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Il tracollo demografico prossimo venturo

L’Italia è un paese demograficamente moribondo. Lo sembrava già prima della Grande recessione del 2008. La situazione è peggiorata negli anni successivi e ora il colpo della pandemia, con le sue varie ondate, rischia di travolgere le residue speranze di risollevarci.

E’ utile ripercorrere le tappe principali del disastro demografico del nostro paese per capire la situazione in cui oggi ci troviamo e il sentiero strettissimo da imboccare per evitare le conseguenze peggiori. In poco più di un decennio, tra la seconda metà degli anni Settanta e la parte finale degli anni Ottanta, l’Italia è passata da un numero medio di figli per donna superiore alla media europea (anche più della Francia) al livello più basso al mondo. Le nascite, che prima del 1975 non erano mai scese sotto le 800 mila, si inabissano assestandosi attorno alle 550 mila dalla metà del decennio successivo in poi. Questo crollo repentino e accentuato non tarda ad avere contraccolpi sulla struttura per età della popolazione. A metà degli anni Novanta l’Italia diventa il primo paese al mondo in cui gli under 15 vengono superati dagli over 65.

L’Italia entra, così, nel nuovo secolo come uno dei paesi con struttura demografica più squilibrata. Tanto che a novembre 2005, in un special report dedicato al Belpaese, l’Economist scrive “Italy’s demographics look terrible. The country has one of the lowest birth rates in western Europe, at an average of 1.3 children per woman, and the population is now shrinking; yet Italians are living ever longer, so it is also ageing rapidly. The economic consequences—too many pensioners, not enough workers to maintain them—are worrying enough on their own”.

Anziché invertire la rotta, questo quadro è stato lasciato peggiorare ulteriormente con la Grande recessione che segna il passaggio tra la prima e la seconda decade del XXI secolo. Tanto che a partire dal 2015 la popolazione italiana inizia a diminuire, anticipando un trend negativo che lo scenario centrale delle previsioni Istat con base 2011 collocava solo a partire dal 2042. Secondo tali previsioni, inoltre, le nascite dovevano mantenersi su livelli sempre superiori a 500 mila, mentre nel 2014 (a pochi anni dalla pubblicazione delle previsioni) il dato reale osservato risultava già scivolato sotto tale livello. Il resto del decennio è proseguito con ogni nuovo anno che spostava al ribasso il record negativo di nascite di sempre dell’anno precedente, fino al valore di 420 mila del 2019. In tale anno il numero medio di figli per donna è risultato pari a 1,29, molto vicino al dato del 2005 ripreso dall’Economist. Nessun miglioramento quindi rispetto al quadro allora delineato, ma nel frattempo la bassa fecondità ha continuato ad indebolire la base della demografia italiana, con gli over 65 ulteriormente aumentati, tanto da prefigurare il sorpasso di questa ultima componente anche sugli under 25. Ma va anche considerato che a fronte di un numero medio di figli per donna analogo al 2005, il numero delle nascite del 2019 risulta sensibilmente più basso (ben 130 mila in meno). Questo perché nel frattempo, a causa della persistente denatalità, sono diminuite le potenziali madri, ovvero le donne in età feconda. Se per l’Economist la demografia Italiana risultava 15 anni fa “terrible”, come definire quella del 2019? Ma sappiamo già che nel 2020 avremo dati peggiori e nel 2021 ancor di più.

Siamo entrati nella crisi causata dall’epidemia di Covid-19 con una fecondità tra le più basse in Europa, con una delle più consistenti riduzioni di donne al centro della vita riproduttiva, ma anche con maggior incertezza dei progetti di costituzione di una famiglia con figli delle nuove generazioni. Il tasso di NEET (i giovani che non studiano e non lavorano) tra i 25 e i 34 anni – fase della vita cruciale per i progetti di vita – era pari a 23,1% nel 2008, all’inizio della Grande recessione, mentre risulta pari a 28,9% nel 2019, alla vigilia dell’attuale pandemia (a fronte di una media europea pari al 17,3%). Anche il numero medio di figli per donna parte da livelli più bassi sia rispetto alla recessione precedente (1,29 contro 1,45 nel 2008) sia rispetto alla media europea (attorno a 1,55).

