Topic: popolazione, risorse e sviluppo

Sanare la frattura tra generazioni con ampio accesso alla formazione

L’Italia è entrata in questo secolo attraversata da profonde e ben riconoscibili fratture che non si sono ridotte nel corso di questi due primi decenni, con la conseguenza di accentuare una fragilità strutturale che rischia di compromettere tutto il percorso successivo.

Come ampiamente documentato in molte analisi, gli indicatori economici e sociali del Sud rimangono lontani da quelli del Nord e dalla media europea, senza l’evidenza di un chiaro e solido processo di convergenza. Donne e giovani continuano a presentare livelli di partecipazione al mercato del lavoro molto più bassi rispetto agli uomini adulti. Chi nasce in famiglie con status sociale basso ha molte meno possibilità di raggiungere alti livelli di istruzione e di accedere a impieghi ben remunerati. Gli immigrati residenti rimangono vincolati a un rischio di povertà notevolmente più alto, anche a parità di altre caratteristiche, rispetto alla popolazione autoctona.

Il dibattito pubblico su questi divari, visti da sinistra o in ottica liberale, oscilla tra i due estremi delle diseguaglianze da ridurre e del merito da promuovere. Entrambe queste due posizioni, se declinate in senso stretto, risultano però parziali. La riduzione, in sé, delle diseguaglianze non necessariamente migliora le condizioni di sviluppo del Paese. D’altro canto un’accentuazione della spinta meritocratica senza consentire pari opportunità in partenza, non aiuta a ridurre le diseguaglianze ma nemmeno migliora l’efficienza complessiva del sistema. Ad esempio, i bambini più aiutati a casa ottengono voti più elevati in classe anche nel caso di minori capacità rispetto a chi non ha supporto.

Il maggior contributo alla riduzione delle fratture piò arrivare, allora, dall’investimento collettivo nei contesti in cui la riduzione delle diseguaglianze fornisce energia ai processi di sviluppo del Paese. Questo consente, metaforicamente, di ottenere i maggiori frutti dal terreno potenzialmente più fertile ma lasciato colpevolmente incolto (molto più che negli altri paesi con cui competiamo), per poi progressivamente intervenire sui terreni con rendimenti decrescenti. Questo permette di ottenere in partenza i migliori risultati in termini sia di riduzione delle diseguaglianze sia di crescita, con una spinta che poi aiuta a rafforzare il welfare anche sulle voci meno attive. L’indicatore principale a cui dovremmo allora guardare, per politiche che consentano di superare le grandi fratture italiane e rinsaldare il processo di crescita, è quello che misura quanto chi parte da posizioni più svantaggiate riesce a migliorare la propria condizione.

Una delle più gravi fratture di cui soffre il nostro paese – una di quelle inasprite di più nel passato recente, che attualmente risultano tra le più accentuate anche nel confronto con gli altri paesi, con più gravi implicazioni sul futuro – è quella generazionale. Chi è giovane oggi in Italia si trova con un livello del debito pubblico lievitato enormemente; in una economia con i più bassi tassi di crescita dal dopoguerra; con più ridotto peso demografico; con mobilità sociale inceppata (con conseguenti minori possibilità di migliorare propria situazione). Eppure da dove può ritrovare il Paese possibilità di crescere e ridurre il debito pubblico se non dal pieno contributo attivo delle nuove generazioni?

E’ bene aver chiaro i dati della disastrosa situazione attuale. Dati che aiutano anche a capire che la questione è molto meno da ricondurre a quanto le generazioni più mature hanno (in termini di occupazione, reddito e trattamento pensionistico) e molto più a quanto alle nuove generazioni manca. Con aiuto che arriva, di fatto, solo dai propri genitori, ma risulta inefficiente nell’allocazione delle risorse per lo sviluppo, andando anche ad inasprire le diseguaglianze di partenza. Un processo di rimessa in discussione di posizioni e diritti acquisiti funziona solo se alla base c’è un patto di investimento collettivo sulla crescita comune, ovvero un patto sociale e generazionale che porta le risorse pubbliche a convergere verso gli strumenti che trasformano i giovani in parte attiva e qualificata nei processi di sviluppo competitivo del Paese.

