Il titolo del libro appena pubblicato da Giuliano Pisapia, “Milano città aperta” – al di là dei sassolini da togliere – offre una chiave di lettura dell’impronta che il sindaco ha voluto lasciare con la sua amministrazione. Il desiderio, indicato esplicitamente nel testo, è essere ricordato come protagonista di una stagione di cambiamento. In effetti, nel primo decennio del XXI secolo la città è apparsa oscillare tra la propensione ad aprirsi e sfidare i cambiamenti, da un lato, e la resistenza verso il nuovo e la tentazione a chiudersi in difesa, dall’altro. La crisi ha agito spingendo più verso il secondo dei poli, mentre – quanto meno nelle intenzioni – la giunta Pisapia ha cercato di indirizzare le energie della società a favore del primo. Oggi la città sembra in effetti più “aperta” rispetto a cinque anni fa e il fatto che il sindaco abbia posto con enfasi tale termine nel titolo del libro – pur nelle varie accezioni che si possono attribuire – fa pensare che lo consideri un risultato acquisito o, in ogni caso, senta di aver messo in moto un irreversibile processo in tale direzione.
Expat, la generazione delle opportunità
Si sono spesi fiumi di inchiostro e fiato da riempirci mongolfiere, sui giovani che se ne vanno dall’Italia. Peccato che quell’inchiostro e quel fiato, in molti casi, siano troppo spesso spesi male. Per piangerci addosso, per maledire un Paese che non sa valorizzare i propri talenti, per puntare il dito contro chi – politici, imprenditori, insegnanti, genitori – quei talenti (nell’accezione più ampia) non è riuscito a valorizzarli. Nella retorica dei ”cervelli in fuga” è implicito il senso di una duplice sconfitta. Di chi se ne va, perché è stato costretto a farlo. Di chi l’ha lasciato partire, per i supposti costi mal investiti nell’educazione di chi parte.
È una retorica che non ci piace e che vogliamo decostruire, mattone dopo mattone. In primo luogo perché è depressiva. Soprattutto, però, perché è sbagliata. Basterebbe guardare la realtà senza farsi inquinare la vista dall’autocommiserazione per capire che non è così e che la retorica della “fuga” è limitativa rispetto alla portata e alle implicazioni dei grandi processi in atto nel mondo che vedono protagoniste le nuove generazioni.
Dalla crisi immobiliare si esce con una nuova idea dell’abitare
Casa e lavoro sono da sempre, ma ancor più oggi, le preoccupazioni principali dei giovani italiani. Su entrambi tali obiettivi sono tramontate le certezze che hanno caratterizzato il percorso di entrata nella vita adulta dei loro genitori. Attraverso il lavoro fisso e l’acquisto di una propria casa venivano poste solide basi attorno a cui costruire la propria vita. Completava il quadro un welfare pubblico ancora generoso e in grado di rispondere a gran parte delle esigenze di protezione sociale. L’Italia cresceva più di oggi e per allargare ancor più la coperta si poteva espandere il debito pubblico. Ora quel mondo non esiste più. Per un po’ si è provato a far finta esistesse ancora, ma con l’entrata nel nuovo secolo la discrasia con la realtà è diventata sempre più evidente. Non è stata tanto la crisi a dare il colpo definitivo, ma la sua durata. Solo infatti con l’entrata nella seconda decade del XXI secolo possiamo dire che l’Italia è uscita dal Novecento, senza però avere ancora ben chiaro dove andare e come arrivarci.
La spinta gentile dei senior per la crescita del Paese
La popolazione italiana non cresce più. Nel 2014 le nascite sono state 509 mila contro 597 mila decessi. Il saldo naturale risulta quindi fortemente negativo soprattutto come conseguenza del calo delle nascite. A questo si deve aggiungere il flusso di uscita degli italiani verso l’estero, aumentato continuamente negli ultimi anni fino a raggiungere le 90 mila unità. Dal lato imagesopposto c’è l’immigrazione straniera che però, anche a causa della crisi, si è ridimensionata sensibilmente: nel corso del 2014 ci sono state 255 mila entrate di cittadini di nazionalità estera a fronte però di 48 mila stranieri che hanno deciso di tornare nel loro paese di origine.
La forza dei senior per un salto di qualità
A che età si diventa vecchi? Nelle statistiche ufficiali, come quelle prodotte dall’Istat o presenti nell’Annuario statistico regionale della Lombardia, il tasso di invecchiamento si riferisce alla popolazione di 65 anni e più. Secondo, però, i dati di una recente ricerca dell’Università Cattolica solo il 16 percento degli uomini e il 29 percento delle donne tra i 65 e i 74 anni afferma di sentirsi anziano. Risultati coerenti con altre indagini sulle condizioni oggettive e sulla percezione della propria condizione dei sessantenni e dintorni. Vengono in mente le parole di Mastroianni che in una intervista rilasciata a 72 anni affermava di non sentirsi per nulla vecchio, “casomai leggermente anziano”. Una affermazione che evidenzia come il termine “anziano” sia sempre meno adeguato per indicare le persone che oggi hanno meno di 75 anni, mentre la condizione di “leggerezza” nell’attraversare tale tratto dell’esistenza sia sempre più percepita e desiderata.