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Oltre la pandemia, rafforzare salute e capitale umano

Non è eccessivo riconoscere che l’Italia si trovi oggi davanti ad un drammatico bivio. Da un lato c’è il sentiero stretto, tutto in salita, che va verso una nuova fase di sviluppo economico e sociale. Sull’altro lato c’è un’ampia strada in discesa “che porta al disastro” – come ammoniva il direttore Tamburini in un editoriale pubblicato poco prima della seconda ondata pandemica – “reso ancora più drammatico dalla montagna di debito pubblico”. Le nostre fragilità passate e l’impatto della crisi sanitaria ci spingono verso la seconda strada. Servirà, nel nuovo anno, tutta la nostra volontà e lucidità d’intenti per imboccare con decisione la prima. Tra gli squilibri accumulati che ci sbilanciano verso la direzione sbagliata, assieme all’indebitamento c’è anche, forse ancor più, l’invecchiamento demografico. Si tratta di due enormi macigni che gravano sul debole capitale umano delle nuove generazioni, a cui si associa la scarsa capacità di piena valorizzazione nella società e nel mondo del lavoro.

Investire sull’infanzia con piani e risorse adeguate

Il piano nazionale di ripresa e resilienza (pnrr) “Next generation Italia” comincia finalmente a trovare forma. Si tratta di un passaggio cruciale per il nostro paese. Il momento particolare che stiamo oggi attraversando, la forte necessità di superare limiti e contraddizioni del passato, le prospettive aperte dalla transizione digitale e verde, l’entità delle risorse destinate, lo rendono un’occasione unica per mettere nuove basi al nostro percorso di sviluppo. Rappresenta, quindi, uno strumento concreto per capire quali sono le nostre priorità e quale idea di paese vogliamo realizzare.

Una delle priorità, ribadita recentemente dal premier Conte e che trova conferma nelle versioni preliminari disponibili del piano, è il potenziamento del sistema dei servizi per l’infanzia. Investire sul benessere e l’educazione delle nuove generazioni, fin dai primi giorni di vita, è il modo migliore per prendersi cura del futuro a partire dal presente. Lo dimostra in modo chiaro un ampio Rapporto pubblicato oggi da “Alleanza per l’infanzia” assieme ad “#educAzioni” ”, due realtà che raccolgono una rete molto ampia di associazioni di terzo settore, di organizzazioni del civismo attivo, oltre che di esperti e studiosi da anni impegnati su questo tema. Si tratta di un documento particolarmente prezioso per chi voglia farsi un’idea chiara sulle ragioni e sulle evidenze – basate sui dati più aggiornati e le ricerche nazionali e internazionali più rilevanti – che stanno alla base della necessità di “ampliamento, rafforzamento e integrazione della copertura dell’offerta di servizi educativi e scolastici per i bambini tra 0 e 6 anni e degli interventi a sostegno della genitorialità”. Il Rapporto contiene, inoltre, una dettagliata proposta di realizzazione, con indicazione delle risorse necessarie e le possibilità di finanziamento.

Il punto di partenza è la constatazione che complessivamente, fino ad oggi, l’Italia “non è stata capace di sviluppare politiche pubbliche adeguate a promuovere, come avvenuto invece in molti altri paesi occidentali, l’educazione e lo sviluppo umano a partire dalla primissima infanzia in coerenza sia con il benessere relazionale ed economico delle famiglie, sia con la prospettiva di una crescita solida e di qualità del Paese”.

Il livello di copertura sotto i tre anni – mettendo assieme nidi pubblici, convenzionati e totalmente privati – arriva al 25%, molto sotto il target europeo fissato al 33% e a valori che arrivano oltre il 50% in vari paesi, come la Francia e la Svezia. La Germania è un altro esempio interessante a cui guardare per l’impegno negli ultimi quindici anni a rafforzare la copertura e a ridurre i costi di accesso, riuscendo a convergere verso la media europea partendo da livelli inferiori ai nostri. Nello stesso periodo in Italia i livelli sono rimasti bassi e senza evidenza di un solido processo di convergenza né con l’Europa e nemmeno all’interno del nostro territorio. Il sistema dei servizi per l’infanzia risulta particolarmente debole nelle regioni meridionali. Ma rilevanti sono anche le diseguaglianze sociali: la frequenza ai nidi risulta più ridotta per i bambini provenienti da famiglie con basso reddito e bassa istruzione dei genitori: “sono di fatto esclusi, quindi, i bambini che più trarrebbero giovamento, come mostrano le ricerche internazionali, da esperienze educative extrafamiliari di qualità”.

