Le nuove generazioni: un capitale su cui investiamo troppo poco

C’è un dubbio che dobbiamo sciogliere una volta per tutte e poi non discuterne più ma solo agire con coerenza e determinazione: i giovani italiani valgono veramente? Le nuove generazioni allevate nel nostro paese sono portatrici di energie ed intelligenze utili per far crescere l’Italia e farla tornare competitiva nel mondo? Se crediamo di no, allora prendiamo atto che siamo senza futuro e attrezziamoci per rendere più dolce possibile il declino. Se invece la risposta è positiva, non basta dirlo a parole, dobbiamo anche realizzare azioni concrete per far sì che quelle energie ed intelligenze diano la migliore espressione di sé. Per farlo dobbiamo intervenire sia sulla componente culturale che su quella strutturale. Riguardo al primo aspetto è necessario consolidare, ad ogni livello sociale, la convinzione che questo paese crede nei propri giovani e li considera la risorsa più preziosa su cui investire per produrre sviluppo e benessere. Aiutare i giovani ad adottare l’approccio giusto avendo attorno a sé un clima di fiducia e di stimolo continuo alla buona formazione e all’intraprendenza è una precondizione. E’ come preparare bene il terreno rendendolo fertile, ma bisogna però poi seminare, coltivare e dimostrare di essere in grado di ottenere buoni frutti. Per far questo servono misure concrete che incidono sugli aspetti strutturali, con riforme mirate e con investimenti adeguati. E’ qui che la politica viene messa alla prova e deve dimostrare quanto crede davvero nel valore sociale e produttivo delle nuove generazioni.

L’alleanza tra la buona politica e la giovane Italia del fare

Fare politica per molti significa conquistare posizioni di prestigio e potere, per altri occuparsi della città e del suo funzionamento. Le due cose non si escludono e nella maggior parte dei politici questi due diversi aspetti convivono in varia misura. I bravi politici non sono molti, come non sono molti quelli davvero pessimi. Ampia è invece la presenza di mediocri, compresi molti giovani impreparati precipitati nella politica da chissà dove. Uno dei nostri problemi è la grande proliferazione di questa categoria. Perché ne abbiamo così tanti? La risposta è semplice: perché chi li vota è spesso più mediocre di loro. C’è in realtà un’altra risposta meno severa con noi stessi: perché gli italiani sono così tanto occupati a far tornare i conti in un paese malgovernato che non hanno tempo materiale di informarsi attentamente e di valutare come operano i decisori pubblici. Abbiamo certamente una vita molto più complicata, ad esempio, degli svizzeri. Eppure non siamo peggiori di loro, siamo semplicemente collettivamente meno intelligenti. Può accadere che ciascuno di noi valga quanto o più di uno svizzero, ma tutti assieme valiamo certamente di meno. A parità di impegno individuale miglioriamo di meno il benessere collettivo, anche perché da noi ottiene di più non tanto chi produce maggiore utilità sociale ma chi riesce a fare la voce più grossa. Ciascuno ripiegato sui propri problemi quotidiani abbiamo smesso di guardare con attenzione i mutamenti della realtà attorno a noi. La conseguenza è che siamo diventati bravi a difenderci ma sempre meno in grado di capire da dove arrivano i problemi e come risolverli assieme.

Quell’energia sociale spontanea che sgorga nelle strade di Milano

 

Una parte sempre più rilevante della nostra vita di comunicazione e relazione si è spostata negli ultimi dieci anni sul web. I membri delle nuove generazioni trascorrono più tempo sui social network che a conversare amabilmente con compagni di studio, colleghi di lavoro e vicini di casa. Ma è in crescita anche la presenza in rete delle persone più mature. Molti di coloro che non hanno mai usato internet per lavoro né tantomeno ai tempi della scuola, scoprono i social network dopo la pensione e non solo per i contatti con figli e nipoti, ma sempre più anche per interagire con coetanei e coltivare nuovi interessi e amicizie. Le due dimensioni, quella della rete e della vita reale, non sono necessariamente in contrapposizione o indipendenti, possono anzi in molti casi arricchirsi vicendevolmente. Lo dimostra il successo delle “social street” messo in evidenza da una recente ricerca coordinata da Cristina Pasqualini, ricercatrice dell’Università Cattolica.

La sharing economy è molto più di una app

Fino a pochi anni fa nessuno parlava di sharing economy, oggi è uno dei temi più in voga nei dibattiti sui nuovi processi di cambiamento economico e sociale. C’è chi parla di nuovo paradigma e chi di nuovo capitalismo svuotato dal concetto di possesso. La proprietà nelle epoche passate garantiva sicurezza e potere.

Politiche per una generazione da rimettere in gioco

L’acronimo, come ricorda il “Rapporto sul mercato del lavoro 2014” del CNEL, nasce poco dopo il 2000 per indicare la quota di giovani “Not in Education, Employment or Training”, vale a dire gli under 30 che non stanno utilizzando il proprio tempo né per migliorare la propria formazione, né per mettere in pratica le proprie competenze nel mercato del lavoro e contribuire alla crescita del paese. La quantità di giovani lasciati in tale inoperosa attesa era già elevata prima della crisi ma è diventata poi via via una montagna sempre più elevata: la più alta in Europa dopo la Grecia. Siamo quindi uno dei paesi che maggiormente si sono distinti in questi anni nella capacità di trasformare i giovani da potenziali soggettivi attivi a costo sociale.