Topic: ulteriori temi demografici

Più che lo ius soli conta lo ius culturae

Sul cosiddetto “ius soli” c’è molta confusione e strumentalizzazione, la prima creata soprattutto dai mass media, la seconda dalla politica. Per fare un po’ di chiarezza può essere utile partire dai dati. La popolazione residente italiana è composta da oltre 60 milioni di abitanti. Oltre 5 milioni di loro sono stranieri, anche se fanno strutturalmente parte, appunto, di quella che viene formalmente definita come “popolazione residente italiana”.

Dove il domani ricomincia. La via è «occuparsi con» i giovani

L’Italia sta erodendo il proprio futuro dalle basi, a causa degli squilibri demografici prodotti dalla persistente bassa natalità. Ma la bassa propensione ad avere figli è essa stessa il sintomo dell’offuscamento del nostro sguardo positivo verso il futuro. Da un lato, con sempre meno giovani, il Paese perde energia, slancio, vitalità, capacità di produrre benessere, rallenta la crescita e vede aumentare i costi previdenziali e sanitari di una popolazione sempre più anziana. Dall’altro i giovani stessi, pur partendo da desideri e obiettivi di vita simili ai coetanei europei, anziché essere ancor più incoraggiati a realizzarli si trovano a tenerli in sospeso e, via via con l’età, progressivamente a rinunciarvi. I dati dello “Studio Nazionale Fertilità” del Ministero della Salute mostrano che quasi l’80 per cento dei giovani italiani immagina un proprio futuro con figli e che le intenzioni riproduttive vengano poi riviste al ribasso in età adulta.

 

Questo “schiacciamento in difesa” da parte delle nuove generazioni ha alla base due fattori principali. Il primo è la difficoltà a credere fino in fondo ai propri desideri, trasformandoli in solidi progetti di vita e impegnandosi a realizzarli in pieno nonostante le difficoltà. Per gran parte della storia dell’umanità i figli sono stati il frutto naturale della vita, non erano una scelta. Ora, invece, diventare genitori è soprattutto una decisione che richiede consapevolezza e responsabilità, ma anche fiducia.

Quello che manca oggi nel nostro Paese, più che in passato e più che in altri Paesi, è favorire le condizioni perché tale scelta possa compiersi con successo. Qui sta il secondo fattore. In un mondo complesso e in rapido cambiamento aumenta l’incertezza rispetto al proprio futuro. Tale incertezza tende a trasformarsi in insicurezza che paralizza le scelte se manca una educazione solida (non solo sulla “salute riproduttiva”) che aiuti a dar senso al proprio agire, e in carenza di politiche pubbliche in grado di sostenere, oggettivamente e simbolicamente, la capacità di essere, fare e generare valore delle nuove generazioni.

Nel processo di transizione alla vita adulta tutte le tappe, dall’uscita dalla casa dei genitori alla formazione di una unione di coppia, passando per il lavoro, sono diventate reversibili, tranne la punta più avanzata di tale percorso che è l’arrivo di un figlio. Come mostrano i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo le nuove generazioni desiderano far crescere i figli in un contesto di sicurezza, con la possibilità di fornire a essi adeguate cure e benessere. Ma se le aspirazioni sono cresciute, le prospettive sono diminuite. Le statistiche dell’Istat evidenziano come negli ultimi anni ad aumentare sia stata soprattutto la povertà delle famiglie con figli e persona di riferimento under 35. La situazione di precarietà e insicurezza porta allora, come suggerisce anche lo Studio ministeriale, a posticipare tutte le tappe dell’entrata nella vita adulta e a rendere i giovani ipercauti rispetto, appunto, a scelte irreversibili come quella di diventare genitori.

La possibilità effettiva di realizzare tale scelta va quindi considerato come l’indicatore principale della capacità di una comunità di mettere le nuove generazioni nelle condizioni di andar oltre le difficoltà del presente e assumere oggi decisioni che impegnano positivamente verso il domani. I dati che abbiamo a disposizione mostrano come su questo cruciale terreno l’Italia stia perdendo la sua più importante battaglia per costruire un futuro più solido. Ripartire dai desideri delle nuove generazioni è ancora possibile, ma solo se la politica passa dal “preoccuparsi dei” giovani a “occuparsi con” i giovani di come dare un destino diverso a questo Paese.

Una vera politica nuova nell’«ora grave» del Paese

Caro direttore,

l’occorrenza del centenario dell’Appello ai Liberi e Forti ispirato dal pensiero e dalla visione di don Sturzo ha sollecitato vari eventi e interventi sia di analisi del messaggio nel contesto storico dell’epoca sia di riflessione sulle possibili indicazioni da trarre per il momento attuale. Queste riflessioni possono risultare una forzatura se strumentali alla legittimazione di operazioni di parte nello scenario politico di oggi, sono invece utili quando contribuiscono al confronto costruttivo sull’impegno dei cattolici italiani a servizio del bene comune. Il valore di questo dibattito può essere misurato nella capacità di svilupparsi anche oltre la data del centenario e dai frutti che potrà produrre oltre le singole scadenze elettorali.

