Topic: popolazione, risorse e sviluppo

Vivere a lungo, vivere bene: la sfida della longevità al welfare

All’epoca del primo censimento italiano, condotto nel 1861, la durata media di vita superava di poco i 30 anni. Elevatissima era la mortalità infantile, che arrivava a decurtare un nuovo nato su quattro entro il primo compleanno. Molto contenuto era il numero di persone che arrivavano in età anziana e chi vi giungeva si trovava generalmente in uno stato di salute molto precario. Queste condizioni sono state una costante della storia dell’umanità dal Neolitico fino a circa un secolo e mezzo fa.Poi, ad un certo punto, è iniziato un processo inedito e unico, la “Transizione demografica” che ha progressivamente allungato la durata di vita della nostra specie. Dopo la riduzione dei rischi di morte nelle età infantili e adulte, a partire dagli anni Settanta i guadagni di vita si sono sempre più concentrati in età anziana.

L’Italia, soprattutto nel secondo dopoguerra, è diventata uno dei Paesi che hanno fatto maggiori progressi in questa direzione. Fuori dall’Europa, solo il Giappone presenta una aspettativa di vita maggiore. All’Unione europea, solo la Spagna presenta valori superiori ai nostri sul lato sia maschile che femminile. La Svezia si trova invece su posizioni più favorevoli dal lato maschile e la Francia su quello femminile. Secondo il Demographic Report 2015 dell’Unione europea, la speranza di vita degli uomini, arrivata a superare gli 80 anni, si trova di oltre due anni sopra la media Ue28, mentre il corrispondente valore femminile, arrivato attorno agli 85, è superiore di oltre 1,5 rispetto al resto dell’Unione. Nel 2015 si è osservata una leggera flessione – dovuta ad un picco di mortalità in età anziana in corrispondenza dei mesi invernali ed estivi in tale anno – che segnala, come torneremo a dire più avanti, la necessità di una maggiore attenzione verso la crescita quantitativa della componente fragile prodotta dall’invecchiamento della popolazione.

Al di là di questo recentissimo dato, il percorso degli ultimi decenni è stato più favorevole rispetto alle previsioni. I valori italiani erano rispettivamente pari a 69,4 (maschi) e 75,8 (femmine) nel 1975: questo significa che ogni anno vissuto la vita si è allungata di circa ulteriori 3 mesi. Sempre nel 1975 a 65 anni vi arrivava il 71,6% dei maschi e raggiunta tale età l’aspettativa ulteriore di vita era di 13,1 anni. Ora vi arriva l’88,3% con una prospettiva di altri 18,8 anni (dato Istat del 2014). La probabilità di chi è arrivato a 65 anni di vivere altri 20 anni era del 19,4% (ovvero solo uno su cinque riusciva a passare indenne dai 65 agli 85 anni), mentre è oggi vicina al 50%.

Articolo scritto con Extra Moenia.

LEGGILO COMPLETO QUI

Lezione inglese sul voto dei giovani

Le conseguenze del referendum

Il 23 giugno 2016 il popolo britannico si è espresso a favore dell’abbandono dell’Unione Europea. Un risultato ottenuto con meno del 2 percento di scarto. Un margine ridotto, in termini elettorali, ma con conseguenze certamente storiche. Ovviamente, l’esito di un voto non è mai giusto o sbagliato in sé e la decisione va semplicemente accettata e rispettata. Ci sono, tuttavia, alcune questioni che questo referendum mette in evidenza rispetto alla spaccatura che si è determinata nel paese sulle dimensioni territoriale e generazionale, oltre che su quella sociale.

