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Giovani che progettano ma il rischio è arrendersi

Il cammino di preparazione del Sinodo dei Vescovi dedicato ai giovani è diventato l’occasione per la realizzazione di una delle esperienze, in assoluto, più ampie e interessanti di ascolto delle nuove generazioni di tutto il pianeta.
Molti e diversificati sono stati gli strumenti predisposti a questo fine. Si è partiti con il questionario destinato alle Conferenze Episcopali e ad altri organismi ecclesiali, attraverso il quale si sono chiesti dati su caratteristiche e condizioni dei giovani, assieme a informazioni su come le varie diocesi e le varie realtà ecclesiali di tutto il mondo interpretano concretamente la sfida del mettersi in relazione con le nuove generazioni.

Nella testa dei diciottenni. Cari ragazzi futuri centenari

Cosa sappiamo dei diciottenni italiani di oggi? Di quali caratteristiche distintive sono portatori? Come interpretano il loro tempo? Quali desideri, timori, attese hanno rispetto al proprio futuro?
I dati più solidi sono quelli demografici, che ci dicono che i diciottenni sono poco più di 570 mila, compresi circa 45 mila stranieri. Sono nati in un periodo di persistente denatalità, presentano quindi una dimensione meno consistente rispetto alle generazioni precedenti (i 35enni, ad esempio, sono pari a 730 mila e i 65enni attorno a 700 mila).

Perché la politica ha dimenticato i ragazzi e come recuperare

Dopo essere state le più colpite dalla crisi economica, le nuove generazioni rischiano ora di essere quelle che meno beneficeranno della ripresa, con conseguenze nefaste sul loro futuro e su quello del paese. Ma insieme al presente del lavoro che manca devono confrontarsi con il lavoro che cambia, con strategie d’attacco non solo di difesa (più o meno assistenzialiste). Loro stessi ne sono consapevoli ma appaiono meno attrezzati a farlo rispetto ai loro coetanei del resto del mondo avanzato.

Più che denunciare ciò che non va, ci preme quindi dare un contributo all’elaborazione di un percorso in grado di superare i limiti strutturali e affrontare una realtà che è diversa rispetto a dieci anni fa e che sarà ancor più diversa tra dieci anni. Questo nella convinzione che le nuove generazioni siano la componente del paese che più ha da perdere da un approccio culturale che porta a subire i cambiamenti anziché cogliere le opportunità contenute in ciò che è nuovo (e a poterlo fare con atteggiamento e strumenti efficaci). Acquisire nuove competenze è quindi condizione necessaria per interpretare e mettersi in relazione con la realtà che cambia, per fornire un contributo qualificato alla crescita competitiva delle organizzazioni in cui operano e del paese in cui vivono. Non abbiamo un vero e proprio sistema educativo a rete come altri paesi, investiamo sulla formazione meno della media europea e quasi la metà della Germania.

E’ necessario quindi cambiare approccio partendo da un dato di fondo della società italiana. I soggetti sociali e istituzionali disponibili a una “alleanza” con i giovani scarseggiano, a differenza di ciò che avviene in altri paesi. Da noi il vincolo più forte, l’“alleanza” in grado di garantire sostegno e protezione, resta la famiglia. Purtroppo in un mondo sempre più complesso e in continuo mutamento l’aiuto di madri e padri è sempre meno efficace. Rischia inoltre – per eccesso di protezione – di rendere più fragili i figli e di perpetuare le diseguaglianze sociali, facendo dipendere il destino dei figli più dalle risorse economiche e culturali dai genitori che dall’investimento dei giovani su se stessi. Detto in altre parole, i giovani italiani per difendersi dai rischi si affidano soprattutto ai genitori, mentre per aumentare le proprie opportunità si rivolgono sempre più spesso altrove, magari guardando oltreconfine.

Le nuove generazioni appaiono oggi come un insieme di singoli, ognuno con propria tattica di difesa, anziché come forza sociale in grado di schierarsi in attacco per conquistare un futuro comune desiderato, più coerente con le proprie potenzialità e aspettative. Pensiamo anche solo al mercato del lavoro: divisi ci si può solo adattare ad accettare quello che viene offerto (e ci si troverà in competizione al ribasso), mentre come azione collettiva si può ottenere un cambiamento qualitativo dell’offerta (a vantaggio di tutti e della crescita del paese).