Ci sono almeno tre motivi per ritenere attuale l’appello. Il primo è quello del linguaggio, dello stile comunicativo: molto snello, diretto, incisivo, appassionante. C’è la scelta di non parlare alla pancia, ma di rivolgersi contemporaneamente alla testa e al cuore.

Il secondo riguarda i contenuti. C’è l’apertura al nuovo e l’invito a guardare oltre i confini del presente. C’è la spinta a una modernizzazione culturale ed economica in coerenza con le specificità del Paese, con particolare attenzione al territorio e allo sviluppo della cooperazione. Ci si rivolge a tutti, non solo ai cattolici, pur partendo dall’ispirazione dei princìpi universali del cristianesimo. C’è la convinzione di un futuro migliore nell’ambito della Società delle nazioni, che si prenda carico degli ideali di giustizia sociale e delle condizioni di lavoro. C’è la preoccupazione verso i più deboli, ai quali offrire vere soluzioni contrastando, con approccio autenticamente popolare, la seduzione corrosiva delle correnti disgregatrici. C’è, infine, la chiamata all’impegno per gli interessi «superiori della Patria senza pregiudizi né preconcetti».

Il terzo motivo è il riconoscimento dell’importanza di un ruolo attivo dei cattolici nella vita politica del Paese, non in quanto tali, ma come portatori di un atteggiamento positivo e propositivo, di un approccio orientato al mettersi a servizio, di valori coesivi. Non quindi una chiamata a formare un partito dei cattolici, ma, appunto, un appello a tutti i liberi e forti che si riconoscono negli ideali di giustizia e libertà. Liberi perché non asserviti a interessi di parte e quindi volontariamente spendibili per il bene comune. Forti perché in grado di mettere energie e intelligenze a disposizione degli interessi superiori del Paese.

L’attualità è anche riconducile al fatto che, pur in modo molto diverso, l’Italia vive una «grave ora» e rischia di perdersi. È triste riconoscerlo, ma siamo un Paese allo sbando. Dal punto di vista degli squilibri demografici siamo come di fronte alle conseguenze di una grande guerra, che però ci siamo autoinflitti: i ventenni sono oltre un terzo in meno rispetto ai cinquantenni. Oltre il livello di guardia è il debito pubblico; per troppi manca un lavoro dignitoso; aumentano le diseguaglianze; basse sono la produttività e la competitività internazionale; nonostante le potenzialità il Paese non riesce a tornare a crescere in modo solido. Forte è l’incertezza verso il futuro e crescente il senso di sfiducia. Il clima sociale è cupo, pieno di rancore, paura e rassegnazione. Prevale un’offerta politica che si rivolge soprattutto alla ‘pancia’ del Paese, che identifica nemici, che porta a vedere chi è diverso come ostile, che fonda il consenso sulla chiusura e la divisione.

Avremmo quindi anche oggi bisogno di una chiamata che abbia la capacità, come l’Appello ai liberi e forti, di rivolgersi allo stesso tempo al ‘cuore’ e alla ‘testa’ degli italiani. Ovvero in grado di mettere assieme ‘valori’ e ‘competenze’, due ingredienti entrambi diventati scarsi all’interno di una dieta politica italiana diventata sempre più povera e indigesta. Non è però da vecchi partiti e da una riedizione di operazioni del passato che si può trovare la soluzione, né si può sperare nell’emergere di un leader carismatico. Serve un modo nuovo di intendere l’impegno politico, con la capacità di creare un protagonismo diffuso a partire dalle realtà sociali più dinamiche e positive nel territorio del Paese, all’interno delle quali il mondo cattolico è spesso tra le componenti più vitali.

Senza politiche sulla famiglia ci areniamo

Dato che su queste pagine per anni, nella rubrica “La città che cambia”, ho raccontato una Milano che meglio del resto del Paese stava affrontando la crisi economica e che metteva in atto processi di innovazione inclusiva, posso ora permettermi di sollevare qualche critica. Stiamo gigioneggiando un po’ troppo: il vantarsi di essere diversi dal resto d’Italia sta diventando un po’ stucchevole e anche pericoloso. Da un lato il clima di aspettative crescenti incentiva il fare, sperimentare, partecipare ad un processo in cui la torta collettivamente si allarga (non schiacciati in difesa della propria fetta limitata). D’altro lato, si può rischiare di fare la fine della rana della favola di Esopo, che pur di mostrare di crescere si gonfia oltre misura.

