Rimettere in gioco i giovani NEET

Il tasso di NEET (sigla che indica i giovani “Not in Education, Employment or Training”) è stato adottato dall’Unione europea a partire dal 2010 come l’indicatore meglio in grado di misurare quanto un paese “spreca” la sua risorsa giovani. Dopo l’impatto della Grande recessione l’Italia ha consolidato ulteriormente il suo posizionamento sui livelli peggiori in Europa e la crisi sanitaria causata da Covid-19 ha ulteriormente aggravato la condizione dei giovani.

Se si considera la fascia 20-34 anni, i valori più bassi si trovano in Olanda (sotto l’8 percento) e i più alti in Italia (quasi il 30 percento). All’interno del nostro paese l’incidenza è molto differenziata, ma anche le regioni del Nord Italia si trovano sopra la media Ue.

I dati del Rapporto 2022 dell’Istituto Toniolo evidenziano come il Piano di investimento Next Generation Eu sia stato accolto con ampio favore dagli under 35 italiani, ma mostrano anche come rimanga in sospeso il giudizio su come le risorse verranno utilizzate. Molto dipenderà da quanto le proposte inserite nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dimostreranno di mettere le basi di una nuova solida fase di sviluppo che metta al centro le competenze delle nuove generazioni e la loro valorizzazione ne i processi produttivi. L’obiettivo è far ripartire l’economia dopo la discontinuità della pandemia, ma favorendo processi che promuovano occupazione di qualità in sintonia con le grandi trasformazioni in atto, in particolare sul fronte della transizione verde e digitale.

Una delle maggiori misure inserite nel Piano è il potenziamento delle politiche attive del lavoro, come previsto nella Missione 5. Vi rientra il programma GOL (Garanzia occupabilità dei lavoratori), il varo di un Piano per le nuove competenze, il rafforzamento del sistema duale. Nel Piano nazionale di emersione e orientamento dei giovani in condizione di Neet (“Neet Working”) firmato dalla Ministra per le Politiche giovanili, Fabiana Dadone, e dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Andrea Orlando, si sottolinea “l’obiettivo di compiere una valutazione del soggetto e delle competenze possedute, avviare percorsi di aggiornamento e di riqualificazione laddove necessario, e procedere infine – o in contemporanea attraverso strumenti di formazione duale – all’inserimento lavorativo”. Serve, a tal fine, la formazione di competenze specifiche in tali servizi per interagire con i giovani e saper riconoscere le problematicità dei Neet (anche nella dimensione psicologico-emotiva), per poi offrire un accompagnamento personalizzato e mirato verso le opportunità di formazione e lavoro su territorio. In tale funzione è previsto uno «sportello giovani» in tutti i Centri per l’impiego.

Molto del successo dipende dall’integrazione con le politiche attive sul territorio, favorendo la cooperazione tra pubblico, privato e rete sociale. Punti indicati di particolare attenzione sono la programmazione orientata al risultato e il monitoraggio continuo e capillare.

Le prestazioni di GOL vanno garantite in tutti i Centri per l’impiego, con particolare attenzione all’ingresso nel mondo produttivo ma anche con una offerta integrata in grado di rispondere alle transizioni interne al mercato del lavoro in tutte le fasi di una lunga vita attiva.

L’esperienza di “Garanzia giovani”, assieme a molte altre iniziative in Italia ed Europa, ha però anche mostrato che senza specifiche strategie di intercettazione (“outreach”) i giovani che hanno più bisogno di programmi di riattivazione rimangono fuori dal radar delle politiche pubbliche. Si tratta dei giovani più vulnerabili e scoraggiati. Quelli con supporto familiare debole, formazione inadeguata, esperienze assenti o negative con il mondo del lavoro, bassa fiducia nelle istituzioni. Non ci si può aspettare che siano tali giovani a rivolgersi ad un portale nazionale o a sportelli pubblici: è necessario quindi individuarli e intercettarli, spesso in combinazione con proposte di grado di catturare la loro attenzione (non solo come push, ovvero “ti aiuto a tirati fuori da una condizione negativa” (che molti non percepiscono in modo chiaro come tale), ma soprattutto pull, ovvero con offerte attrattive che li aiutano ad inserirsi in percorsi virtuosi di miglioramento desiderato della propria condizione, rimettendo in connessione positiva imparare e fare).

Le prospettive più interessanti in questa direzione, come mostrano le migliori esperienze europee, sono quelle che passano attraverso un rafforzamento degli strumenti di prossimità territoriale tramite una attivazione sistemica del rapporto tra istituzioni locali e partenariato sociale.