Non dimentichiamo che la maggioranza degli attuali studenti delle scuole secondarie e terziarie in età adulta svolgerà un lavoro che oggi ancora non esiste. Ciò significa che diventa sempre più necessario innovare in profondità organizzazione e linguaggio, mettendo in coerenza nuove sensibilità, nuove istanze e opportunità delle trasformazioni tecnologiche. Perché non pensare già oggi all’utilizzo della tecnologia per intercettare i giovani che non si identificano in una rappresentanza tradizionale anche in ragione dei mutamenti indotti nel lavoro proprio dal digitale?

E’ il caso dei tanti ragazzi impegnati (a volte intrappolati) nella sharing e nella gig economy, in quei lavori cioè che per loro natura non si prestano a essere incasellati sotto le consuete classificazioni giuridiche. E ancora: perché non sfruttare la Blockchain e gli smart contract per semplificare, sburocratizzare e rendere più produttiva la nostra economia? Altro dato caratterizzante della società italiana è il basso livello di fiducia nel gruppo dirigente italiano, nell’attuale classe politica mentre le ultime rilevazioni ci consegnano una risalita positiva delle organizzazioni sindacali. Più che la fiducia negli attuali sindacati, ad aumentare è soprattutto la consapevolezza che confidare nel solo aiuto della famiglia e che andare incontro in ordine sparso ai grandi cambiamenti di questo secolo non può essere una strategia vincente. Alta risulta pertanto, come evidenziano i dati di varie ricerche, la domanda sia di una politica di qualità sia di una rappresentanza collettiva convincente ed efficace. Ma ciò che funziona con i giovani non può cadere dall’alto, va con pazienza costruito insieme a loro dal basso, offrendo non solo partecipazione qualificata ma anche protagonismo, mix di impegno e responsabilità, possibilità di sperimentare con soggetti disposti a rimettersi in discussione.

La ridefinizione del rapporto tra sviluppo del paese e nuove generazioni non può che partire da un rinnovo della capacità di rappresentanza collettiva degli interessi delle nuove generazioni e del futuro collettivo. Attualmente quello che i giovani hanno più dei coetanei del resto d’Europa è l’aiuto privato dei propri genitori, e ciò li rende figli da proteggere il più a lungo possibile. Sostituire l’assistenzialismo dei genitori con uno di stato vorrebbe dire condannare il paese ad un declino irreversibile. Un ruolo diverso è possibile per le nuove generazioni italiane all’interno dei processi di cambiamento e produzione di benessere in questo secolo, ma ha bisogno di alleati sociali in grado essi stessi di ripensare in modo radicale, rifondativo e rigenerativo il proprio ruolo.

In collaborazione con Marco Bentivogli, Segretario generale Fim-Cisl

 

Generazione Zeta: un’incognita da decifrare

Valori, atteggiamenti, visione del mondo e del proprio ruolo in esso, emergono dopo gli anni della prima adolescenza, quando si lancia lo sguardo oltre le mura protettive della casa dei genitori. Si inizia a prendere in mano la propria vita, a pensare a scelte che mettono le basi del proprio futuro, a vivere e interpretare (senza mediazione delle agenzie di socializzazione primaria: famiglia e scuola) gli eventi del momento storico in cui si vive. E’ la fase che oggi sta attraversando, appunto, la Zeta, generazione che arriva dopo i Millennials.

Son (quasi) tutte vuote le culle d’Italia

Cosa c’è di nuovo nei dati sulla demografia italiana aggiornati al 2017 e di recente pubblicati dall’Istat? Nel 2013 siamo scesi a 513 mila nascite, che allora era il livello più basso della nostra storia nazionale. Ogni anno successivo siamo scivolati però ancora più in basso e questo vale anche per il 2017, che con 464 mila nati ci porta ancora una volta a dire: “mai così pochi dal 1861 a oggi”. Il prossimo anno riusciremo a fare ancora peggio o vedremo finalmente i segnali della ripresa post crisi stimolati e sorretti da adeguate politiche?