Un voto che spacca

Una delle divisioni più evidenti e più immediate è quella geografica: Scozia e Irlanda del Nord – più la città di Londra – si sono espresse a maggioranza per il “remain”, mentre Inghilterra e Galles per il “leave”. Il distacco della Gran Bretagna dall’Unione potrebbe quindi avere come conseguenza una divisione interna del paese. Scozia e Irlanda del Nord hanno espresso una propria volontà che però è stata annullata da una volontà opposta altrui. Assecondando le mai sopite spinte indipendentiste, potrebbero volersi mettere nella condizione di decidere da sole per il proprio futuro. Le affermazioni della premier scozzese vanno già in questa direzione.
Una seconda dimensione, ancor più delicata e complessa da maneggiare e interpretare, è quella generazionale. Da un lato, confermando una tendenza abbastanza consolidata, la partecipazione al voto è stata maggiore per le fasce più anziane (i dati provvisori danno un’affluenza sensibilmente minoritaria sotto i 25 anni, sopra il 50 per cento tra i 25-34, per poi salire via via sin oltre l’80 per cento per gli over 65). D’altro lato, l’orientamento di voto ha visto il prevalere del “leave” per le fasce più anziane della popolazione (over 50) e invece del “remain” per quelle più giovani.
Perché tutto ciò è particolarmente interessante? Perché qualunque siano le conseguenze del voto, chi dovrà subirle maggiormente sono proprio coloro che non avrebbero voluto lasciare l’Unione Europea. Come varie indagini e ricerche evidenziano, esiste un atteggiamento ambivalente delle nuove generazioni nei confronti dell’Europa. Da un lato, i giovani sono molto critici su come è stato sinora realizzato il progetto europeo, d’altro lato si identificano in valori comuni, riconoscono potenzialità e opportunità di mobilità. Secondo i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, riferiti a un approfondimento internazionale condotto a luglio 2015, quasi il 60 per cento degli inglesi tra i 18 e i 30 anni considera favorevolmente la possibilità di spostarsi liberamente per fare esperienze di studio e lavoro in altri paesi europei.
Insomma, il ritratto è quello di una generazione che più che veder smantellato il progetto europeo lo vorrebbe rilanciato e migliorato. Un’alta astensione, ma con prevalenza del “remain”, esprime coerentemente questa posizione: il desiderio di non uscire, ma dando anche un segnale di forte insoddisfazione e incertezza su questa Europa. Il “sì” non entusiasta dei giovani è stato però spazzato via dal “no” pieno e convinto delle generazioni più anziane.

Articolo scritto in collaborazione con Paolo Balduzzi

LEGGI ARTICOLO COMPLETO

Perché dobbiamo preoccuparci della crisi demografica

Per cinque milioni in più. O in meno

Stiamo forse uscendo dalla crisi economica, ma non da quella demografica. Al primo gennaio 2016 i residenti nel nostro paese risultano essere 60 milioni 665mila, con una perdita di 142mila abitanti rispetto a inizio 2015, secondo i dati del Bilancio demografico Istat.
Dopo una lunga fase di crescita, ora siamo ufficialmente in declino. Dobbiamo preoccuparcene? La risposta è sì, non tanto per il semplice fatto di essere in calo, ma per ciò che sta alla base della diminuzione e per le implicazioni che produce.
Modifichiamo allora la domanda: se anziché poco più di 60 milioni, fossimo 55 milioni oppure 65 milioni cosa cambierebbe? Le ultime due cifre non sono indicate a caso. Corrispondono alla popolazione che approssimativamente avremmo oggi in due diverse ipotesi: la prima se non si fossero verificate le immigrazioni consistenti dagli anni Ottanta in poi; la seconda se avessimo seguito un percorso di sostegno alle nascite simile alla Francia.
Cinque milioni in più o in meno di per sé non sembrano dirci molto sulla possibilità di vivere meglio o peggio in questo paese nei prossimi anni e decenni. In realtà dipende da dove si mettono o si tolgono questi abitanti. E allora è bene tener presente che nel declino sono soprattutto i giovani che perdiamo, come si può vedere in figura 1. In particolare, il divario delle curve tra l’Italia complessiva e quella senza stranieri, ci dice che l’immigrazione negli ultimi decenni non ha per nulla inciso sulla popolazione tardo adulta e anziana, ha invece contribuito a compensare, seppur solo in parte, la riduzione dei giovani e dei giovani-adulti italiani. Detto in altre parole, potremmo essere oggi 5 milioni in meno se non ci fosse stata l’immigrazione, con conseguenti maggiori squilibri nel rapporto tra generazioni a svantaggio della popolazione potenzialmente più attiva e produttiva.
Il divario delle curve tra Francia e Italia è invece utile per capire come la nostra maggiore denatalità abbia prodotto una erosione dal basso, rendendo via via sempre meno consistenti le nuove generazioni. I due paesi hanno, infatti, un numero non dissimile di residenti dai 40 anni in poi. La differenza diventa rilevante sui trentenni e si allarga in modo esorbitante nelle età ancora più giovani. Non aver fatto negli ultimi trent’anni il numero di figli realizzato dai francesi ci porta oggi ad avere oltre 5 milioni di abitanti in meno, ma con una perdita tutta concentrata, di nuovo, sulla popolazione potenzialmente più attiva e produttiva.

Come combattere il “degiovanimento”

Il declino demografico non è quindi solo una questione di calo della popolazione, ma ancor più di squilibri tra generazioni con le implicazioni sociali ed economiche che ne derivano. Il dato negativo del 2015 ci dice che il “degiovanimento” (riduzione dei giovani) è addirittura più forte dell’invecchiamento (aumento degli anziani): ovvero perdiamo più giovani di quanti anziani guadagniamo.

