Topic: popolazione, risorse e sviluppo

Lo squilibrio di genere

Milano, via vai frenetico nell’orario di punta di un giorno lavorativo. Una donna di trent’anni cerca di salire con fatica le scale della metropolitana spingendo un passeggino con a bordo un bambino. La maggior parte delle persone non la vede o la considera solo un ostacolo da superare in fretta nel tragitto verso il lavoro. Un uomo di cinquant’anni la nota e passandole a fianco le chiede se ha bisogno di aiuto. Ottiene come risposta un timido sorriso seguito da una frase quasi sussurrata: “No, grazie, non si preoccupi, faccio da sola”. Roma, autobus affollato in un tardo pomeriggio di maggio. Sale una donna di quarant’anni incinta. I passeggeri sono tutti un po’ stanchi e distratti, ma accade che miracolosamente un ventenne alzi lo sguardo dal cellulare, la veda e si offra di alzarsi.  La risposta che ottiene è “Ah grazie. Ma non si preoccupi, tanto, guardi, sono poche fermate”.

Riposte come queste fanno capire quanto toste siano le donne italiane, ma non ci aiutano a cambiare. Non aiutano a cambiare la società italiana e soprattutto non aiutano gli uomini a pensarsi, per il loro bene, in modo diverso.

Dagli anni Settanta ad oggi il ruolo delle donna si è profondamente trasformato. Fino ai primi decenni del secondo dopoguerra la subordinazione al marito era scontata e la possibilità di valorizzazione vincolata alla rete familiare. Oggi tutto questo non vale più. Non perché la realizzazione nel mondo del lavoro si è sostituita a quella come sposa e madre, ma perché entrambe le opzioni possono essere colte assieme. Questo cambiamento si è però realizzato in modo incompleto nella vita femminile e non ha quasi per nulla toccato l’ordine maschile. La conseguenza è una situazione di stallo, perché il percorso delle donne può continuare solo se parallelamente e in modo interdipendente si mette in moto anche quello degli uomini. Questo stallo deriva anche da una impostazione sbagliata, che ha alla base il presupposto che gli uomini debbano fare un piccolo passo indietro perché le donne possano fare un balzo in avanti. In realtà, tutto verrebbe spostato in avanti, ma con priorità e preferenze diverse dal passato.

Finora la parte attiva di questo cambiamento sono state le donne: loro a cercare di uscire da uno spazio vincolato per ottenere di più; loro a chiedere più misure di conciliazione come servizi pubblici e come welfare aziendale; loro ad aggiungere al carico domestico anche quello extra-domestico. La reazione sul lato maschile, come rivelano i dati Istat, riguarda quasi esclusivamente il maggior impegno lavorativo compensativo quando la moglie con l’arrivo di un figlio lascia l’attività o passa al part-time. Anziché cambiare equilibri vengono così accentuati vecchi squilibri. La conseguenza è lo spostamento delle coppie verso una tattica difensiva che comporta scelte al ribasso o rinunce: per le donne retrocedere rispetto alla realizzazione in entrambi i campi; per i padri perdere la possibilità di un pieno e coinvolgente legame con i figli fin dalla nascita; per i figli poter crescere nelle migliori condizioni di benessere economico e relazionale.

Per spostare, quindi, su un equilibrio più alto le opportunità combinate nelle vite di donne e uomini servono, certo, maggiori servizi di conciliazione, ma ancor più una rivoluzione culturale nella sfera maschile. Una rivoluzione che non si potrà mai realizzare se intesa solo come riequilibrio di genere in funzione di ciò che oggi manca alle donne. Deve essere, prima di tutto, un cambiamento che ha alla base cosa manca agli uomini. Che consenta anche ad essi di ampliare la sfera delle scelte di realizzazione, intese in relazione positiva, non in contrapposizione, con l’ambito professionale.

Non è una operazione semplice perché significa dover sviluppare sensibilità e codici di cura che non siano una imitazione di quelli femminili ma siano propriamente maschili e si possano inserire coerentemente nel modello familiare mediterraneo.

Segnali di sperimentazione di nuova paternità si intravedono, soprattutto nelle giovani coppie. Ma servirebbe una spinta più forte, non perché pretesa dalle donne ma perché auspicata dal genere maschile. Potremmo dire di essere a buon punto sulla strada giusta quando gli uomini non chiederanno più ad una donna incinta se vuole sedersi al loro posto ma si alzeranno e basta; quando il datore di lavoro darà per scontato il congedo di paternità, sapendo che un padre responsabile e soddisfatto migliora poi la sua produttività nell’azienda; quando il capo del Governo penserà che la delega alle pari opportunità possa anche essere assegnata ad un uomo e magari il ministero dell’economia ad una donna.

Le sei “p” del nuovo welfare

C’è stata una fase nella storia di questo paese in cui tra crescita economica, welfare e demografia si è innescato un circuito virtuoso che ha portato al rialzo le condizioni di benessere materiale e di fiducia sociale. E’ stato il periodo che ha visto protagonista la generazione entrata in età adulta nel periodo della ricostruzione e nel corso del quale si è socializzata la generazione dei baby boomers.

