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Disinnescare le bombe. Terrore e giovani: nodo esplosivo

E’ evidente che siamo di fronte ad un mix di fattori che rende esplosiva la condizione di alcuni giovani nati in Europa da genitori provenienti da paesi di cultura islamica. La scelta di un ragazzo di morire facendo strage di coetanei, civili in festa, persino bambini, dopo che fino al giorno prima aveva frequentato quegli stessi luoghi, partecipato ad eventi simili, interagito disinvoltamente con le loro potenziali vittime, ci sconvolge. Ci sconvolge a tal punto che stiamo facendo il loro gioco, ma ancor più quello delle leadership del terrorismo che usano quei ragazzi per colpirci al cuore. Cosa vogliono da noi? Vogliono soprattutto indebolire le nostre convinzioni, farci rimettere in discussione le basi del nostro modello sociale e culturale. Vogliono che cambiamo, che reagiamo con rabbia, che ci chiudiamo e che diventiamo come loro. Vogliono che l’occidente sia spaventato da questi gesti, che si senta insicuro, che diventi vittima delle proprie paure. Perché sanno che non hanno la forza di vincere, ma possono indurci a fare errori fatali. In parte ci stanno riuscendo. Basta leggere quello che scriviamo sui social network. Basta vedere l’evidenza sui giornali e sui mass media, che sembra volutamente indirizzata a favorire l’emulazione e suscitare reazioni emotive. Se il loro obiettivo è ottenere un impatto mediatico, noi stiamo facendo di tutto per concederglielo. Se il loro obiettivo è destabilizzare politica e istituzioni, creare divisioni interne, non stanno certo mancando il bersaglio. Se un giovane su mille tra i figli di immigrati in condizione di disagio sociale, può essere sedotto dalla realizzazione di un gesto che nel contempo sia eclatante e faccia parlare di lui, che sia distruttivo verso il mondo che non lo accetta, che lo renda un martire agli occhi di dell’islamismo radicale, trova oggi un terreno fertile per dare i suoi frutti più avvelenati.

Le condizioni favorevoli sono molte. La crisi economica ha colpito soprattutto le nuove generazioni, ha inasprito le disuguaglianze e di conseguenza ha accentuato anche il senso di ingiustizia sociale. Questo effetto è amplificato dalla persistenza di una sovrapposizione tra diseguaglianze e diversità, che sta alla base anche delle rivolte degli afroamericani negli Stati Uniti. In Europa non è tanto l’immigrazione in sé a favorire queste dinamiche, ma le modalità della sua gestione rispetto alla possibilità di offrire vera integrazione. Una integrazione che riguarda le opportunità di formazione e lavoro, ma che si gioca prima ancora sul campo culturale. La sfida dell’immigrazione è complessa e delicata. Si può sia vincere che perdere. Nessuno ha una ricetta sicura, ma quel che è certo è che il nodo vero di questa sfida è incarnato nelle seconde generazioni. E’ dentro di loro che viene prima di tutto vissuta la convivenza o il conflitto tra culture diverse. Se tale confronto ha successo è un arricchimento, se fallisce produce una fragilità permanente che può interagire pericolosamente con il disagio sociale, con la sfiducia nelle istituzioni, con l’erosione delle prospettive future. Apre un vuoto di senso e di valore che i giovani di seconda generazione si trovano spesso ad affrontare da soli. E’ su questo snodo che alcuni di loro rischiano di perdersi, con la tentazione di trasformare la rinuncia ad un sogno nella volontà di lasciare un segno. Possono essere pochi, ma in grado oggi, in ordine sparso, di fare danni enormi, grazie anche alle nuove potenzialità del web e alla capacità dell’estremismo religioso di raggiungerli ovunque offrendo risposte semplici e definitive.

Rafforzare le misure di sicurezza va bene nell’immediato. Ma anziché cambiare il nostro modello sociale dovremmo con ancor più determinazione cercare di realizzarlo con pieno successo. Consentire ai giovani di non trovarsi intrappolati in condizione di insignificanza è, in particolare, la migliore azione che possiamo fare per disinnescare le bombe con le quali il terrorismo vuole minare il nostro futuro.