I dati allora ci dicono che la spesa per pensioni e sanità pubblica sul Pil non è maggiore rispetto alla media europea, ma quella su formazione, politiche attive, ricerca e sviluppo è nel complesso da troppo tempo sensibilmente inferiore. I tassi dell’occupazione degli uomini adulti italiani non sono più alti rispetto alle altre economie avanzate, ma quelli in età giovanile sono impietosamente tra i più bassi (oltre 20 punti sotto la media Ue in età 25-29). Il rischio di povertà assoluta delle famiglie con membro di riferimento anziano è consolante che sia inferiore al 5%, ma è inaccettabile che sia oltre il doppio quello con persona di riferimento under 35. Così, di fatto, si difende il benessere passato acquisito senza investire sulla produzione di nuovo benessere. Ed è su questo nodo che devono intervenire le scelte di una politica che non guarda solo al consenso immediato.

La frattura generazionale ha poi all’interno, come abbiamo detto, anche una frattura sociale. La combinazione tra tali due fratture costituisce la principale debolezza strutturale dell’impianto che dovrebbe sostenere la crescita solida del paese, andando inoltre ad alimentare tensioni sociali, populismi e instabilità politica.

Non si può quindi che ripartire da un accesso solido e ampio alla formazione del capitale umano, agganciato a un miglioramento delle aspettative di sua valorizzazione piena, in un paese che lo considera come il carburante più prezioso per un rilancio delle sue prospettive di sviluppo presente e futuro. Questo significa partire dal prendere atto che se i livelli di formazione terziaria sono così bassi in Italia è perché mancano all’appello soprattutto i figli dei genitori delle classi sociali più basse. E’ cruciale allora mettere tutti nelle condizioni di effettiva possibilità di accesso alle migliori posizioni, a partire da chi è rimasto più indietro, in funzione delle proprie doti (e non della dotazione iniziale) e delle condizioni del mercato (ma contribuendo ad espanderlo).

La contrapposizione tra equità e merito va superata mettendo al centro la dimensione della costruzione di benessere collettivo, mirando prima di tutto a ridurre gli inaccettabili divari di opportunità nella partecipazione ai processi di crescita del Paese. E’ dentro a tali divari che si trova oggi il terreno più fertile da coltivare.

Posto al nido, un diritto di tutti i bambini

Misure strutturali contro l’emergenza demografica

Di emergenza demografica in Italia si parla ormai da diversi anni. Dal 2010, l’Istat registra un’accentuazione del calo delle nascite nel nostro paese, con un tasso di fecondità sceso da 1,46 nel 2010 a 1,32 nel 2017. Si calcola che nel 2016 il 45 per cento delle donne di età compresa fra i 18 e i 49 anni non avesse ancora avuto il primo figlio, percentuale che si aggira intorno al 22 per cento fra le attuali 40-49enni.

In particolare, le difficoltà legate alla continuità di reddito e all’accesso alla casa hanno fatto crollare la fecondità degli under 30 su valori tra i più bassi in Europa. L’età tardiva del primo figlio e l’eccesso di complicazioni nella conciliazione tra famiglia e lavoro frenano poi la possibilità di andare oltre.

Lo squilibrio demografico (sempre più anziani e sempre meno giovani) che ne deriva equivale a un lento terremoto con notevoli costi economici e sociali, destinati ad aggravarsi nel tempo.

Per il loro legame con l’autonomia dei giovani, l’occupazione femminile e lo sviluppo umano a partire dall’infanzia, le politiche familiari vanno considerate come parte delle politiche di sviluppo di un territorio, non come misure marginali. Serve quindi un’azione sistematica, con politiche solide, strutturate, coerenti e mirate – non qualche toppa qua e là con risorse molto limitate – se non vogliamo che il quadro peggiori ulteriormente condannandoci a un declino irreversibile.

Sia in Europa che all’interno del nostro paese, la geografia dei servizi per l’infanzia (nidi in primo luogo) risulta sempre più sovrapposta, in modo combinato, a quella della fecondità e dell’occupazione femminile. Le carenze su tali servizi portano le donne con figli a rinunciare al lavoro e quelle che lavorano a rinunciare ad avere figli. Nella fascia 25-49 anni il tasso di occupazione femminile è superiore all’80 per cento per le single e scende di 25 punti percentuali (su livelli tra i più bassi in Europa) per le madri.