LEGGI L’ARTICOLO COMPLETO

Come rispondere al declino demografico

I dati pubblicati dall’Istat ufficializzano la conclusione di una lunga fase di crescita della popolazione italiana. Nei primi decenni del secondo dopoguerra siamo aumentati soprattutto perché facevamo molti figli, in grado di compensare persino l’alto numero di espatri. Tale effervescente fase demografica tocca l’apice a metà anni Sessanta e si esaurisce negli anni Settanta. Nel 1977 il numero medio di figli per donna scende sotto la soglia di due, per poi inabissarsi sotto uno e mezzo nel 1984. A partire dagli anni Ottanta il saldo migratorio da negativo inizia a virare verso valori positivi aprendo una nuova fase in cui la diminuzione della popolazione italiana viene più che compensata dagli ingressi dall’estero. Le previsioni Istat, con base 2011, mettevano comunque in conto che ad un certo punto l’immigrazione non sarebbe più bastata ad alimentare la crescita totale. Questo sarebbe però dovuto accadere molto più in là, attorno al 2040, non già nel 2015. Il motivo dell’anticipazione del declino è da attribuire all’impatto particolarmente severo della crisi economica in un paese con una demografia già da tempo in sofferenza. I fattori negativi si sono inaspriti e quelli positivi si sono raffreddati: le nascite sono crollate ai livelli più bassi di sempre, le iscrizioni all’anagrafe dall’estero si sono ridimensionate, le cancellazioni verso l’estero sono lievitate. Inoltre, anche la fecondità delle donne straniere è scesa sotto i due figli per donna.

Quello che però preoccupa non è tanto essere qualche migliaio in più o in meno. Ciò che dobbiamo guardare con attenzione ed affrontare, con maggiore e rinnovata capacità che in passato, sono gli squilibri generazionali, che interagiscono con quelli sociali e territoriali. La riduzione delle nascite sottrae popolazione dal basso: rende meno consistenti le generazioni più giovani mentre la popolazione anziana continua ad aumentare ed anzi accresce il suo peso relativo. Gli over 65 di cittadinanza italiana non hanno infatti subito alcuna riduzione nel corso del 2015 e continueranno ad aumentare nei prossimi decenni. Mentre i giovani sono già da tempo in progressivo declino, tanto da poterci fregiare oggi d’essere il paese in Europa con più bassa presenza di under 30.

Il declino demografico dell’Italia va quindi soprattutto letto nel rapporto tra generazioni. I giovani sono potenziali produttori di nuova ricchezza che fa crescere l’economia e va a sostenere le politiche sociali. Gli anziani tendono più ad assorbire risorse (per pensioni e spesa sanitaria) che a generane di nuove. Il declino demografico non ci dice solo che i secondi crescono più dei primi e nemmeno che i secondi crescono mentre i primi diminuiscono: ci avverte che abbiamo reso la diminuzione dei giovani ancor più accentuata della crescita degli anziani.

Come se ne esce? Non c’è un’unica soluzione, ma un complesso di azioni che dobbiamo mettere in campo urgentemente e tutte assieme: rinvigorire le nascite, ampliare la partecipazione alla forza lavoro, rendere una sfida positiva il vivere più a lungo, aumentare l’attrazione di qualità e l’integrazione degli immigrati. Sostenere e incoraggiare i percorsi professionali dei giovani e i progetti di formazione di una famiglia consentirebbe al paese di potenziare le sue capacità produttive e generative, limitando anche la fuoriuscita verso altri paesi. Migliorare le misure di conciliazione tra lavoro e famiglia permetterebbe a molte donne (ma anche uomini) di mettere in relazione positiva la scelta di avere un figlio e di essere attive nel mercato del lavoro. Una conciliazione che sempre di più, come conseguenza dell’invecchiamento, riguarda anche la cura degli anziani non autosufficienti. Cruciale è inoltre l’apporto dell’immigrazione, che non può essere quella gestita come emergenza e piegata allo sfruttamento, ma resa parte integrante di un comune modello sociale e di sviluppo. Infine, dobbiamo valorizzare molto di più le opportunità che il vivere più a lungo offre, in ogni campo. Non tanto obbligando le persone a lavorare più a lungo per decreto ma creando le condizioni per mantenersi economicamente e socialmente attivi per scelta e con successo.

Il declino demografico non si vince guardando solo alla quantità, ma promuovendo prima di tutto la qualità della vita delle persone, delle loro relazioni, dell’essere attive ad ogni età, del poter realizzare con successo i propri progetti sia lavorativi che familiari. Tutto questo ha però fortemente bisogno anche di una politica di qualità.

