Ultima chiamata per evitare la trappola demografica

Le dinamiche demografiche nel decennio scorso sono risultate peggiori del previsto. In particolare, più di quanto ci si poteva attendere, è diminuita la fecondità sotto i 35 anni; l’andamento delle nascite da coppie straniere ha invertito la tendenza (passando da circa 80 mila nel 2012 a circa 63 mila nel 2019); si è ulteriormente consolidata la relazione tra rischio di povertà e numero di figli.

Si è poi aggiunto l’imprevisto della crisi sanitaria che ha ulteriormente inasprito le dinamiche negative già in corso. Eloquenti in questo senso sono i dati appena pubblicati del Secondo Rapporto del Gruppo di esperti “Demografia e Covid-19”, istituito dalla Ministra per le pari opportunità e la famiglia, dal titolo “L’impatto della pandemia di Covid-19 su natalità e condizione delle nuove generazioni”. I dati derivanti da indagini condotte durante il lockdown e a distanza di un anno, mostrano come l’impatto sia stato forte in tutta Europa ma a sospendere i propri piani di formazione di una famiglia siano risultati in misura maggiore i giovani italiani.

Italia senza figli. Nascite in picchiata.

Possiamo dividere la crisi demografica italiana, una delle più durature e accentuate al mondo, in tre diverse fasi. La prima si colloca temporalmente tra metà degli anni Settanta e metà degli anni Novanta, periodo nel quale la fecondità da livelli superiori alla media europea è scesa a valori tra i più bassi di tutto il pianeta. L’Italia arriva più tardi rispetto al resto dell’Europa occidentale a portare il numero medio di figli sotto la soglia dei due figli per donna, ma quando scende lo fa in modo drastico. Il dato scende definitivamente sotto 1,5 nel 1984 e prosegue al ribasso fin sotto 1,2 nel 1995. In questa fase il nostro paese passa da un numero totale di nascite di quantità analoga alla Francia, oltre 750 mila, a meno di 550 mila. Tanto per farsi un’idea delle ricadute sulla popolazione di tali dinamiche, mentre gli over 40 dei due paesi hanno sostanzialmente la stessa dimensione demografica, in Italia la fascia 20-39 conta oltre 2,5 milioni in meno rispetto ai coetanei d’oltralpe. Dati che ben evidenziano il processo di “degiovanimento” italiano determinato dalla persistente denatalità.

Meno nati, meno attivi?

L’indicatore che misura il rapporto tra anziani e popolazione in età attiva (indice di dipendenza degli anziani) è uno di quelli guardati con più attenzione dalle economie avanzate. Se tale rapporto aumenta significa che nella bilancia demografica il peso si sposta dal piatto dell’età in cui si fa crescere l’economia (e si fa funzionare il sistema di welfare) a quello dell’età in cui maggiormente si assorbono risorse pubbliche per assistenza sanitaria e pensioni. I dati ci dicono che il rapporto tra over 65 e popolazione tra i 20 e i 64 anni nella popolazione mondiale è salito da valori attorno al 10% nel 1960 al dato attuale superiore al 15%, con la prospettiva di arrivare oltre il 28% nel 2050 secondo lo scenario centrale delle Nazioni Unite (World Population Prospects 2019).

Smartworking: da ripiego a risorsa

La pandemia ci ha collocati in una condizione di tempo sospeso. Molte cose che si potevano fare prima non sono più possibili. Molte altre che vorremmo, invece, organizzare in modo diverso non sono ancora pienamente praticabili. Già, però, prima dell’emergenza sanitaria si discuteva del fatto che l’entrata nel nuovo millennio ci collocava tra un “non più” da lasciare nel Novecento e un “non ancora” coerente con le trasformazioni in atto ma non facile da riconoscere, far emergere nel modo migliore e consolidarsi.

Un’anomalia da correggere con il piano di rilancio

L’Italia di inizio 2022 è uno dei paesi in Europa con più debole presenza delle nuove generazioni nei luoghi in cui si è messi nelle condizioni di contribuire alla crescita e allo sviluppo economico. Ma anche con meno giovani presenti nelle classi scolastiche fino a completare il percorso di istruzione secondaria di secondo grado, oltre che nelle aule universitarie fino a raggiungere con successo la laurea o un titolo di formazione terziaria professionalizzante (fornita dagli Istituti Tecnici Superiori).