Un segnale che fa riflettere è l’aumento di popolazione a fronte di una riduzione delle nascite. Ma Milano può essere meglio del resto del Paese se attrae senza far fiorire i progetti di vita? Può costruire un futuro migliore solo crescendo dall’alto? Può aprirsi al mondo senza essere luogo in cui venire al mondo? Durante la recessione la fecondità ha tenuto meglio rispetto al dato nazionale, ma preoccupa ora la mancanza di ripresa superata la burrasca. Interessante il confronto con Berlino, che presenta nascite in aumento. Berlino oggi è attraente per le condizioni economiche, ma anche per l’attenzione specifica ai servizi per le famiglie. Una coppia che decide di avere un figlio in tale complessa realtà, soprattutto se non ha una rete parentale di supporto, sa di poter trovare tutte le informazioni necessarie sul portale dedicato e accedere a una rete ampia di servizi (anche con soluzioni ad hoc) continuamente monitorati e migliorati. Se non ci si prende cura dei progetti di vita qualsiasi crescita rischia di essere una bolla che prima o poi implode.

Crescita, l’Italia dimentica la demografia

Italia sta andando da tempo nella direzione sbagliata e l’ultima manovra varata, purtroppo, risulta tutt’altro che un cambio di direzione.

Per capirlo basta far riferimento a un indicatore demografico con forti implicazioni economiche e sociali, guardato con molta attenzione nelle società moderne avanzate. Si tratta del rapporto tra chi ha 65 anni e oltre sulla popolazione in età attiva (tasso di dipendenza degli anziani). Non sappiamo come saranno la società e l’economia italiana nel 2030 o nel 2050, ma siamo in grado con buona precisione di anticipare come sarà la struttura per età della popolazione. Da questo punto di vista il futuro italiano risulta essere uno dei meno rassicuranti della vecchia Europa. La demografia non è di per sé una condanna se si fanno per tempo le scelte giuste, noi però continuiamo a non farle, aggravando ulteriormente le condizioni e le prospettive del Paese.

Sono cinque le leve su cui dovremmo sinergicamente agire nel presente per risollevare il nostro futuro. Una è l’immigrazione, ma il governo ha fatto abbastanza esplicitamente capire di non volerla prendere in considerazione.

La seconda è la natalità, che in Italia ha toccato livelli particolarmente bassi ed è in continua caduta. Nonostante tanta retorica, l’ultima Legge di bilancio offre ben poche speranze di un’inversione di tendenza visto che contiene misure che non cambiano approccio e impostazione rispetto a quelle timide, occasionali e frammentate degli anni precedenti. Crescita della popolazione anziana e diminuzione della popolazione attiva continueranno quindi a caratterizzare in modo più accentuato il nostro Paese rispetto alle altre economie avanzate.

Ma gli squilibri che ci portano fuori rotta risultano ancora più marcati se, al posto degli anziani in senso anagrafico, si prendono in considerazioni gli inattivi e li si mette in rapporto alla popolazione effettivamente attiva, cioè a chi lavora e produce ricchezza che può essere redistribuita. Tale indicatore, noto come Economic old-age dependency ratio, è oggi attorno al 60% in Italia con la prospettiva che possa progressivamente salire vicino al 100% entro la metà di questo secolo.

Sugli inattivi la manovra non sembra poter produrre un forte contenimento, anzi con quota 100 tenderanno ad aumentare. Mentre è certo l’aumento di spesa pubblica per finanziare tale misura e il reddito di cittadinanza, molta più incertezza c’è sulla capacità di aumentare la platea di attivi da cui dipendono sostenibilità e benessere futuro.

E su questo aspetto pesano le altre tre leve. Una è l’occupazione femminile che assieme alla natalità è vincolata verso il basso dalla cronica carenza di politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia. Come l’occupazione delle donne, anche quella dei giovani è tra le più basse in Europa. Chi è senza lavoro potrà avere nel presente un maggior aiuto economico, ma la vera necessità del Paese è aumentare la platea di chi produce ricchezza se vogliamo evitare un futuro sempre più scadente. Purtroppo continua a mancare un piano solido e credibile per trasformare le nuove generazioni in una vera leva per la crescita competitiva del Paese. Anche su questo nella manovra non si vede una vera discontinuità con i governi precedenti. Su alcuni strumenti di potenziamento della transizione scuola-lavoro c’è addirittura un arretramento.

La quinta leva è il contributo alla crescita attraverso le nuove opportunità, grazie alla longevità e alla tecnologia, di una lunga vita attiva. Sembra che la politica italiana sia solo in grado di pensare a forzare i sessantenni a continuare lavorare o lasciare che le aziende se ne liberino il prima possibile. Molto meno degli altri Paesi avanzati investiamo sulle condizioni che favoriscono una lunga vita attiva, soddisfacente per il lavoratore maturo e produttiva per le aziende.

La demografia non condanna, ma la politica sì.