Un ruolo centrale possono averlo gli «Informagiovani» dei comuni con un salto di qualità rispetto alle funzioni sinora avute, per diventare solido punto di riferimento di una rete ampia di realtà che operano sul territorio e di coordinamento delle iniziative locali che interessano e coinvolgono i giovani stessi, con il fine di aumentare la capacità di intercettazione e ingaggio dei Neet.

Sempre in questa prospettiva va favorita una continua interazione, condivisione di informazioni e di iniziative integrate tra Centri per l’impiego, scuole, Informagiovani (e la rete sociale coordinata), sia tra esse che in relazione con aziende sul territorio. Si tratta infatti di interlocutori cruciali per una transizione scuola-lavoro di successo di cui beneficia poi tutto il territorio. Assieme a questo va reso sistemico anche lo scambio di buone pratiche e reso strutturale il processo di monitoraggio e valutazione di impatto. In particolare ogni programma per i giovani deve misurare il miglioramento dei beneficiari su insieme di competenze predefinite (tecniche, sociali, di cittadinanza).

Alla base di tutto questo è però necessario che si consolidi un cambio di atteggiamento culturale rispetto al riconoscimento del ruolo nuove generazioni nei processi di sviluppo sostenibile e inclusivo, con attenzione alle loro specifiche potenzialità e aspettative. È soprattutto necessario un cambiamento di strategia: non costringere i giovani ad adattarsi al ribasso a quello che il mercato offre, ma consentire all’economia di crescere e generare benessere facendo leva sul meglio di quanto le nuove generazioni possono dare (quando preparate e incoraggiate adeguatamente).

Coerentemente con questo va ribaltata la prospettiva di lettura della relazione tra nuove generazioni e crescita economica: non sono tanto i giovani che hanno bisogno di lavoro, ma il lavoro che ha bisogno del contributo solido e qualificato elle nuove generazioni per diventare vero motore di sviluppo e competitività. Oltre a rafforzare i percorsi formativi e migliorare gli strumenti delle politiche attive, è, allora, necessario mettersi in relazione positiva con l’idea stessa di lavoro che cambia assieme alle nuove generazioni.

Squilibri demografici: pericolo considerarli inevitabili

L’Italia è un paese che da troppo tempo sottovaluta il ruolo della demografia con la conseguenza di trovarsi con squilibri strutturali interni tra i peggiori al mondo. Lo stesso Piano di ripresa e resilienza non mette la transizione demografica tra le sfide strategiche che caratterizzano il nostro paese. Questo significa che l’Italia non ha un piano per contenere gli squilibri demografici con obiettivi predefiniti da monitorare. L’approccio prevalente è quello di cercare di gestirne le conseguenze, si tratti dell’aumento della popolazione anziana o della diminuzione della popolazione scolastica.

Nel portale “Italia domani”, anche quando si fa riferimento a misure importanti sul versante delle politiche familiari, come il “Piano asili nido”, si afferma che l’obiettivo è quello di migliorare l’offerta educativa fin dalla prima infanzia e incoraggiare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro conciliando vita familiare e professione. Viene insomma esplicitata l’idea che grazie ai nidi le donne con figli possono maggiormente anche lavorare, ma non viene preso in considerazione il fatto che le persone che lavorano possono essere messe nelle migliori condizioni per avere figli. Ma per agire con successo su questo secondo fronte non bastano i nidi, servono misure più ampie e sistemiche che consentano a uomini e donne di poter migliorare il proprio benessere lavorativo e la propria produttività con l’esperienza della nascita di un figlio. Nel PNRR questo è riconosciuto solo indirettamente attraverso un rinvio alle azioni del Family act, diventato legge il 7 aprile scorso. Eppure una sensibilità verso il tema esiste nel Governo. Più che nel testo stesso del PNRR se ne trova riscontro nella presentazione effettuata dal Presidente Mario Draghi alla Camera il 26 aprile 2021. In particolare dove si riconosce che: “un Piano che guarda alle prossime generazioni deve riconoscere la nostra realtà demografica. Siamo uno dei paesi con la più bassa fecondità in Europa quasi meno di 1,3 figli per ciascuna donna contro quasi 1,6 della media Ue”.