Quel modello sociale e di sviluppo oggi non esiste più e uno dei motivi per cui economia e demografia inciampano l’una sull’altra, anziché spingersi a vicenda, va attribuito ad un welfare allo stesso tempo inadeguato e superato.

Quel sistema di protezione sociale era basato quasi esclusivamente sull’azione pubblica, con un approccio prevalentemente assistenzialistico e risarcitorio. Se oggi non funziona più, sia nel difendere da vecchi rischi che nel prevenire i nuovi, non è solo per i costi diventati insostenibili, ma ancor più per il fatto che le rigide risposte fornite dall’alto sono sempre meno in grado di dare una risposta completa ed efficace, in sintonia con l’evoluzione della domanda dal basso.

A questa inefficienza si è risposto, nel nostro paese, più tagliando  la spesa pubblica che innovando l’azione sociale. Ma i bisogni non sono certo diminuiti. Le trasformazioni demografiche, sociali e del mercato del lavoro hanno fatto emergere nuovi rischi. L’inadeguatezza delle risposte a questi cambiamenti ha portato sia ad un aumento delle disuguaglianze che a una riduzione del benessere complessivo della popolazione. Situazione aggravata dalla crisi che ha fatto crescere la vulnerabilità del ceto medio e frenato le scelte virtuose delle famiglie.

Più che tagliare è quindi necessario aprire una nuova stagione di politiche sociali in grado di rinnovare e rilanciare, sostenendo, da un lato, le persone nei percorsi che alimentano il benessere personale e familiare, ma anche continuando, d’altro lato, a proteggere dal rischio di scivolare in spirali di progressivo impoverimento. In questi ultimi casi, come mostrano molti studi, se non si interviene per tempo si genera uno “svantaggio corrosivo” che va ad intaccare profondamente la capacità di reagire e risollevarsi.

Abbiamo quindi bisogno urgentemente di un nuovo welfare che metta al centro la persona, non prendendosi in carico passivamente dei bisogni ma supportandone sviluppo umano e inclusione sociale. I risultati migliori li ottengono, del resto, le politiche sociali che considerano i cittadini come persone responsabili e attive, in grado non solo di porre domande ma anche di contribuire a fornire risposte.

In sintesi, il nuovo welfare andrebbe incardinato su sei “p”. Tre riferite agli obiettivi da affidargli: proteggere chi sta peggio, prevenire dai rischi di peggioramento, ma anche promuovere lo star meglio. E tre “p” corrispondenti agli attori da mettere assieme in campo: oltre al pubblico, anche il privato sociale e la partecipazione dei cittadini. L’insieme di tutti questi fattori sta alla base di un welfare comunitario che stimola l’innovazione sociale sul territorio puntando a favorire coesione e capacità generativa delle comunità locali, a consolidare i legami di fiducia, a dar sostegno alla propensione alla condivisione e alla corresponsabilità verso il bene comune.

Nel suo recente Rapporto annuale l’Istat ritrae le nuove generazioni, quelle nate dagli anni Ottanta in poi, come vittime di un vecchio sistema di welfare che non funziona più. Dobbiamo invece sempre più pensare ad esse, per sensibilità e competenze, come principali protagoniste di un nuovo sistema sociale più in linea con le trasformazioni in corso e con le sfide dei tempi nuovi. Un welfare che metta assieme sia innovazione che inclusione, nel quale i cittadini siano allo stesso tempo destinatari e produttori di nuovo benessere. Parte centrale di un modello sociale e di sviluppo in cui nessuno, a partire dal pubblico, si deresponsabilizza, e che anzi incentiva tutti a fare un passo avanti, verso un futuro comune e condiviso

Far di più a Milano anche sulla natalità

C’è un messaggio comune che arriva ai candidati sindaco dalle varie occasioni di confronto con i cittadini: la richiesta di una Milano in cui sia possibile fare di più e vivere meglio rispetto al passato e al resto del paese. Il desiderio è quello di sentirsi a tutti gli effetti parte di una città in grado di misurarsi con il futuro e con il resto del mondo. Su molti indicatori Milano sta sopra la media europea, ma ha le potenzialità per ambire, come tutti riconoscono, a raggiugere posizioni più elevate. Anche sull’occupazione femminile, nonostante la crisi, i dati rimangono incoraggianti staccandosi nettamente dalla disastrosa media nazionale. C’è però un tema rispetto al quale Milano fatica a distinguersi dal resto del paese. E’ quello della natalità.

Riecco il bonus bebè, un’arma spuntata per la natalità

Perché pochi figli?