I confronti internazionali mostrano che nel 2017, in Italia, nella fascia d’età 0-2 anni solo un bambino su quattro ha avuto accesso ai servizi per l’infanzia, mentre in Europa il valore è di uno su tre (in alcuni paesi, tra cui Francia e paesi nordici, si va oltre il 50 per cento).

Problema di accessibilità oltreché di costi

I dati Istat più recenti (Statistiche report, 21 marzo 2019) sull’uso dei servizi per l’infanzia non indicano una convergenza verso la media europea. Né si intravede una riduzione dell’eterogeneità sul territorio italiano: i bambini di età 0-2 anni che frequentano un nido o i servizi integrativi sono meno dell’8 per cento in Campania, mentre sono oltre il 40 per cento in Valle d’Aosta. In più, dal 2012 si registra una diminuzione sia degli iscritti ai nidi comunali e convenzionati, sia delle risorse pubbliche disponibili. Sono invece cresciuti i costi a carico dei genitori sul totale della spesa corrente dei comuni. In modo corrispondente, è cresciuta la sensibilità delle famiglie sul fronte della qualità e dei costi.

Dobbiamo tenere presente, poi, che le difficoltà di accesso ai servizi di cura vanno al di là dell’aspetto economico. Mentre per i redditi più bassi il nido pubblico in Italia è già pressoché gratuito, esiste una fascia di popolazione che, indipendentemente dal reddito, non ha disponibilità di servizi pubblici o privati per l’infanzia sul territorio. In altri casi, invece, c’è il problema della scarsa flessibilità degli orari dei nidi che non combaciano con quelli “atipici” del lavoro dei genitori. Migliorare l’effettiva accessibilità significa intervenire sinergicamente su tutti questi aspetti (copertura, costi, orari e qualità, con particolare attenzione alle aree più svantaggiate).

Gestire processi, non solo erogare servizi

Oltre al potenziamento dell’offerta di posti, per rilanciare i nidi serve quindi la capacità di mettersi in sintonia con la domanda eterogenea e in mutamento espressa dalle famiglie, rendendoli realmente accessibili a tutti. Va rafforzato il rapporto di fiducia garantendo livelli di qualità di base su tutto il territorio italiano, sull’offerta sia pubblica che privata.

È però necessario anche un cambiamento di prospettiva, perché i nidi siano considerati non un servizio opzionale, ma come “diritto di ogni bambino” di poter accedere a una proposta educativa di qualità fin dall’infanzia, in qualsiasi famiglia nasca.

Per risollevare la persistentemente bassa fecondità italiana non basta una singola misura. Va messo in atto un sistema di strumenti che si adattano alle diverse e mutevoli esigenze delle famiglie e della qualità dello sviluppo umano a partire dall’infanzia. Vanno disegnate e realizzate misure coerenti con le specificità, anche culturali, del territorio. Le misure vanno poi monitorate e, nel realizzarle, va prevista la valutazione del loro impatto per migliorarne continuamente l’efficacia: devono essere considerate non in modo statico, ma come processi che incidono su una realtà in continuo mutamento.

La strada dello “Ius culturae”

L’Italia è uno dei paesi in cui il tema è più sentito, perché si trova al centro del Mediterraneo e perché la presenza straniera è cresciuta in modo particolarmente rapido nel passaggio al nuovo secolo. È quindi uno dei paesi chiave non solo per la gestione dei flussi verso l’Europa, ma di tutto ciò che mette in relazione interdipendente le dinamiche del vecchio continente e lo sviluppo dell’Africa.

La sfida che l’immigrazione pone non ha soluzioni semplici, ma ciò che è certo è che va affrontata con un coordinamento internazionale e con strumenti e misure che vadano oltre la logica dell’emergenza. Questa consapevolezza, dopo molte contraddizioni e incertezze del recente passato, sembra oggi trovare maggior terreno favorevole sia nei nuovi vertici europei che nel nuovo governo italiano.

Nell’opinione pubblica, non solo italiana, è molto sentita la preoccupazione verso la parte irregolare del fenomeno, che risulta nella percezione comune anche enfatizzata rispetto ai numeri reali. Esiste invece un ampio riconoscimento che gli stranieri bene integrati forniscano un contributo alla crescita del paese in cui vivono. Questo vale ancor più per i loro figli: per il potenziale impatto positivo sul lato sia quantitativo, compensando la bassa natalità (particolarmente accentuata in molti stati europei), sia qualitativo, convergendo con i coetanei autoctoni nel fornire vivaci energie e intelligenze per lo sviluppo futuro delle economie mature avanzate.