La mancanza di una strategia chiara sulla questione demografica tende a portare ad una preoccupazione senza corrispondente linea d’azione su come invertire la tendenza. Tanto più che nel PNRR manca anche il ruolo strategico da assegnare ai flussi migratori. E’ invece proprio dalla combinazione tra immigrazione e politiche specifiche a supporto della natalità, come mostra il caso della Germania, che gli squilibri possono essere ridotti e si può evitare che nel medio e lungo periodo diventano insostenibili.

La presa implicita d’atto che non ci sarà una inversione di tendenza è implicitamente presente nelle valutazioni del Governo sull’evoluzione della popolazione scolastica rese note in questi giorni, assieme alle conseguenze tratte sul ridimensionamento dell’organico necessario di docenti. Il legame stabilito tra andamento delle nascite e riduzione degli insegnanti ha alla base l’idea declinista e presentista che la demografia negativa sia un’opportunità per poter risparmiare sulle nuove generazioni e continuare a destinare risorse dove ottenere oggi maggior consenso. Ha fatto bene il Ministro Bianchi a precisare recentemente, in occasione della presentazione della Unesco Chair on Urban Health a La Sapienza, che “le risorse che ci sono per la scuola devono rimanere sulla scuola” e che “bisogna ridurre il numero delle classi e aumentarne la qualità”.

Oltre però a chiarire come il Paese intende interpretare il rapporto tra quantità di studenti e investimento sulla qualità della loro formazione, c’è un ulteriore punto che va chiarito, quello di come si valuta il fabbisogno dei prossimi anni. Il dato di base è il numero di bambini e ragazzi che ci saranno in Italia nell’orizzonte dei prossimi dieci, quindici, vent’anni. Tale dato viene usualmente tratto dalle proiezioni Istat e in particolare dallo scenario mediano. Quello più recente è fornito dalle previsioni con base 2020 pubblicate alla fine dello scorso anno.

Va allora precisato che assumere tale scenario non contempla una ripresa delle nascite. Si basa, infatti, su ipotesi di un aumento modesto del numero medio di figli per donna non in grado di controbilanciare la riduzione delle donne in età riproduttiva. Assumere questo scenario come riferimento per le scelte che il Governo deve prendere per governare il percorso di sviluppo dei prossimi dieci anni, significa, pertanto, dare per scontato la gestione di squilibri demografici crescenti e non invece favorirne anche il contenimento.

In generale, non dobbiamo considerare la demografia come un fattore esogeno che ci condanna ad un destino ineluttabile al quale adattarci con misure in difesa e al ribasso. Nell’incertezza sul futuro sta il margine della nostra azione. Gli scenari prodotti dalle previsioni servono ad anticipare le conseguenze delle trasformazioni in corso e a capire quali scelte fare oggi per orientare il percorso più favorevole e collettivamente auspicato. Più che ad allinearsi allo scenario mediano il Governo dovrebbe indirizzare le sue misure a favore della realizzazione dello scenario alto. Altrimenti continueremo a rendere la denatalità una profezia che si autoadempie.

Del resto, se guardiamo alla storia delle previsioni precedenti, dallo scenario mediano la realtà osservata si è sempre tenuta ad una certa distanza nel nostro Paese. Nel primo decennio di questo secolo lo scostamento è stato positivo, con la fecondità del Nord Italia che ha avuto dinamiche più favorevoli rispetto alle attese, arrivando in modo inedito a superare quella meridionale. Nel secondo decennio è stato, invece, fortemente negativo – anche a causa dell’impatto della Grande recessione – con un crollo tale da portare nel 2019 le nascite ad essere circa 100 mila in meno rispetto allo scenario centrale proposto dalle proiezioni Istat con base 2011.

Paradossalmente, se c’è uno scenario che l’esperienza passata ha mostrato essere più ostico a realizzarsi è proprio quello mediano. Guardando al dato del 2021, il numero medio di figli per donna effettivamente osservato è stimato pari a 1,25, in linea più con quanto previsto nello scenario alto (limite superiore dell’intervallo di incertezza contemplato dall’Istat) che a quello mediano. Una spinta positiva, quindi, si intravede, ma nulla è scontato nel percorso dei prossimi anni.

Se guardiamo alla popolazione del 2034 e facciamo riferimento alla fascia di età 0-12, quella che dipende strettamente dalle dinamiche delle future nascite, dai circa 6,3 milioni attuali lo scenario mediano contempla una discesa a 5,4 milioni mentre quello alto a 5,9 milioni. La perdita risulterebbe, in questo secondo caso, più che dimezzata. Ovviamente più si va avanti nel tempo e più l’inversione di tendenza andrebbe a pesare, non tanto facendo aumentare le nuove generazioni ma quantomeno contenendo la loro riduzione.