Spiegate ai giovani perché i migranti ci salveranno

Nei prossimi anni il nostro Paese, compresa gran parte d’Europa, si troverà con sempre più persone ritirate dal lavoro che assorbiranno risorse per pensioni e spesa sanitaria, da un lato, e sempre meno persone in età da lavoro, dall’altro. Un quadro che rischia di diventare insostenibile, impoverendo la capacità di produrre crescita e dare solidità al sistema sociale. È possibile rispondere a questi cambiamenti in modo positivo? Sì, a tre condizioni. La prima è favorire una ripresa delle nascite. La seconda è mobilitare nel sistema produttivo le risorse finora sottoutilizzate, in particolare giovani e donne. Il terzo è rinvigorire la popolazione con l’immigrazione, rafforzando le carenze di manodopera in vari settori e rendendo più sostenibile il rapporto tra lavoratori e inattivi.

Chi dice di non volere l’immigrazione dà quindi per scontato il declino dell’Italia. Chi è accogliente accetta invece una sfida delicata e complessa, rispetto alla quale nessun paese ha saputo sinora proporre una soluzione convincente. Se lo scenario di chiusura è impossibile (a meno di togliere l’Italia dal centro del Mediterraneo e spostarla su Marte) è però anche vero che lo scenario di flussi di entrata mal gestiti e di permanenza mal integrata è il peggiore possibile, perché non migliora la crescita e va a inasprire le diseguaglianze.

L’immigrazione è quindi una sfida inevitabile che dobbiamo imporci di vincere. Ma non può essere vinta se prima non viene capita e colta, dalla classe dirigente e dai cittadini comuni, in tutta la sua rilevanza sul nostro futuro. Richiede una soluzione sia strutturale che culturale, mentre oggi prevale lo smarrimento politico e il disorientamento sociale, come ha ben evidenziato il Cardinale Scola nei suoi recenti interventi.

I dati recenti di un approfondimento del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, indicano che il 28% dei giovani tra i 18 e i 32 anni vorrebbe il rimpatrio di chiunque arriva, siano essi profughi o persone in cerca di lavoro. La grande maggioranza è invece favorevole all’accoglienza, ma non incondizionata. L’atteggiamento di fondo appare confuso e ambivalente. Da un lato, i ragazzi italiani, come evidenziano varie ricerche, tendono a non considerare straniero il compagno di banco con genitori di nazionalità diversa e colore della pelle diverso. D’altro lato, dai media vengono bombardati con notizie di sbarchi continui, di episodi di violenza e condizioni di sfruttamento. Ragioni e valori dell’accoglienza fanno così sempre più fatica a contrastare la crescita dei timori di una presenza straniera subita e non ben integrata.

Tutto questo in un contesto di crisi economica, di welfare in sofferenza, di risorse familiari in riduzione, di bassa fiducia nelle istituzioni e di alta disoccupazione giovanile. Non stupisce quindi che i giovani italiani siano quelli più indotti, rispetto ai coetanei degli altri grandi paesi europei, a pensare che chi arriva dall’estero più che aiutarci ad allargare la torta comune ci possa costringere ad una riduzione delle fette pro capite. Gli under 30 intervistati che concordano con l’affermazione che gli immigrati peggiorano le condizioni del paese in cui vanno a vivere sono oltre il 60% in Italia e Francia. Va però tenuto presente che la Francia ha subito attentati drammatici di matrice islamica e che ha una presenza straniera maggiore della nostra. Valori più bassi, poco sopra al 40%, si registrano invece in Germania, paese nel quale risulta più larga la consapevolezza che l’immigrazione sia parte integrante del processo di crescita del paese.

Questi dati devono far riflettere perché ci dicono che rischiamo di far chiudere in difesa una generazione potenzialmente aperta al confronto positivo tra mondi e culture. Conforta, in ogni caso, il fatto che si ottengono valori meno negativi nei contesti in cui l’integrazione funziona e tra chi è più informato sul fenomeno. La maggioranza di chi dice che gli immigrati sono troppi non sa infatti dire esattamente quanti siano, tende ad enfatizzare la componente irregolare e la voce dei costi sul welfare rispetto alla ricchezza economica prodotta.

La strada è quindi quella del miglioramento degli strumenti conoscitivi rivolti ai cittadini oltre che di una responsabilità più solida della politica nella guida al cambiamento. Iniziative come Open migration, siti di informazione come Neodemos, eventi pubblici di confronto positivo tra culture, misure di successo nelle periferie come Quarto Oggiaro a Milano, mostrano che la diffidenza si può superare e che la diversità può diventare ricchezza culturale ed economica. Lasciare che una larga parte dei giovani scivoli invece dalla diffidenza all’ostilità è l’errore più grande che oggi possiamo fare, del quale possono beneficiare solo le forze politiche che speculano sulle paure e che sanno solo alzare muri.

Se l’immigrazione è una di quelle sfide a cui non possiamo sottrarci è anche vero che senza un ruolo positivo delle nuove generazioni difficilmente possiamo pensare di vincerla.