Tagged: generazioni

Il dividendo demografico

Sta venendo a compimento nel XXI secolo un passaggio unico nella storia dell’umanità che porta ad un mutamento delle tradizionali fasi della vita e ad un’alterazione del tipico rapporto tra le generazioni, con implicazioni che mettono in discussione le basi che finora hanno consentito lo sviluppo economico e la sostenibilità sociale. Il motore di questa grande trasformazione è la “transizione demografica”. La prima fase di questo processo è caratterizzata dalla riduzione dei rischi di morte in età infantile e giovanile. Via via che si abbassano i rischi anche nelle età successive, il livello di fecondità che garantisce il ricambio generazionale scende progressivamente verso il valore di due (bastano due figli per sostituire i genitori alla stessa età). Va così a restringersi la base della piramide demografica a fronte di una punta
che si alza e allarga. Si entra così in una condizione del tutto nuova che impone la sfida di garantire sviluppo e benessere in un mondo in cui i giovani diventano una risorsa scarsa (“degiovanimento”) a fronte di una continua crescita della componente anziana (“invecchiamento”).

I giovani si sentono esclusi dalle scelte, così la generazione digitale è in trappola

Le dinamiche demografiche italiane, in assenza di adeguati correttivi, stanno spostando il paese verso un progressivo indebolimento del ruolo delle nuove generazioni nei processi di sviluppo e nelle scelte collettive. La conseguenza, per i giovani, è la percezione di non riuscire ad incidere sul futuro a partire dalle scelte di oggi e il timore di doversi adattare a un paese in cui sempre meno si riconoscono.

Denatalità. Agire subito per evitare il crollo

Ci sono tre aspetti preoccupanti della demografia italiana. Il primo è dato dalle dinamiche particolarmente negative della natalità e dagli effetti distorcenti che produce sulla struttura per età. Il secondo dall’incapacità di mettere in atto politiche efficaci per dare risposta a tali dinamiche. Il terzo è l’essere entrati in una fase in cui il non agire con misure adeguate e incisive non lascia l’Italia solo in posizione più debole rispetto al resto d’Europa, ma la espone maggiormente ad un inasprimento continuo degli squilibri. Va precisato che la causa della distorsione della struttura per età non è l’invecchiamento in senso proprio, ovvero la longevità. In questo l’Italia non si distingue dalle altre economie mature avanzate. La distorsione è dovuta alla persistente bassa natalità che produce il processo di degiovanimento, ovvero la riduzione continua della consistenza delle nuove generazioni. Come conseguenza di tale processo l’Italia sta subendo un crollo del tutto inedito e maggiore rispetto alle altre economie mature avanzate della fascia giovane-adulta. La combinazione tra bassa fecondità e riduzione della popolazione nell’età in cui si forma una famiglia, rischia di portare ad una sorta di reazione a catena generazionale: meno genitori e via via ancor meno figli e genitori futuri.

Il nuovo dei giovani oltre ogni crisi

Come sono gli attuali ventenni? A questa domanda, posta insistentemente in ogni ambito della vita sociale ed economica, esiste almeno una risposta certa: sono diversi da com’erano i ventenni di vent’anni fa. Certo, non basta questa come risposta, ma è un punto di partenza cruciale, imprescindibile. La consapevolezza che ogni nuova generazione è giovane a modo proprio non è scontata. Ce lo rivela il fatto che tutti (genitori, educatori, datori di lavoro, politici) hanno ben chiaro cosa vorrebbero che i giovani fossero e facessero, ma sempre meno le aspettative che hanno su di essi trovano conferma.

Troppi squilibri tra generazioni, occorrono case servizi e lavoro

L’Italia è uno dei paesi da più lungo tempo in crisi demografica, ovvero in forte deficit rispetto alla capacità di garantire un ricambio generazionale equilibrato nella popolazione (e, conseguentemente, nei processi sociali e produttivi).

La fecondità italiana è precipitata da valori superiori a due figli in media per donna (soglia di rimpiazzo tra generazioni) a metà degli anni Settanta del secolo scorso, a meno di 1,5 figli prima della metà degli anni Ottanta. Non è poi più risalita sopra tale valore. Questo ha profondamente alterato la struttura per età, con un progressivo sbilanciamento negativo verso le età più giovani. Nella prima metà degli anni Novanta siamo diventati il primo paese al mondo in cui la popolazione inferiore ai 15 anni è scesa sotto quella di chi ha 65 anni e oltre. Successivamente siamo diventati il paese con più bassa incidenza di under 35 in Europa, entrando quindi, in modo più accentuato delle altre economie mature avanzate, in una fase di inedita e marcata riduzione delle coorti entranti in età lavorativa (oltre che riproduttiva).

