipendenza e insicurezza. Al genitore medio italiano non importa davvero quali sono gli obiettivi dei figli e come incoraggiarli a realizzarli seguendo la propria strada, ha invece bene in mente cosa desidera lui per il proprio figlio e ha le sue idee su come farglielo ottenere. Allo stesso modo la classe dirigente italiana non ha ben chiaro quali siano le sensibilità specifiche e le vere potenzialità delle nuove generazioni, ha invece bene in mente cosa essa si aspetta dai giovani in funzione della propria idea (superata) di paese. Nessuno quindi fornisce incoraggiamento e supporto alle nuove generazioni italiane per mettere a frutto le proprie capacità e costruire un futuro coerente con le proprie sensibilità e i propri desideri. La conseguenza è che i giovani italiani rimangono ai margini o il futuro vanno a costruirselo altrove.

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Ripartire dai giovani per far rinascere il Sud

«Fino a qualche anno fa, tra i record negativi del Mezzogiorno non c’erano quelli demografici. Storicamente il Sud è stato una riserva demografica per il nostro paese». Così scrivevamo nei primi mesi del 2006 in un articolo su lavoce.info nel quale si mostrava – sulla base dei dati parziali del 2005 – come si stesse chiudendo la lunga epoca in cui l’Italia meridionale era stata una delle aree più feconde d’Europa. Erano le prime evidenze di una rivoluzione della geografia della demografia italiana del tutto imprevista. Basti pensare che le previsioni Istat del 2001 delineavano uno scenario in cui, si legge nel rapporto: il numero medio di figli per donna mantiene «livelli più elevati nelle Regioni tradizionalmente più prolifiche (Campania, Calabria e Sicilia), ai quali corrispondono età medie alla nascita ben al di sotto della media nazionale; per contro, nelle Regioni del Centro-Nord (…) le previsioni del tasso di fecondità totale sono più basse». Pochi anni dopo queste affermazioni la realtà risultava però già molto diversa. Il 2005 è l’anno in cui la secolare forbice tra Sud e Nord si chiude, mentre secondo le previsioni Istat in tale anno il numero di figli per donna avrebbe dovuto trovarsi attorno ad una media di 1,6 figli nel Sud e a 1,2 nel Nord.

Sulla fuga dei giovani stiamo sbagliando tutto

L’Italia è sempre più un Paese povero di nuove generazioni (e con nuove generazioni sempre più povere). Non solo per le conseguenze di oltre tre decenni di bassa natalità che hanno prodotto un enorme squilibrio in Italia tra over 60 e under 30, ma anche perché negli ultimi anni è fortemente cresciuto il numero di persone che se ne vanno altrove. E ad andarsene non sono gli over 60 ma soprattutto gli under 30. Nei paesi più avanzati la risorsa più preziosa per crescere sono proprio le nuove generazioni.
Le economie più competitive sono quelle che: a) investendo sulla formazione, aiutano i giovani a formare competenze in sintonia con il mondo che cambia; b) investendo sulle politiche attive, consentono di mettere in relazione positiva le competenze dei giovani con le necessità del mercato del lavoro; c) investendo su ricerca e sviluppo, consentono l’espansione della domanda di lavoro di qualità nei settori più dinamici e avanzati. Noi su tutti questi punti investiamo meno della media europea e non a caso ci troviamo con una delle percentuali di Neet (under 35 che non studiano e non lavoro) tra le più alte, ma anche con crescente saldo negativo tra talenti che se ne vanno e quelli che attraiamo da altri paesi.

La mobilità delle nuove generazioni non è un fenomeno che riguarda solo l’Italia e non è solo legato al momento storico di difficoltà che incontrano i giovani nel nostro paese. Rispetto alla capacità di comprenderlo e gestirlo nel modo migliore ci si scontra però nel nostro paese con quattro cruciali limiti (che verranno discussi nell’annuale meeting dedicato agli Expat, Meetalents 2015, www.meetalents.it).

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L’intraprendenza dei giovani oltre la retorica delle startup

Un esempio di quanto conosciamo poco le nuove generazioni arriva dall’ultimo Rapporto del Censis. L’Istituto di ricerca, che ogni anno fornisce quello che per gli intellettualmente pigri politici e giornalisti italiani è il principale ritratto del Paese, ha scoperto i “Millennials”. Sono, secondo tale Rapporto, “i giovani che non ti aspetti”: intraprendenti e innovatori. Peccato che ricerche ben più approfondite, ma meno mediatiche, le stesse cose le avessero già documentate da tempo. Il valore aggiunto del Rapporto Censis è quello di mettere assieme, rielaborando da varie fonti, tutto quello che può essere di interesse sulla situazione del paese corredata di una chiave di lettura. Il limite è una interpretazione poco coerente da un anno all’altro, che oscilla continuamente tra ottimismo e pessimismo, molto in linea con un paese che naviga a vista.

Le diseguaglianze che corrodono benessere e salute

La sfida del vivere a lungo e bene è una vittoria molto recente. Ancora un secolo e mezzo fa le condizioni di salute e i livelli di sopravvivenza a Milano non erano dissimili da quelli dei paesi oggi più arretrati del pianeta. Dobbiamo quindi essere molto soddisfatti di come viviamo oggi. I rischi di morte sono fortemente diminuiti a partire dalle età infantili. Nel secondo dopoguerra la mortalità è progressivamente scesa su valori bassissimi lungo tutta la fase adulta. Dagli anni Ottanta in poi i miglioramenti si sono concentrati in età anziana.