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Ius soli, un libro svela i falsi miti sulla riforma della cittadinanza

IL DISEGNO di legge che propone una revisione dei criteri di acquisizione della cittadinanza ha un principale ostinato avversario: la disinformazione. Il cosiddetto “Ddl Ius Soli” (“Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza”) dopo esser partito due anni fa con una larga maggioranza alla Camera, ha trovato successivamente un percorso irto di crescenti ostacoli.

· GLI OSTACOLI ALLA LEGGE
Questo indebolimento del processo di approvazione può essere imputato sostanzialmente a due ordini di motivi. Il primo ha in parte alla base le stesse cause del fallimento del Referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, ovvero la mancanza di un dibattito pubblico che precede le proposte, ne chiarisce termini e obiettivi, favorisce informazione, consapevolezza e partecipazione alle decisioni pubbliche sul futuro del paese. Le “proposte-imposte” (dall’alto) non funzionano più, su tutto l’elettorato e tantomeno sulle nuove generazioni. La combinazione tra complessità dei cambiamenti, bassa fiducia nelle istituzioni, in un clima sociale ed economico problematico, espone i cittadini a reazioni di chiusura e diffidenza, facilmente cavalcabili dalle forze di opposizione.

Il secondo ordine di motivi risiede nel crescente contesto di ostilità nei confronti dell’immigrazione, in tutta Europa, alimentato dall’ondata di rifugiati e dagli attentati terroristici. La proposta di riforma della cittadinanza è così scivolata all’interno di un ingranaggio perverso che ha tritolato le reali ragioni e l’ha resa ostaggio della battaglia politico-elettorale.

· L’EBOOK (QUI LA VERSIONE INTEGRALE)
L’ebook prodotto da Neodemos, presentato al Senato, ha come obiettivo quello di cercare di riportare il dibattitto fuori dallo scontro elettorale ed inserire la proposta all’interno della lettura delle trasformazioni demografiche del Paese e delle scelte per rafforzare la qualità del futuro comune. Il dossier contiene vari contributi di studiosi con posizioni diverse, ma fornisce nel complesso una risposta ad almeno cinque false convinzioni su obiettivi, contenuti e implicazioni della legge proposta. Proviamo a riassumerle rinviando poi all’ebook stesso i lettori interessati ad approfondire.

· DISSIPARE I DUBBI
La proposta di legge porta ad un aumento dell’immigrazione nel nostro Paese? Non c’è nessun motivo per pensarlo. Attualmente chi nasce in Italia deve aspettare il diciottesimo compleanno, con una procedura tra l’altro farraginosa, per poter chiedere la cittadinanza. Quello che la riforma propone è, per chi è residente qui fin dalla nascita, di poter anticipare l’acquisizione in età più giovane, in una fase in cui stiamo investendo sulla formazione del suo capitale umano all’interno delle nostre scuole. Al di là dell’emergenza profughi va considerato che il numero di residenti stranieri, nascite comprese, ha visto frenare la propria crescita negli ultimi anni. L’incidenza sulla popolazione totale italiana è ferma poco sopra l’8 percento e la fecondità è scesa sotto i due figli per donna.

La riforma assegna la cittadinanza in modo automatico? Questa falsa convinzione è forse dovuta anche all’improprio nome di “Ius soli” dato alla proposta di legge. Gli Stati Uniti sono un esempio effettivo di “ius soli”, ovvero di cittadinanza che si ottiene nascendo sul suolo del Paese. La riforma di cui si discute invece non ha nulla di automatico. Per chi nasce in Italia è richiesto che i genitori possiedano un permesso di lunga durata: quindi regolari e stabilizzati da almeno 5 anni (secondo l’Istat sono 416 mila i minori stranieri non UE nati in Italia con un genitore avente permesso di lunga durata). Per chi non rientra in tale casistica l’acquisizione può avvenire attraverso lo ius culturae (o meglio ius scholae), ovvero condizionatamente ad un percorso formativo che consenta una buona conoscenza della lingua italiana, della cultura, della storia, delle istituzioni (una platea di circa 80 mila ragazzi come precisato nel dossier).

Ma è possibile una effettiva integrazione dei figli degli immigrati? Nel dibattito pubblico è presente anche la posizione di chi pensa che con la cittadinanza si aprirebbero le porte a giovani fortemente condizionati da valori del contesto familiare poco compatibili con quelli occidentali. Secondo questa posizione alcune tipologie di figli di immigrati non sarebbero integrabili. In realtà, come molti studi dimostrano, la grande maggioranza di tali giovani, soprattutto se qui fin dalla nascita o in età molto giovane, tende a sentirsi italiana o a sviluppare una appartenenza multipla positivamente a cavallo tra le due culture e che tende a convergere verso la cultura del paese in cui si vive. Per gli altri, l’adozione dei valori del paese ospitante è un percorso legato anche alle possibilità di inclusione e allo sviluppo del senso di appartenenza. Dato che si tratta di giovani che sono già nelle nostre scuole perché dare per scontato che non possano integrarsi?