La domanda da porsi è quindi: quale tra i futuri possibili vogliamo e cosa possiamo fare ora per realizzarlo?

NASCITE, ULTIMA CHIAMATA

“Si può fare!”. E’ ancora possibile fare la differenza prima che la finestra di opportunità si chiuda. Se nulla dovesse cambiare rispetto alle dinamiche degli ultimi decenni, il divario tra nascite e decessi andrebbe ad allargarsi, come un’emorragia che diventa sempre più difficile tamponare. Il rapporto tra popolazione anziana e popolazione in età attiva andrebbe a indebolirsi irreversibilmente, come un edificio soggetto a progressivo indebolimento dei muri portanti che rischia il cedimento strutturale. Pensare di intervenire sugli squilibri demografici italiani solo gestendo le conseguenze, sarebbe come intervenire su un tale edificio con operazioni di restauro e risanamento conservativo senza prevedere opere di manutenzione straordinaria.

Il fatto di trovarsi in un momento in cui si deve decidere se gestire la decadenza o provare a rigenerare strutturalmente il paese, emerge in modo molto chiaro dalle previsioni Istat. Prima dell’ultima edizione, lo scenario mediano (quello preso come riferimento e considerato più plausibile) delineava un percorso di ripresa delle nascite tale da contenere squilibri insostenibili nel medio-lungo periodo. L’ultimo esercizio previsivo, invece, di fatto adotta come scenario mediano lo scenario peggiore delle edizioni scorse ed equivale alla condanna a un percorso senza possibilità di risollevarsi. Forse questo non è abbastanza chiaro all’interno del dibattito pubblico del nostro paese. E’ come se un medico ci avesse detto che – data la nostra resistenza passata a mettere in atto comportamenti più sani e virtuosi – ci troviamo ora con una malattia che rischia di cronicizzarsi definitivamente, ovvero di portare ad una condizione sempre più invalidante che compromette dinamismo, vitalità, condizioni di benessere. Gli squilibri demografici tendono, poi, ad essere strettamente interdipendenti con la questione del lavoro e a intrecciarsi con le diseguaglianze generazionali, di genere, sociali e territoriali come evidenzia il Rapporto Oxfam “Disuguitalia: ridare valore, potere e dignità al lavoro” recentemente pubblicato.

Lo scenario mediano delle edizioni previsive Istat precedenti ora è diventato lo scenario “alto” (tecnicamente il limite superiore dell’intervallo di incertezza al 90 percento), quello che si può raggiungere non semplicemente sperando che con l’azione ordinaria le cose prendano il verso giusto, ma impegnandosi a cambiare rotta con urgenza e valutando passo dopo passo se si sta andando nella direzione giusta. Per riuscirci è necessaria una inversione di tendenza della fecondità che, dalle 400 mila attuali, in dieci anni ci riporti sopra le 500 mila nascite. E’ possibile? Le esperienze passate italiane e quelle recenti di altri paesi portano a rispondere positivamente.

In circa dieci anni, tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta la fecondità italiana è crollata di oltre mezzo figlio, portandoci ai livelli peggiori al mondo. Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio della Grande recessione, è aumentata in varie regioni del Nord Italia di circa mezzo figlio. Dal 2006 al 2016 la fecondità tedesca è cresciuta della stessa entità, portandosi da valori inferiori all’Italia a livelli superiori alla media europea. Nell’attuale scenario “alto” dell’Istat la fecondità nel 2032 risulta pari a 1,58, il che corrisponde ad un terzo di figlio in media in più nell’arco di dieci anni. Si può fare? Si potrebbe fare ancora meglio, ma dipende da quanto siamo convinti e determinati nel raggiungere tale obiettivo.

Le condizioni favorevoli ci sono. Serve un clima sociale favorevole. La pandemia ha creato una discontinuità che può aiutare a rimettere in discussione i limiti passati e riorientare il percorso del paese. Servono anche politiche solide e ben mirate, con risorse adeguate. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza e il Family act contengono progetti concreti che, in sinergia tra di loro, possono consentire un salto di qualità nel rapporto tra lavoro e progetti di vita. Ma nessun risultato trasformativo si può ottenere se il miglioramento di tale rapporto non diventa l’obiettivo principale su cui tutto il paese scommette e si impegna, a partire da oggi e con un processo da rafforzare anno dopo anno. E’ il messaggio arrivato in questi giorni dagli “Stati Generali sulla natalità”. Evento promosso dal Forum famiglie e che ha coinvolto non solo istituzioni ed esperti, ma soprattutto imprenditori, società civile, mondo della comunicazione. Il titolo scelto è un programma: “Si può fare!”.