L’Italia subisce, quindi, un impatto del Covid più accentuato sia dal punto di vista della letalità, per la fragilità della popolazione anziana, sia dal punto di vista delle conseguenze sociali ed economiche di breve e medio termine per la minor solidità dei percorsi formativi e professionali di ventenni e trentenni.

I timori di uno scadimento ulteriore al ribasso emergevano ben chiari dall’indagine promossa dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, in pieno lockdown (tra fine marzo e inizio aprile 2020). Allora quasi la metà (il 49%) degli intervistati, tra i 18 e i 34 anni, dichiarava di vedere – rispetto a prima dell’emergenza coronavirus – più a rischio il proprio lavoro attuale o futuro. Riguardo ai progetti di vita, a rispondere di vederli più a rischio rispetto a prima della pandemia erano il 62% dei giovani italiani, il 59% dei coetanei spagnoli, il 53,9% dei britannici, il 45,8% dei francesi e il 42,5% dei tedeschi. Nell’indagine replicata a sei mesi di distanza (a inizio ottobre) – quindi dopo l’apice dell’emergenza di primavera e prima della seconda ondata di pandemia – a rispondere di vedere a rischio i propri progetti di vita erano ancora il 55% dei giovani italiani.

Più nello specifico, tra chi progettava ad inizio 2020 di avere un figlio, nell’indagine condotta a marzo era il 44,4 a confermare la volontà di realizzare entro l’anno tale scelta, mentre la maggioranza dichiarava di aver rivisto i piani (posticipando all’anno successivo, il 29,3%, o rinunciando per ora, pari al 26,3%). Ad ottobre la situazione non risultava migliorata, se non per una tendenza più a posticipare (36,6%) che ad abbandonare la scelta (21,2%). Questi dati portano a pensare che le nascite siano destinate a diminuire nel 2020 rispetto al 2019 e ancor di più, verosimilmente, nel 2021. Coerenti con questo quadro sono anche i risultati di alcune simulazioni fornite dall’Istat sugli effetti negativi della pandemia sulle nascite, che prefigurano una discesa sotto 400 mila nel prossimo anno.

In Italia siamo esperti nel chiudere la stalla quando i buoi sono quasi tutti scappati. Vedremo la piena realizzazione del Family act solo dopo che la pandemia avrà finito di diffondere insicurezza e sfiducia e quando la struttura demografica risulterà oramai inevitabilmente compromessa? Per l’efficacia delle politiche demografiche non conta solo la rilevanza delle misure ma anche il tempo della realizzazione e della maturazione dei loro effetti.

Sappiamo, insomma, quali sono le medicine che servono al paziente, ma più aspettiamo a darle e meno possibilità avremo di evitare danni che lo condannano a cronicizzare il proprio stato, con inabilità permanenti.

Quei diritti dei ragazzi generano valori

La Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nasce assieme alla Convention on the Rights of the Child approvata il 20 novembre del 1989 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Celebrarla ogni anno – ancor più in periodi particolari come questo – significa chiedersi non solo quali passi in avanti sono stati fatti per rispettare quanto scritto nella Convenzione, ma anche come ripensare il tipo di diritti da riconoscere alle nuove generazioni perché possano farsi interpreti positivi del proprio tempo. Se da un lato, sotto vari punti di vista, sono aumentate le opportunità rispetto alle generazioni precedenti, d’altro lato la complessità e il rapido cambiamento rendono più difficile mettere basi solide ai propri percorsi formativi, professionali e di vita.

Ma anche i modelli stessi, sociali ed economici, che orientano gli obiettivi, la misura e gli strumenti della produzione di benessere sono entrati in crisi. Un tema messo al centro dei lavori dell’evento The economy of Francesco che si sta tenendo in questi giorni. Questa incertezza è inoltre stata accentuata dall’impatto di quattro crisi che hanno segnato il percorso di crescita dei nati in questo secolo (la generazione Zeta) dall’infanzia fino alle soglie dell’età adulta. La prima crisi è quella che a partire dall’11 settembre 2001 ha accresciuto la percezione di insicurezza nel muoversi nel mondo e tra culture diverse.