È una proposta che nasce per aumentare i voti a favore delle forze attualmente di governo? Come abbiamo già detto non si tratta di ottenere nuovi elettori visto che comunque la legge si rivolge a minorenni che in ogni caso dopo i 18 anni avrebbero potuto richiedere la cittadinanza. L’orientamento al voto degli immigrati stessi, dei loro figli e dei giovani in generale non è mai scontato e dipende volta per volta da valutazioni che riguardano non tanto la cittadinanza ma le opportunità di una vita di qualità nel paese in cui si vive, analogamente agli altri cittadini. Chi ha invece possibilità di ottenere strumentalmente un vantaggio immediato elettorale, sui cittadini italiani, è, al contrario, chi si oppone alla legge soffiando su timori e paure.

Infine, una obiezione mette in luce il fatto che la riforma potrebbe avere conseguenze negative sulle famiglie stesse di immigrati che si troverebbero con figli cittadini italiani e genitori senza cittadinanza. A ben vedere però questo è un aspetto positivo in un paese che troppo spesso vincola il destino dei figli alle caratteristiche dei genitori.

· PENSARE AI DIRITTI
Pensare a leggi – non solo sulla cittadinanza – che assegnino diritti propri, impegni, responsabilità ai giovani stessi è esattamente quello di cui questo paese ha bisogno per costruire un futuro in cui chi è nuovo può portare anche nuovo valore.

Il necessario antidoto. Politica deludente, giovani in difesa

Le elezioni mettono i cittadini davanti a due scelte. La prima è se partecipare o meno al voto. La seconda, nel caso si decida di recarsi al seggio, è la scelta della preferenza da attribuire ai vari simboli proposti sulla scheda e, quando si può e purtroppo non sempre si può, alle persone candidate in quella stessa lista. Se cresce la sfiducia verso la capacità della politica di migliorare il contesto in cui si vive e nel gestire positivamente i cambiamenti in corso, tendono ad aumentare sia l’astensione sia il voto “contro”. Ecco allora che al secondo turno delle amministrative di domenica più di un avente diritto su due ha deciso di non contribuire a determinare l’esito del ballottaggio nella propria città. Un chiaro segnale della bassa convinzione di tanti cittadini verso un’offerta politica che li scaccia da sé e dalla partecipazione.

Vecchi contro giovani

Nel 2017 la popolazione del mondo sarà un po’ più anziana rispetto al 2016 e molto più invecchiata rispetto al secolo precedente. L’Italia è, come ben noto, uno dei Paesi più squilibrati dal punto di vista demografico. In particolare, i ventenni italiani risultano nettamente di meno non solo dei cinquantenni, ma anche dei sessantenni e sono destinati a scendere sotto anche ai settantenni. Sempre di più, quindi, nelle decisioni collettive si farà sentire il peso dei più anziani – non più pochi come in passato e non necessariamente saggi – mentre sempre più debole sarà la spinta quantitativa dei giovani.

I giovani possono amare l’Unione solo se la conoscono e la vivono

L’uscita delle Gran Bretagna dall’Europa impone riflessioni che vanno oltre le ragioni e le conseguenze immediate di un sì o un no su una scheda referendaria. Brexit va considerato prima di tutto il riscontro di quanto il progetto europeo sia diventato debole e non pienamente convincente. A sua volta tale risultato può indebolire ancor più il percorso di integrazione e farlo implodere. E’ però anche possibile che inneschi una reazione positiva, in grado di produrre un rinsaldamento nell’immediato e metta le basi per un rilancio nel medio e lungo periodo. La possibilità che questo avvenga realmente è bassa ma non ci sono alternative e va quindi non solo auspicata ma favorita ad ogni livello. Gli attori principali per un salto qualitativo – dopo il processo di allargamento quantitativo che ha portato ad estendere ad est perdendo però ora ad ovest – sono due: le istituzioni e le nuove generazioni. Di fatto significa spingere verso l’alto il rapporto tra domanda e offerta di una migliore Europa, la prima riferita soprattutto ai giovani e la seconda alla politica.

Le generazioni che hanno subito la guerra mondiale e quelle successive che hanno vissuto il clima della guerra fredda si sono riconosciute in un desiderio di Europa diversa dal passato, che al suo interno non si sentisse divisa tra parti ostili. Oggi tale spinta si è esaurita e più che ridurre il rischio di conflitto interno serve ora un processo di vera comunione. Questo significa superare non solo i confini geografici tra popoli ma anche le barriere mentali che li separano tra di loro e che li rendono vittime delle proprie paure. Per un’Europa così si sarebbe un posto di primo piano nel mondo, mentre i singoli paesi sono destinati a smarrirsi andando da soli verso il futuro. Nel 1950 ben tre delle cinque città più popolate al mondo stavano in Europa, ora nessuna metropoli di questo continente è tra le prime quindici nel pianeta. Nello stesso lasso di tempo l’Italia è scesa dal decimo posto al ventitreesimo posto tra i paesi demograficamente più consistenti. Nel 2050 nessun paese europeo sarà tra i primi venti, nemmeno la Germania, attualmente il più popoloso ma in sensibile sofferenza demografica. Se però l’Europa fosse uno Stato verrebbe superata, come abitanti, solo da Cina e India.