Nella versione preliminare del pnrr del Governo italiano i “nidi d’infanzia” sono inseriti come una delle linee di intervento della componente “Parità di genere” (a cui nel complesso sono destinati 4,2 miliardi di euro) della missione “Parità di genere, equità sociale e territoriale”. Una collocazione che va a confermare una visione limitata e parziale, in parte anche distorta, nel dibattito pubblico italiano della funzione dei servizi per l’infanzia, che non possono essere ricondotti semplicemente ad uno strumento di conciliazione e utile per le donne. Abbiamo detto che il pnrr “Next generation Italia” dovrebbe riflettere una visione del paese, è quindi importante che assieme agli interventi di policy favorisca in modo coerente i cambiamenti culturali necessari per il loro migliore impatto nei processi di crescita economica e di benessere sociale.

Il Rapporto “Investire nell’infanzia” di Alleanza per l’infanzia ed #educAzioni bene evidenzia come l’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro sia una questione sempre più centrale non solo per le famiglie, ma anche per le aziende, non solo sul versante femminile, ma anche maschile. Il Rapporto dedica tutta una prima ampia e documentata parte alle ricadute dei nidi – intesi come punto di partenza di un percorso educativo di qualità per le nuove generazioni – sui bambini stessi, sulle loro famiglie, sulla società e l’economia, con ritorni positivi sia immediati che nel medio e lungo periodo. “Ragionando pragmaticamente anche in termini di indicatori strategici per lo sviluppo del Paese”, il potenziamento dei servizi di qualità per l’infanzia è elemento centrale di un percorso di qualità della crescita che possa favorire un aumento: dei tassi di partecipazione femminile al mercato dal lavoro, della natalità, dello sviluppo educativo delle nuove generazioni, dei livelli di benessere economico delle famiglie e dei livelli di fiducia; oltre che una riduzione della povertà infantile (materiale ed educativa), delle diseguaglianze di opportunità, del gender gap (in termini di equilibrio dei ruoli all’interno della coppia). Difficile, insomma, trovare un altro tipo di investimento con ritorno economico e sociale così ampio, sia di breve periodo (maggiore occupazione femminile e maggior benessere delle famiglie), che verso il futuro prossimo (rafforzamento del capitale umano delle nuove generazioni e loro prospettive di occupazione, minor costi sociali dovuti a fragilità e diseguaglianze di partenza, minori squilibri demografici).

La conciliazione è quindi solo una parte, pur rilevante. Meglio sarebbe stato inserire questa linea di intervento nella missione “Istruzione”. Ma anche le risorse indicate nel piano appaiono inadeguate rispetto agli obiettivi attesi. La versione preliminare del pnrr è molto generica, ma informazioni fornite in diverse occasioni dal Governo e da forze della maggioranza indicano in 750 mila posti, in termini assoluti, e nel 60 percento, in termini relativi, la copertura da raggiungere. E’ irrealistico però arrivarci anche destinando la metà dei 4,2 miliardi complessivi assegnati dal piano alla componente “Parità di genere”.

Secondo le stime riportate dal Rapporto “Investire nell’infanzia” per arrivare più ragionevolmente ad una copertura pubblica del 33% in ciascuna regione, il costo è di 4,8 miliardi in conto capitale e 2,7 miliardi di spesa corrente. Se poi si vuole raggiungere una effettiva gratuità del servizio, in modo da favorire un accesso ampio come per le materne, va aggiunta una ulteriore cifra stimata in 1 miliardo e 325 milioni l’anno.

Abbiamo già visto misure potenzialmente utili a cui sono state destinate risorse rilevanti, come il Reddito di cittadinanza, trovare poi una realizzazione insoddisfacente. Per mettere le basi di una nuova fase di crescita dobbiamo essere ambiziosi, ma proprio per questo servono interventi con obiettivi credibili e risorse commisurate, ben strutturati e integrati all’interno di un processo da monitorare e potenziare anno dopo anno rispetto alla capacità di consentire alle persone di migliorare la propria condizione e farsi parte attiva dello sviluppo del Paese.

Il tracollo demografico prossimo venturo

L’Italia è un paese demograficamente moribondo. Lo sembrava già prima della Grande recessione del 2008. La situazione è peggiorata negli anni successivi e ora il colpo della pandemia, con le sue varie ondate, rischia di travolgere le residue speranze di risollevarci.

E’ utile ripercorrere le tappe principali del disastro demografico del nostro paese per capire la situazione in cui oggi ci troviamo e il sentiero strettissimo da imboccare per evitare le conseguenze peggiori. In poco più di un decennio, tra la seconda metà degli anni Settanta e la parte finale degli anni Ottanta, l’Italia è passata da un numero medio di figli per donna superiore alla media europea (anche più della Francia) al livello più basso al mondo. Le nascite, che prima del 1975 non erano mai scese sotto le 800 mila, si inabissano assestandosi attorno alle 550 mila dalla metà del decennio successivo in poi. Questo crollo repentino e accentuato non tarda ad avere contraccolpi sulla struttura per età della popolazione. A metà degli anni Novanta l’Italia diventa il primo paese al mondo in cui gli under 15 vengono superati dagli over 65.