L’Unione europea ha tra gli obiettivi quello di favorire livelli uniformi di diritti e doveri tra immigrati regolari e cittadini comunitari. L’Italia, in particolare, è uno dei paesi occidentali con criteri più rigidi per l’ottenimento della cittadinanza. La legge sul cosiddetto “Ius soli” è naufragata nella precedente legislatura, prima del voto del 4 marzo 2018, non solo perché osteggiata dai partiti di destra, ma anche per i timori nel centrosinistra di perdere consenso con l’approssimarsi delle elezioni.

Se l’idea di concedere la cittadinanza a chi è nato in Italia ed è già residente da anni, all’interno di un processo di integrazione della famiglia, è considerata largamente condivisa, più controversa è invece l’applicazione dell’automatismo a chiunque e in qualsiasi modo arrivi sulla penisola. Più consenso potrebbe allora trovare lo “Ius culturae”, che condiziona la richiesta di cittadinanza all’aver superato con successo almeno un ciclo scolastico. Ha alla base un principio che trova forte consenso nelle nuove generazioni, ovvero che ciò che si riconosce a un giovane deve dipendere dal suo percorso e dal suo impegno, non tanto dalle caratteristiche dei genitori e dalla loro provenienza.

L’atteggiamento dei giovani è stato sondato all’interno di una indagine promossa dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo e condotta da Ipsos ad aprile 2019 su un campione rappresentativo di duemila giovani tra i 20 e i 34 anni. I risultati oggi disponibili ci dicono che oltre due intervistati su tre sarebbero “molto” o “abbastanza” d’accordo con l’introduzione dello “Ius culturae”. Poco meno di uno su quattro è poco concorde, mentre chi ha un atteggiamento di completa chiusura è meno del 10 percento.

Ci sono quindi le condizioni favorevoli, sia politiche che di opinione pubblica, per ripartire da questa proposta, che potrebbe essere ancor meglio accolta e dar frutti positivi se attivata in concomitanza con un rilancio dell’insegnamento nelle scuole dell’educazione alla cittadinanza. Scoprire e coltivare assieme il senso e il valore di una comune appartenenza, tra coetanei di diversa provenienza, aiuta a formare italiani consapevoli e a farli sentire parte attiva del miglioramento del paese in cui vivono.27

Un welfare per dare (e generare) benessere

L’Italia è tra i paesi europei che, nell’azione pubblica, di meno hanno interpretato le misure di welfare come investimento sociale verso i propri cittadini, ovvero come strumenti non solo per ricevere benessere ma soprattutto per contribuire a generarlo.

Le stesse politiche redistributive dovrebbero privilegiare le voci che al contempo consentono di ridurre le diseguaglianze di partenza e favorire il contributo di ciascuno ai processi di crescita del paese. Mettere al centro le misure che aumentano occupazione giovanile e femminile, e mettere in campo un piano di rafforzamento dell’offerta degli asili nido sul territorio – come indicato dal premier Conte nel discorso alla Camera per la fiducia al suo secondo Governo – sono azioni che vanno esattamente in questa direzione. Mirano infatti ad incidere su indicatori che da troppo tempo ci vedono in fondo alle classifiche dei paesi più sviluppati, con implicazioni negative sia sulla crescita economica che sulle diseguaglianze sociali. Tali indicatori vanno inoltre letti in combinazione tra di loro. I livelli del tasso di occupazione in età 25-49 anni delle donne single laureate sono vicini a quelli che si osservano nelle aree più avanzate d’Europa. Il tasso di occupazione per le madri con figli e titolo di studio basso si trova, invece, circa 25 punti percentuali sotto. Sono, quindi, soprattutto bassa istruzione e carenza di servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia che portano nel complesso l’Italia ad avere uno dei più bassi tassi di occupazione femminile in Europa. Espongono, inoltre, le famiglie con condizione sociale più bassa ad un alto rischio di povertà materiale ed educativa infantile. Ne consegue una trasmissione generazionale delle diseguaglianze che costituisce uno dei freni principali alla mobilità sociale. La povertà materiale ed educativa all’infanzia si associa, poi, ad alto rischio di dispersione scolastica e allo scivolamento nella condizione di NEET (giovani che non studiano e non lavorano). Esiste quindi una spirale negativa che forza al ribasso occupazione giovanile, occupazione dipendente e autonoma femminile, natalità, benessere delle famiglie, mobilità sociale, che va spezzata.