Gli interventi dal palco non hanno per nulla nascosto la complessità e le difficoltà, ma hanno mostrato che esiste una consapevolezza più forte, che è quella di voler vivere in un paese in cui il desiderio che più impegna positivamente il presente verso il futuro, ovvero la scelta di avere un figlio, possa essere pienamente realizzato con successo e in relazione armoniosa con altre dimensioni della vita personale e lavorativa. Se diventa la consapevolezza del Paese intero, a tutti i suoi livelli, allora una buona possibilità ancora c’è.

La trappola demografica evitabile solo migliorando la messa a terra delle politiche

Siamo entrati nell’anno dell’inversione di tendenza delle nascite? Quasi certamente nel 2022 si interromperà l’impressionante sequenza di record negativi osservati nel recente passato, ma non è ancora ben chiaro quanto ci rialzeremo. All’uscita dalla Grande recessione del 2008-13 l’Italia non ha mostrato alcuno slancio vitale. Dopo il minimo storico pari a 503 mila nel 2014, le nascite sono scese sotto 500 mila nel 2015 e poi via via ancor più sotto fino a 420 mila nel 2019. Nel 2020 si è aggiunto l’impatto negativo della crisi sanitaria. Nel complesso, in meno di quindici anni, dal 2008 al 2021, l’Italia è crollata da 577 mila a 400 mila nati. Ricordiamo che il dato del 2008 era comunque già di oltre 200 mila unità inferiore alle nascite osservate a metà degli anni Settanta, prima che il numero medio di figli per donna scendesse definitivamente sotto 2 (livello che garantisce l’equilibrio tra generazioni).

Solo se le mamme lavorano si va oltre il figlio unico

Rendere più complicato il lavoro delle donne con figli non è un buon affare. Porta a ricadute negative su indicatori chiave del benessere a livello personale e familiare, oltre che su indicatori strategici per la crescita economica e la sostenibilità sociale. Può un’Italia che invecchia, con una forza lavoro entrata in una fase di continua riduzione, permettersi di non valorizzare in modo pieno il capitale umano femminile? Può un’Italia che presenta una delle peggiori combinazioni in Europa di denatalità e povertà infantile, non favorire la possibilità di doppio stipendio per le coppie con figli?

Il paese non migliora con le rinunce delle donne, ma dando forza alle loro scelte messe nelle condizioni di generare valore personale e sociale. Nessuna nuova fase di sviluppo è possibile nel post pandemia se non si superano i vincoli che hanno caratterizzato il percorso precedente e che la crisi sanitaria stessa ha inasprito, comprimendo ulteriormente le scelte femminili.

Uno dei principali nodi da sciogliere riguarda la conciliazione del lavoro con le responsabilità familiari, che deve avere come asse portante il ruolo dei servizi per l’infanzia. Il vero salto di qualità è rendere l’accesso al nido un diritto per ogni nuovo nato. Su una donna che lavora (o cerca lavoro) e desidera un figlio, non deve pesare l’incertezza di non sapere se poi riuscirà a trovare posto in un nido.

Servono, inoltre, misure in grado di rivolgersi allo stesso modo a madri e padri, con specifici incentivi ad essere utilizzate sul versante maschile. La condivisione non deve essere un ulteriore carico sulle donne, per la necessità di negoziare continuamente il contributo di mariti e compagni. Le politiche efficienti devono essere trasformative rispetto alla capacità di incidere direttamente sui comportamenti dei padri.

Va poi considerato che le esigenze di conciliazione, ancor più nel nostro paese, si devono confrontare con la crescente domanda di cura e assistenza verso i genitori anziani. Anche su questo versante è necessario un potenziamento dei servizi, soprattutto di tipo domiciliare, in modo integrato e con competenze adeguate. Dove il sistema di servizi funziona in modo efficace la solidarietà familiare non si riduce ma si rafforza, perché può essere gestita e vissuta senza sovraccarichi che producono tensioni e frustrazioni.

Finora il nostro paese ha cercato di reggere in difesa attraverso le rinunce delle donne. Questo ci ha resi sempre più poveri e squilibrati. Costruire un’infrastruttura sociale che consenta una promozione piena delle scelte femminili è l’unico modo per spostare il paese in attacco. E’, quindi, l’investimento più solido che possiamo fare.