Queste dinamiche hanno portato all’esaurimento della capacità endogena di crescita della popolazione italiana, entrata dal 2014 in fase di declino, con un saldo naturale negativo non più compensato nemmeno dall’immigrazione. La questione che ora si pone per l’Italia non è più far tornare a crescere la popolazione (destinata in ogni caso a diminuire), ma quanto lasciar aumentare gli squilibri interni tra generazioni. Il rischio maggiore è ora quello di superare il punto di non ritorno anche rispetto alla curva delle nascite.

Nelle “Considerazioni finali”, presentate il 31 maggio in occasione della pubblicazione della Relazione annuale sul 2022, il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha indicato la crisi demografica come una delle maggiori debolezza di fondo del Paese. Ha, in particolare, indicato l’immigrazione come uno dei fattori principali per mitigare la riduzione della forza lavoro potenziale, conseguenza della persistente denatalità. Per quanto rilevante sia e possa continuare ad essere il contributo dei flussi migratori, se la natalità continua a diminuire tali ingressi saranno sempre più insufficienti a colmare gli squilibri strutturali crescenti nel rapporto tra popolazione anziana e in età lavorativa. Se, da un lato, l’immigrazione è un fattore rilevante per rispondere agli squilibri demografici e ai fabbisogni delle imprese in molti settori, d’altro lato non è possibile un’attrazione di qualità senza sviluppo economico e possibilità di integrazione lavorativa e sociale. Inoltre, senza solide politiche familiari e generazionali a trovarsi ancor più in difficoltà nei propri progetti di vita saranno ancor più i figli degli immigrati e le famiglie straniere.

Non è possibile, quindi, affrontare la sfida demografica pensando solo di gestire gli squilibri, spostando in avanti l’età pensionabile e aumentando l’immigrazione, è cruciale intervenire in modo concomitante sulle cause.

I dati, del resto, sono eloquenti. Nel 2010 il numero medio di figli per donna in Italia era pari a 1,44 e ciò consentiva di ottenere 562 mila nascite. Lo scenario mediano delle più recenti previsioni Istat contempla un aumento del tasso di fecondità che consente di risalire fino a 1,44 figli nel 2039, a cui però corrisponde un totale di appena 424 mila nascite. A parità di numero medio di figli per donna ci troveremmo, quindi, con circa 140 mila nascite in meno. L’unico percorso che evita squilibri che si autoalimentano è quello che corrisponde allo scenario alto delle previsioni Istat. Con tale percorso si arriverebbe a circa 1,7 figli per donna nel 2039 con l’esito di riportare in modo solido le nascite attorno al mezzo milione.

Per i valori bassi da cui partiamo e per la struttura per età maggiormente compromessa, è necessario, insomma, convergere verso i paesi con maggior fecondità in Europa. I margini ci sono, dato che, come evidenziano varie ricerche internazionali e le stesse indagini Istat, il numero desiderato di figli è in Italia attorno a due.

Quello che altre economie mature che crescono in modo più solido del nostro hanno capito è che le politiche familiari vanno intese come parte integrante delle politiche di sviluppo, strettamente connesse con l’occupazione giovanile, la partecipazione femminile al mercato del lavoro, lo sviluppo umano a partire dall’infanzia e lungo tutte le fasi della vita. Intervenire in questa direzione in modo sistemico non favorisce solo la vitalità del territorio ma porta anche a migliorare gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.

Per riuscirci, partendo dai livelli più bassi e con una struttura demografica più compromessa, è necessario passare dall’essere stati nel decennio scorso i peggiori in Europa a porsi ora come l’esempio da seguire nelle politiche familiari e per le nuove generazioni da realizzare dopo l’impatto ulteriormente depressivo della pandemia.

E’ però bene essere consapevoli che non esistono misure in grado di essere da sole trasformative, vanno disegnate e implementate in modo da produrre un effetto leva in modo integrato. Il sostegno economico fornisce senz’altro il riscontro più immediato del valore collettivo dato alla scelta di avere figli. Ma perché a tale spinta si agganci un processo di inversione di tendenza che continui nel medio-lungo periodo serve un forte investimento sulle misure di conciliazione. L’asse portate è un solido sistema di servizi per l’infanzia con offerta accessibile – in termini di copertura, costi e qualità adeguata – sul tutto il territorio. La cultura della conciliazione deve, poi, essere aiutata a svilupparsi e consolidarsi nelle aziende (comprese le piccole e medie, aiutandole a trovare soluzioni specifiche in termini di part-time e smart working) e sul versante maschile (promuovendo i congedi obbligatori di paternità). Va, inoltre, rafforzato il percorso di autonomia dei giovani, con adeguate politiche abitative e di inserimento stabile nel mondo del lavoro. Siamo, del resto, il paese in Europa con età più tardiva al primo figlio.

Su tutti questi fronti continuiamo, da troppo tempo, ad essere molto più deboli rispetto alle altre economie avanzate con le quali ci confrontiamo, con conseguenti squilibri che vincolano al ribasso sviluppo e benessere futuro.