L’insicurezza non deve condizionare le nostre vite

Viviamo in un tempo di grande instabilità e insicurezza. I fatti nazionali e internazionali di questo periodo ce ne sta dando ampia conferma. Nessuno fino a qualche settimana fa poteva immaginare il colpo e il contraccolpo di stato in Turchia. Ancor prima, grande impressione ha destato la sequenza di eventi di cui sono state vittime nostri connazionali. All’inizio di questo mese a Dacca sono stati uccisi in modo efferato nove italiani che si trovavano all’estero per lavoro. La vita di altri sei, serenamente in vacanza a Nizza, è stata improvvisamente travolta e spezzata dalla furia omicida di un terrorista squilibrato. In mezzo a tali due eventi l’incidente ferroviario in Puglia nel quale – per una inaccettabile combinazione di errori umani, inefficienze burocratiche e arretratezza tecnologica – hanno perso la vita ventitre persone.

Perché scommettere sui giovani e sulle donne

Come ogni anno, lo scorso 11 luglio si è celebra la Giornata Mondiale della Popolazione. Nelle diverse aree del pianeta questa celebrazione assume significati diversi perché, pur essendo la Terra sempre più una casa comune, diverse sono le sfide che la demografia pone a benessere, sviluppo, rapporto con l’ambiente. Per tutti è comunque l’occasione per riflettere su quanto piccoli siamo individualmente e quanto grandi sono le sfide che dobbiamo affrontare collettivamente. Non siamo mai stati così tanti, eppure oggi a Milano si vive, mediamente, molto meglio rispetto all’epoca di Sant’Ambrogio o a quella di Manzoni. Ma vale anche per altre aree del mondo? Complessivamente sì: mentre nel 1800 un bambino che avesse voluto scegliersi la nazione in cui nascere non ne avrebbe trovata nessuna con aspettativa di vita superiore ai 40 anni, oggi anche nel più sfortunato dei Paesi non si scende sotto i 50 anni. Stiamo meglio e viviamo di più, ma sono aumentate anche le diseguaglianze. Tra il Giappone e la Sierra Leone ci sono 33 anni di vita di differenza.

Vivere a lungo, vivere bene: la sfida della longevità al welfare

All’epoca del primo censimento italiano, condotto nel 1861, la durata media di vita superava di poco i 30 anni. Elevatissima era la mortalità infantile, che arrivava a decurtare un nuovo nato su quattro entro il primo compleanno. Molto contenuto era il numero di persone che arrivavano in età anziana e chi vi giungeva si trovava generalmente in uno stato di salute molto precario. Queste condizioni sono state una costante della storia dell’umanità dal Neolitico fino a circa un secolo e mezzo fa.Poi, ad un certo punto, è iniziato un processo inedito e unico, la “Transizione demografica” che ha progressivamente allungato la durata di vita della nostra specie. Dopo la riduzione dei rischi di morte nelle età infantili e adulte, a partire dagli anni Settanta i guadagni di vita si sono sempre più concentrati in età anziana.

L’Italia, soprattutto nel secondo dopoguerra, è diventata uno dei Paesi che hanno fatto maggiori progressi in questa direzione. Fuori dall’Europa, solo il Giappone presenta una aspettativa di vita maggiore. All’Unione europea, solo la Spagna presenta valori superiori ai nostri sul lato sia maschile che femminile. La Svezia si trova invece su posizioni più favorevoli dal lato maschile e la Francia su quello femminile. Secondo il Demographic Report 2015 dell’Unione europea, la speranza di vita degli uomini, arrivata a superare gli 80 anni, si trova di oltre due anni sopra la media Ue28, mentre il corrispondente valore femminile, arrivato attorno agli 85, è superiore di oltre 1,5 rispetto al resto dell’Unione. Nel 2015 si è osservata una leggera flessione – dovuta ad un picco di mortalità in età anziana in corrispondenza dei mesi invernali ed estivi in tale anno – che segnala, come torneremo a dire più avanti, la necessità di una maggiore attenzione verso la crescita quantitativa della componente fragile prodotta dall’invecchiamento della popolazione.

