Da Expo a Expat: la Milano permanentemente aperta al mondo

Bello vedere che ora in molti ci credono. Expo può essere un successo e Milano può trarne grande beneficio. Dopo la buona partenza l’atteggiamento di molti critici e scettici della prima ora appare in sensibile mutamento. Non che siano diventati tutti ottimisti ma si sono drasticamente ridotti coloro che danno apertamente per scontato che sia stato un errore farla e che alla fine il bilancio sarà negativo. Persino sul sito lavoce.info è uscito un editoriale che senza negare i giudizi negativi del passato – alcuni fondati ma altri eccessivamente sprezzanti – compie una ampia virata verso l’incoraggiamento ad andare avanti bene. Archiviate le stroncature senza appello si invita saggiamente a non tifare contro, a non opporsi ma a contribuire tutti all’impresa. L’Expo ha certamente profonde e durature ricadute che non possono essere limitate ad un banale esercizio contabile, è quindi un bene che siano in crescita gli economisti in grado di riconoscere che esiste anche un più profondo e duraturo valore culturale dell’evento.

Il vero successo di Expo lo decideranno i bambini

Chissà se con Expo riusciremo a ritrovare un po’ di orgoglio italiano. L’orgoglio che deriva dalla consapevolezza di vivere in un contesto unico e possedere doti non facilmente imitabili. Al contrario di altri popoli, siamo molto bravi a riconoscere e a sottolineare i nostri limiti, ma molto meno a valorizzare quello che di buono abbiamo e siamo. Non si tratta di nascondere i difetti ma di dare il giusto riconoscimento e incoraggiamento agli aspetti positivi e di metterli nella luce giusta.

Condivisa o verde l’energia del futuro

L’evento più atteso e discusso degli ultimi anni sta per iniziare. Secondo Giuseppe Sala, commissario unico di Expo 2015, il primo maggio troveremo tutti i padiglioni pronti. Se non fosse così sarebbe spiacevole ma non grave. Più che l’inizio conterà la fine. Sarebbe forse saggio e utile, allora, sospendere per sei mesi critiche e polemiche per soffiare tutti nella stessa direzione. Il primo novembre poi si potranno tirare le somme e le critiche in quel caso saranno utili per capire cosa ha funzionato e cosa no, per valutare come migliorare la progettazione e la realizzazione di eventi futuri.

La sfida è una città che si apra al futuro

Il titolo del libro appena pubblicato da Giuliano Pisapia, “Milano città aperta” – al di là dei sassolini da togliere – offre una chiave di lettura dell’impronta che il sindaco ha voluto lasciare con la sua amministrazione. Il desiderio, indicato esplicitamente nel testo, è essere ricordato come protagonista di una stagione di cambiamento. In effetti, nel primo decennio del XXI secolo la città è apparsa oscillare tra la propensione ad aprirsi e sfidare i cambiamenti, da un lato, e la resistenza verso il nuovo e la tentazione a chiudersi in difesa, dall’altro. La crisi ha agito spingendo più verso il secondo dei poli, mentre – quanto meno nelle intenzioni – la giunta Pisapia ha cercato di indirizzare le energie della società a favore del primo. Oggi la città sembra in effetti più “aperta” rispetto a cinque anni fa e il fatto che il sindaco abbia posto con enfasi tale termine nel titolo del libro – pur nelle varie accezioni che si possono attribuire – fa pensare che lo consideri un risultato acquisito o, in ogni caso, senta di aver messo in moto un irreversibile processo in tale direzione.

Expat, la generazione delle opportunità

Si sono spesi fiumi di inchiostro e fiato da riempirci mongolfiere, sui giovani che se ne vanno dall’Italia. Peccato che quell’inchiostro e quel fiato, in molti casi, siano troppo spesso spesi male. Per piangerci addosso, per maledire un Paese che non sa valorizzare i propri talenti, per puntare il dito contro chi – politici, imprenditori, insegnanti, genitori – quei talenti (nell’accezione più ampia) non è riuscito a valorizzarli. Nella retorica dei ”cervelli in fuga” è implicito il senso di una duplice sconfitta. Di chi se ne va, perché è stato costretto a farlo. Di chi l’ha lasciato partire, per i supposti costi mal investiti nell’educazione di chi parte.
È una retorica che non ci piace e che vogliamo decostruire, mattone dopo mattone. In primo luogo perché è depressiva. Soprattutto, però, perché è sbagliata. Basterebbe guardare la realtà senza farsi inquinare la vista dall’autocommiserazione per capire che non è così e che la retorica della “fuga” è limitativa rispetto alla portata e alle implicazioni dei grandi processi in atto nel mondo che vedono protagoniste le nuove generazioni.