Riecco il bonus bebè. Qualche giorno fa il ministro Beatrice Lorenzin ha proposto una sostanziale modifica degli importi erogati attraverso la misura, con l’obiettivo dichiarato di evitare il crac demografico.
Lo spostamento dell’agenda in tema di politiche sociali dall’ennesima discussione sulle pensioni a temi più alla radice dei problemi del paese non può che essere valutato positivamente. Tuttavia viene il dubbio che – ancora una volta – si usi uno strumento poco appropriato all’obiettivo dichiarato. In altre parole, il bonus bebè, sia come misura in sé sia per come è stato disegnato in Italia, appare più adatto a contenere l’alto rischio di povertà minorile che a influire in modo significativo sugli anemici tassi di natalità degli ultimi decenni.
Il primo passo per realizzare politiche che aiutino a risollevare la natalità è capire perché in Italia si fanno pochi figli.
La risposta non sta in un maggior egoismo o nichilismo dei cittadini italiani rispetto a francesi e americani. Se noi facciamo in media un figlio e un terzo e loro due non è perché noi ne desideriamo di meno, ma perché riusciamo di meno a mettere i giovani e le coppie italiane nelle condizioni di realizzare in pieno i propri obiettivi riproduttivi.
E allora diventa più utile chiedersi: perché gli italiani non fanno tutti i figli che vorrebbero fare?
Uno dei motivi principali è la condizione di difficoltà e di adattamento al ribasso che blocca non solo le ambizioni lavorative, ma ancor più i progetti di vita futuri dei giovani-adulti. I dati dell’indagine “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo mostrano come nei confronti del lavoro sia aumentata la preoccupazione del reddito adeguato, tanto da far mettere in secondo piano l’autorealizzazione.
La situazione di incertezza li porta a posticipare le tappe di entrata nella vita adulta. Subentrano poi le difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia. Di rinvio in rinvio, alla fine ci si trova a non aver avuto il numero di figli desiderato. Secondo i dati Istat, le donne rimaste del tutto senza figli sono salite dall’11 per cento nella generazione del 1950 (che ha concluso la sua storia riproduttiva alla fine del secolo scorso) al 21 per cento della generazione del 1970 (le nuove over 45).

A cosa serve il bonus?

Per come è disegnato, il bonus bebè è una misura di sostegno al reddito per coppie la cui situazione economica è poco florida. Si tratta in sostanza di un trasferimento monetario non condizionato alle famiglie a basso reddito. Il finanziamento non è vincolato a null’altro che alla prova di mezzi e la misura si estende solamente ai figli fino ai tre anni di età. Di fatto, la descrizione corrisponde a una politica di contrasto alla povertà tra le famiglie con figli sotto i quattro anni, cui tuttavia mancano misure di disegno e inclusione attiva e forme di controllo su come gli importi trasferiti vengano utilizzati. Intendiamoci, dati gli elevati livelli di povertà tra minori si tratta comunque di una misura positiva, ma è ben lungi dall’essere efficace per stimolare i tassi di natalità.

Come alzare davvero i tassi di fecondità

Se è comunque un bene mettere al centro del dibattito pubblico il sostegno alle famiglie, è ancor più importante predisporre misure efficaci in grado di restituire la fiducia di vivere in un paese che funziona e che incoraggia a fare scelte di impegno positivo verso il futuro.
Il bonus bebè non offre alle nuove generazioni le sicurezze di cui hanno bisogno prima di “avventurarsi” nella genitorialità. C’è una lunga serie di misure che lo stato può implementare e che sarebbero più appropriate per favorire la scelta di avere un figlio. Ne elenchiamo alcune (per una riflessione più ampia su approccio e misure si veda “Generare futuro”).

  1. Innanzitutto bisogna favorire l’accesso alla casa e al lavoro (stabile). Il Jobs act sembra essere un buon passo in questa direzione. Ma per l’occupazione giovanile e femminile bisogna fare di più. In questo senso la “Garanzia giovani” è lontana dall’essere una politica di successo.
  2. È poi necessario migliorare la possibilità di rimanere nel mercato del lavoro per le coppie con figli. Questo vuol dire servizi di accudimento a costi accessibili fino ai tre anni, ma anche attività rivolte ai bambini più grandi (fino almeno ai 14 anni) negli orari e periodi dell’anno in cui le scuole sono chiuse. Su questo punto negli ultimi anni si sono registrati forti tagli da parte dei comuni. E che fine hanno fatto i mille asili in mille giorni promessi dal presidente del Consiglio e dal ministro Graziano Delrio? Su passodopopasso.italia.it non se ne trova traccia.
  3. Bisogna incentivare i padri a fare la loro parte. Sono molte le ricerche che mostrano che si fanno più figli quando i padri sono più partecipi alla vita familiare. Due giorni di paternità obbligatoria sono solo simbolici, serve di più.
  4. Bisogna, infine, dare più stabilità alle politiche – anche a quelle di trasferimenti economici. Le misure episodiche, con finanziamenti insufficienti e limitati nel tempo possono essere un ottimo strumento di acquisizione del consenso elettorale, ma sono cattive politiche. Gli italiani sanno bene che i governi passano, mentre i figli rimangono.

Perché il bonus bebè non è un incentivo

Magari bastassero le buone intenzioni per risollevare la cronica denatalità italiana. Per riuscirci serve molto di più, a partire da una potenziata capacità di lettura della realtà in mutamento, passando per una maggiore disponibilità a mettere in discussione quello che in passato non ha funzionato, per arrivare ad una più ampia visione e condivisione dell’azione politica.