Per ottenere un’Europa più forte nel mondo non basta però sommare nazioni diverse e nemmeno è sufficiente porsi regole e vincoli per stare assieme come famiglie di uno stesso condominio (peraltro composte da anziani o coppie con un solo figlio). Sono due le sfide principali che un rilancio del progetto europeo deve allora porsi e vincere: quella demografica e quella culturale, in parte intrecciate tra di loro. L’investimento quantitativo e qualitativo sulle nuove generazioni è cruciale per qualsiasi realtà sociale, economica, politica che voglia aprirsi alla produzione di nuovo benessere e non chiudersi a difesa di vecchie sicurezze. Ma allo stesso tempo è difficile che le coppie abbiano figli, che i giovani siano incoraggiati ad essere attivi e intraprendenti, che l’accoglienza di immigrati si inserisca in un contesto favorevole, se non ci si sente parte di un processo di crescita culturale comune, con valori solidi e condivisi alla base e la visione di un futuro desiderabile da raggiungere. Che le generazioni più mature abbiano perso le ragioni iniziali del progetto europeo è ben rappresentato dal voto degli over 65 al referendum inglese, caratterizzato da alta partecipazione ma con orientamento spiccato verso il Leave. Che le nuove generazioni non si sentano pienamente coinvolte in un processo di crescita comune è ben espresso dalla forte astensione degli under 25. Se un rilancio è possibile non può però che far soprattutto leva sui più giovani. Come mostrano i dati del “Rapporto giovani” dell’istituto Toniolo, il loro atteggiamento nei confronti dell’Europa è ambivalente. Da un lato sono molti critici: quelli con titoli di istruzione più bassi soprattutto per come è stata gestita la crisi economica, per la difficoltà a proteggere le fasce più deboli, per i timori verso l’immigrazione, per la crescita di insicurezze economiche e sociali; quelli con titoli più alti soprattutto per una “delusione da attese”. D’altro lato, si riconoscono nella combinazione unica di cultura, libertà e valore della persona, intravedono le potenzialità di un salto di qualità verso gli Stati Uniti d’Europa e considerano una conquista irrinunciabile la possibilità di muoversi liberamente senza confini. Questi aspetti positivi sono ampiamente condivisi ma prevalgono, sui punti critici sopra elencati, soprattutto in chi ha capitale umano elevato e ha svolto periodi di studio o lavoro in altri paesi.

Questi dati suggeriscono la necessità di rafforzare la qualità di domanda di Europa favorendo nelle nuove generazioni processi di aumento dei livelli di formazione; migliorando la conoscenza specifica delle istituzioni europee; potenziando la possibilità di fare esperienze (in età molto giovane e con particolare attenzione per chi proviene da classi sociali basse) di crescita personale, confronto culturale, impegno civile in ambito internazionale.

Serve però, allo stesso tempo, un miglioramento dell’offerta di Europa, più in sintonia con le esigenze e le sensibilità specifiche delle nuove generazioni. Per andare in questa direzione abbiamo bisogno di istituzioni con maggior capacità di visione: in grado di favorire – all’interno – la creazione di un modello di sviluppo che sappia coniugare innovazione e inclusione sociale, ma in grado anche di esprimere – all’esterno – una posizione comune e incisiva sulle grandi questioni internazionali.

Al di là del voto inglese e dei suoi esiti, è dalle nuove generazioni e dalla loro Europa desiderata e partecipata che bisogna in ogni caso ripartire. Sempre che, anziché rassegnarsi alla disgregazione, ci sia l’effettiva volontà di scommettere su un vero progetto di rilancio.

L’assessorato trasversale che manca

Mentre il Regno Unito stenta a riprendersi da Brexit, la Spagna vive l’incertezza di un ritorno al voto non risolutivo, in Italia scende la fiducia di imprese e consumatori, Roma è ancora senza giunta, a Milano si respira aria di tranquillità e in tempi brevi è già al lavoro la squadra del nuovo sindaco. L’impressione, guardando la composizione, è quella di un giusto mix tra continuità e rinnovo con competenze solide, che riflette anche un mix di presenza di politici, ancorata alle preferenze ottenute, e di apertura a tecnici di qualità. Non manca, inoltre, il mix giusto generazionale e di genere. Insomma, una giunta Mi che porta con sé una x tutta da scoprire nei prossimi cinque anni, ma che sembra partire con buoni auspici.