La seconda è la Grande recessione del 2008-13, che ha reso ancor più chiara la difficoltà delle economie mature avanzate a crescere in coerenza con le sfide di questo secolo. La generazione Zeta europea è stata, con la Brexit, anche la prima a non crescere con l’idea di un processo comunitario che si rafforza e allarga. La quarta crisi è quella sanitaria causata dalla pandemia di Covid-19. Gli attuali under 20 hanno nella loro biografia l’impatto combinato di questi grandi eventi che hanno cambiato il modo di vivere, di stare in relazione, di guardare il mondo e di operare al suo interno. In Italia l’incertezza è inoltre amplificata dalle carenze degli strumenti di welfare attivo che accentuano la dipendenza passiva dai genitori. Inoltre, i giovani attuali diventano adulti in uno dei Paesi con maggior peso di debito pubblico e carico di pensionati sulla popolazione attiva.

Ancor più che nel resto d’Europa, quindi, le possibilità di crescita e di sostenibilità sociale dell’Italia dipendono dalla formazione del capitale umano delle nuove generazioni e dalla capacità di piena valorizzazione all’interno del mondo del lavoro. Ma proprio questi sono i punti su cui presentiamo maggiore fragilità e che rischiano ora di essere maggiormente indeboliti dall’impatto della pandemia. «L’Atlante dell’infanzia a rischio 2020» pubblicato in questi giorni da Save the Children, aiuta in modo efficace a leggere tali fragilità e la loro distribuzione (territoriale e sociale) all’interno del nostro Paese.

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La crisi e il prezzo che i giovani sono chiamati a pagare

I giovani, in Europa e ancor più in Italia, sono ancora una volta chiamati a pagare i maggiori costi economici e sociali, nel breve e nel medio periodo, di una grave e profonda crisi. Se questo era il timore durante il periodo di lockdown di primavera, ora è di fatto una certezza. Lo testimoniano i dati sulla disoccupazione giovanile salita in Europa dal 14,9% poco prima della pandemia al 17,6% ad agosto 2020, ma arrivata già al 32,1% in Italia. Dati che evidenziano una situazione di maggior fragilità rispetto alla recessione iniziata del 2008. Allora il tasso di disoccupazione dei giovani partiva da valori poco superiori al 20%, arrivando a superare il 30% “solo” quattro anni dopo, nel 2012.

L’investimento migliore? Servizi per l’infanzia

Difficile trovare in Europa una combinazione peggiore della nostra su bassa fecondità, bassa presenza femminile nel mondo del lavoro, alto rischio di impoverimento dopo il secondo figlio. Se non bastasse, i primi dati sull’impatto della crisi causata dalla pandemia preannunciano un grave peggioramento su tutte queste dimensioni.

Non esiste una bacchetta magica, ma se vogliamo davvero invertire il percorso fuori rotta che da troppo tempo ci caratterizza, il miglior investimento sociale che possiamo oggi fare è sui servizi per la prima infanzia. Si tratta della misura maggiormente in grado di favorire i meccanismi che mettono in relazione sistemica virtuosa l’occupazione delle donne, la condizione economica delle famiglie, la realizzazione dei progetti di vita, lo sviluppo umano delle nuove generazioni, la riduzione delle diseguaglianze sociali e territoriali. I nidi hanno, infatti, una funzione cruciale, oltre che per la conciliazione tra lavoro e famiglia, anche (e ancor più) per lo sviluppo socio-educativo a partire dalla nascita. Se l’assegno unico-universale, approvato alla Camera, assume come destinatario il bambino, indipendentemente dalle caratteristiche dei genitori. Se il congedo di paternità obbligatorio risponde all’esigenza dei figli di poter beneficiare della presenza del padre nei primi giorni di vita. Continua invece a mancare un piano che metta al centro – attraverso servizi di qualità e in grado di raggiungere tutti – il “diritto di ogni bambino” di poter contare su una proposta educativa stimolante e qualificata fin dall’infanzia. Servono però impegni chiari e precisi in questa direzione. Come il riallineare tutte le regioni italiane, entro i prossimi tre anni, al target europeo del 33 percento di copertura della fascia 0-3, assieme alla progressiva riduzione dei costi per le famiglie. Prima tappa di un processo di convergenza – magari anche con la spinta di Next Generation Eu – con le migliori esperienza europee.

Il baricentro si sposta sul bambino come titolare del sostegno

La Legge di bilancio è vissuta, ogni anno, come un momento importante e delicato. Lo è ancor più quest’anno per i contenuti in sé e per il messaggio che la politica darà al Paese rispetto al momento che stiamo attraversando, alle urgenze in risposta alle difficoltà poste dalla pandemia e alle prospettive di rilancio della crescita.