L’Italia entra, così, nel nuovo secolo come uno dei paesi con struttura demografica più squilibrata. Tanto che a novembre 2005, in un special report dedicato al Belpaese, l’Economist scrive “Italy’s demographics look terrible. The country has one of the lowest birth rates in western Europe, at an average of 1.3 children per woman, and the population is now shrinking; yet Italians are living ever longer, so it is also ageing rapidly. The economic consequences—too many pensioners, not enough workers to maintain them—are worrying enough on their own”.

Anziché invertire la rotta, questo quadro è stato lasciato peggiorare ulteriormente con la Grande recessione che segna il passaggio tra la prima e la seconda decade del XXI secolo. Tanto che a partire dal 2015 la popolazione italiana inizia a diminuire, anticipando un trend negativo che lo scenario centrale delle previsioni Istat con base 2011 collocava solo a partire dal 2042. Secondo tali previsioni, inoltre, le nascite dovevano mantenersi su livelli sempre superiori a 500 mila, mentre nel 2014 (a pochi anni dalla pubblicazione delle previsioni) il dato reale osservato risultava già scivolato sotto tale livello. Il resto del decennio è proseguito con ogni nuovo anno che spostava al ribasso il record negativo di nascite di sempre dell’anno precedente, fino al valore di 420 mila del 2019. In tale anno il numero medio di figli per donna è risultato pari a 1,29, molto vicino al dato del 2005 ripreso dall’Economist. Nessun miglioramento quindi rispetto al quadro allora delineato, ma nel frattempo la bassa fecondità ha continuato ad indebolire la base della demografia italiana, con gli over 65 ulteriormente aumentati, tanto da prefigurare il sorpasso di questa ultima componente anche sugli under 25. Ma va anche considerato che a fronte di un numero medio di figli per donna analogo al 2005, il numero delle nascite del 2019 risulta sensibilmente più basso (ben 130 mila in meno). Questo perché nel frattempo, a causa della persistente denatalità, sono diminuite le potenziali madri, ovvero le donne in età feconda. Se per l’Economist la demografia Italiana risultava 15 anni fa “terrible”, come definire quella del 2019? Ma sappiamo già che nel 2020 avremo dati peggiori e nel 2021 ancor di più.

Siamo entrati nella crisi causata dall’epidemia di Covid-19 con una fecondità tra le più basse in Europa, con una delle più consistenti riduzioni di donne al centro della vita riproduttiva, ma anche con maggior incertezza dei progetti di costituzione di una famiglia con figli delle nuove generazioni. Il tasso di NEET (i giovani che non studiano e non lavorano) tra i 25 e i 34 anni – fase della vita cruciale per i progetti di vita – era pari a 23,1% nel 2008, all’inizio della Grande recessione, mentre risulta pari a 28,9% nel 2019, alla vigilia dell’attuale pandemia (a fronte di una media europea pari al 17,3%). Anche il numero medio di figli per donna parte da livelli più bassi sia rispetto alla recessione precedente (1,29 contro 1,45 nel 2008) sia rispetto alla media europea (attorno a 1,55).

L’Italia subisce, quindi, un impatto del Covid più accentuato sia dal punto di vista della letalità, per la fragilità della popolazione anziana, sia dal punto di vista delle conseguenze sociali ed economiche di breve e medio termine per la minor solidità dei percorsi formativi e professionali di ventenni e trentenni.

I timori di uno scadimento ulteriore al ribasso emergevano ben chiari dall’indagine promossa dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, in pieno lockdown (tra fine marzo e inizio aprile 2020). Allora quasi la metà (il 49%) degli intervistati, tra i 18 e i 34 anni, dichiarava di vedere – rispetto a prima dell’emergenza coronavirus – più a rischio il proprio lavoro attuale o futuro. Riguardo ai progetti di vita, a rispondere di vederli più a rischio rispetto a prima della pandemia erano il 62% dei giovani italiani, il 59% dei coetanei spagnoli, il 53,9% dei britannici, il 45,8% dei francesi e il 42,5% dei tedeschi. Nell’indagine replicata a sei mesi di distanza (a inizio ottobre) – quindi dopo l’apice dell’emergenza di primavera e prima della seconda ondata di pandemia – a rispondere di vedere a rischio i propri progetti di vita erano ancora il 55% dei giovani italiani.