Al di là di questo recentissimo dato, il percorso degli ultimi decenni è stato più favorevole rispetto alle previsioni. I valori italiani erano rispettivamente pari a 69,4 (maschi) e 75,8 (femmine) nel 1975: questo significa che ogni anno vissuto la vita si è allungata di circa ulteriori 3 mesi. Sempre nel 1975 a 65 anni vi arrivava il 71,6% dei maschi e raggiunta tale età l’aspettativa ulteriore di vita era di 13,1 anni. Ora vi arriva l’88,3% con una prospettiva di altri 18,8 anni (dato Istat del 2014). La probabilità di chi è arrivato a 65 anni di vivere altri 20 anni era del 19,4% (ovvero solo uno su cinque riusciva a passare indenne dai 65 agli 85 anni), mentre è oggi vicina al 50%.

Articolo scritto con Extra Moenia.

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Perché dobbiamo preoccuparci della crisi demografica

Per cinque milioni in più. O in meno

Stiamo forse uscendo dalla crisi economica, ma non da quella demografica. Al primo gennaio 2016 i residenti nel nostro paese risultano essere 60 milioni 665mila, con una perdita di 142mila abitanti rispetto a inizio 2015, secondo i dati del Bilancio demografico Istat.
Dopo una lunga fase di crescita, ora siamo ufficialmente in declino. Dobbiamo preoccuparcene? La risposta è sì, non tanto per il semplice fatto di essere in calo, ma per ciò che sta alla base della diminuzione e per le implicazioni che produce.
Modifichiamo allora la domanda: se anziché poco più di 60 milioni, fossimo 55 milioni oppure 65 milioni cosa cambierebbe? Le ultime due cifre non sono indicate a caso. Corrispondono alla popolazione che approssimativamente avremmo oggi in due diverse ipotesi: la prima se non si fossero verificate le immigrazioni consistenti dagli anni Ottanta in poi; la seconda se avessimo seguito un percorso di sostegno alle nascite simile alla Francia.
Cinque milioni in più o in meno di per sé non sembrano dirci molto sulla possibilità di vivere meglio o peggio in questo paese nei prossimi anni e decenni. In realtà dipende da dove si mettono o si tolgono questi abitanti. E allora è bene tener presente che nel declino sono soprattutto i giovani che perdiamo, come si può vedere in figura 1. In particolare, il divario delle curve tra l’Italia complessiva e quella senza stranieri, ci dice che l’immigrazione negli ultimi decenni non ha per nulla inciso sulla popolazione tardo adulta e anziana, ha invece contribuito a compensare, seppur solo in parte, la riduzione dei giovani e dei giovani-adulti italiani. Detto in altre parole, potremmo essere oggi 5 milioni in meno se non ci fosse stata l’immigrazione, con conseguenti maggiori squilibri nel rapporto tra generazioni a svantaggio della popolazione potenzialmente più attiva e produttiva.
Il divario delle curve tra Francia e Italia è invece utile per capire come la nostra maggiore denatalità abbia prodotto una erosione dal basso, rendendo via via sempre meno consistenti le nuove generazioni. I due paesi hanno, infatti, un numero non dissimile di residenti dai 40 anni in poi. La differenza diventa rilevante sui trentenni e si allarga in modo esorbitante nelle età ancora più giovani. Non aver fatto negli ultimi trent’anni il numero di figli realizzato dai francesi ci porta oggi ad avere oltre 5 milioni di abitanti in meno, ma con una perdita tutta concentrata, di nuovo, sulla popolazione potenzialmente più attiva e produttiva.

Come combattere il “degiovanimento”

Il declino demografico non è quindi solo una questione di calo della popolazione, ma ancor più di squilibri tra generazioni con le implicazioni sociali ed economiche che ne derivano. Il dato negativo del 2015 ci dice che il “degiovanimento” (riduzione dei giovani) è addirittura più forte dell’invecchiamento (aumento degli anziani): ovvero perdiamo più giovani di quanti anziani guadagniamo.

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