Più nello specifico, tra chi progettava ad inizio 2020 di avere un figlio, nell’indagine condotta a marzo era il 44,4 a confermare la volontà di realizzare entro l’anno tale scelta, mentre la maggioranza dichiarava di aver rivisto i piani (posticipando all’anno successivo, il 29,3%, o rinunciando per ora, pari al 26,3%). Ad ottobre la situazione non risultava migliorata, se non per una tendenza più a posticipare (36,6%) che ad abbandonare la scelta (21,2%). Questi dati portano a pensare che le nascite siano destinate a diminuire nel 2020 rispetto al 2019 e ancor di più, verosimilmente, nel 2021. Coerenti con questo quadro sono anche i risultati di alcune simulazioni fornite dall’Istat sugli effetti negativi della pandemia sulle nascite, che prefigurano una discesa sotto 400 mila nel prossimo anno.

In Italia siamo esperti nel chiudere la stalla quando i buoi sono quasi tutti scappati. Vedremo la piena realizzazione del Family act solo dopo che la pandemia avrà finito di diffondere insicurezza e sfiducia e quando la struttura demografica risulterà oramai inevitabilmente compromessa? Per l’efficacia delle politiche demografiche non conta solo la rilevanza delle misure ma anche il tempo della realizzazione e della maturazione dei loro effetti.

Sappiamo, insomma, quali sono le medicine che servono al paziente, ma più aspettiamo a darle e meno possibilità avremo di evitare danni che lo condannano a cronicizzare il proprio stato, con inabilità permanenti.

Quei diritti dei ragazzi generano valori

La Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nasce assieme alla Convention on the Rights of the Child approvata il 20 novembre del 1989 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Celebrarla ogni anno – ancor più in periodi particolari come questo – significa chiedersi non solo quali passi in avanti sono stati fatti per rispettare quanto scritto nella Convenzione, ma anche come ripensare il tipo di diritti da riconoscere alle nuove generazioni perché possano farsi interpreti positivi del proprio tempo. Se da un lato, sotto vari punti di vista, sono aumentate le opportunità rispetto alle generazioni precedenti, d’altro lato la complessità e il rapido cambiamento rendono più difficile mettere basi solide ai propri percorsi formativi, professionali e di vita.

Ma anche i modelli stessi, sociali ed economici, che orientano gli obiettivi, la misura e gli strumenti della produzione di benessere sono entrati in crisi. Un tema messo al centro dei lavori dell’evento The economy of Francesco che si sta tenendo in questi giorni. Questa incertezza è inoltre stata accentuata dall’impatto di quattro crisi che hanno segnato il percorso di crescita dei nati in questo secolo (la generazione Zeta) dall’infanzia fino alle soglie dell’età adulta. La prima crisi è quella che a partire dall’11 settembre 2001 ha accresciuto la percezione di insicurezza nel muoversi nel mondo e tra culture diverse.

La seconda è la Grande recessione del 2008-13, che ha reso ancor più chiara la difficoltà delle economie mature avanzate a crescere in coerenza con le sfide di questo secolo. La generazione Zeta europea è stata, con la Brexit, anche la prima a non crescere con l’idea di un processo comunitario che si rafforza e allarga. La quarta crisi è quella sanitaria causata dalla pandemia di Covid-19. Gli attuali under 20 hanno nella loro biografia l’impatto combinato di questi grandi eventi che hanno cambiato il modo di vivere, di stare in relazione, di guardare il mondo e di operare al suo interno. In Italia l’incertezza è inoltre amplificata dalle carenze degli strumenti di welfare attivo che accentuano la dipendenza passiva dai genitori. Inoltre, i giovani attuali diventano adulti in uno dei Paesi con maggior peso di debito pubblico e carico di pensionati sulla popolazione attiva.

Ancor più che nel resto d’Europa, quindi, le possibilità di crescita e di sostenibilità sociale dell’Italia dipendono dalla formazione del capitale umano delle nuove generazioni e dalla capacità di piena valorizzazione all’interno del mondo del lavoro. Ma proprio questi sono i punti su cui presentiamo maggiore fragilità e che rischiano ora di essere maggiormente indeboliti dall’impatto della pandemia. «L’Atlante dell’infanzia a rischio 2020» pubblicato in questi giorni da Save the Children, aiuta in modo efficace a leggere tali fragilità e la loro distribuzione (territoriale e sociale) all’interno del nostro Paese.

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La crisi e il prezzo che i giovani sono chiamati a pagare

I giovani, in Europa e ancor più in Italia, sono ancora una volta chiamati a pagare i maggiori costi economici e sociali, nel breve e nel medio periodo, di una grave e profonda crisi. Se questo era il timore durante il periodo di lockdown di primavera, ora è di fatto una certezza. Lo testimoniano i dati sulla disoccupazione giovanile salita in Europa dal 14,9% poco prima della pandemia al 17,6% ad agosto 2020, ma arrivata già al 32,1% in Italia. Dati che evidenziano una situazione di maggior fragilità rispetto alla recessione iniziata del 2008. Allora il tasso di disoccupazione dei giovani partiva da valori poco superiori al 20%, arrivando a superare il 30% “solo” quattro anni dopo, nel 2012.