Il rafforzamento dei servizi per l’infanzia – puntando in tempi brevi ad una convergenza dal 24% attuale di copertura dei nidi al 33% fissato come target europeo – è uno degli investimenti sociali con potenziali maggiori ricadute positive individuali e collettive che il nostro paese può fare. Aiuta a ridurre gli squilibri demografici prodotti dalla denatalità consentendo di rivedere al rialzo la scelta di avere figli e di essere presenti nel mercato del lavoro; aiuta le donne a valorizzare meglio il proprio capitale umano; riduce il rischio di povertà delle famiglie con figli; riduce le diseguaglianze di partenza perché i margini maggiori di miglioramento su occupazione femminile e rischio di povertà riguardano le famiglie delle classi sociali più basse.

La funzione dei servizi per l’infanzia non è, però, meramente di custodia dei figli per i genitori che lavorano, ma deve essere pensata a favore di tutti i bambini e con finalità di formazione e promozione del loro sviluppo umano.

Pertanto non basta l’impegno ad aumentare la copertura fino al 33% e a ridurre i costi a partire dalle fasce meno abbienti, ma va garantito anche un livello di qualità di base su tutto il territorio italiano e sull’offerta sia pubblica che privata. Questo salto di qualità può essere fatto solo considerando come “diritto di ogni bambino” il poter contare su una proposta educativa stimolante e qualificata fin dall’infanzia, qualsiasi siano le caratteristiche dei genitori. La stessa lunga vita attiva ha bisogno di formazione continua, non solo estesa nelle età più mature, ma anche anticipata, declinata in coerenza con le specificità di ogni fase della vita. Con la consapevolezza, confermata da molti studi, che prima si interviene e più alto è il ritorno collettivo dell’investimento sullo sviluppo umano, in termini sia di minori costi sociali sia di maggior contributo alla crescita. I maggiori benefici, in particolare, della frequenza di nidi di qualità li ottengono, sulle dimensioni della crescita sia socio-emotiva che cognitiva, coloro che partono da condizioni familiari più svantaggiate.

Più che dalla creazione di nuovi posti, un piano strategico in questa direzione potrebbe partire da una efficiente e qualificante implementazione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni, superando così il cronico gap italiano tra nidi e scuole per l’infanzia. Le basi di un futuro più solido partono necessariamente da qui, per arricchire poi tutto il percorso di vita successivo. Non bastano però promesse vaghe – sentite troppo spesso da vari governi negli ultimi decenni – ma servono impegni concreti su obiettivi precisi e misurabili, con alla base la convinzione che le politiche familiari siano da considerare parte integrante delle politiche di sviluppo.

Quel dannoso pareggio (1-1) tra lavoratori e pensionati

Sappiamo una sola cosa certa del futuro, che è diverso dal presente. Per star meglio domani rispetto ad oggi è necessario allora operare in modo che tale diversità sia sostenibile e, possibilmente, si integri positivamente con i meccanismi che producono benessere collettivo. Dell’Italia del 2050 sappiamo che sarà strutturalmente diversa da quella di oggi, senz’altro con più popolazione nelle età considerate tradizionalmente anziane e meno persone in età lavorativa.

L’indicatore che misura il rapporto tra tali due categorie di popolazione è uno di quelli guardati con più attenzione dalle economie avanzate. Se tale rapporto aumenta significa che nella bilancia demografica il peso si sposta dal piatto dell’età in cui si produce ricchezza a quello dell’età in cui si assorbono risorse pubbliche per spesa previdenziale e sanitaria. Quando, nei primi decenni del secondo dopoguerra, l’Italia cresceva in modo solido – al pari o più del resto del mondo sviluppato – il primo piatto aveva un peso cinque volte maggiore del secondo. Nel 2050 ci troveremo con un rapporto 4 a 3. Si tratta di uno dei valori più squilibrati in Europa, non tanto a causa dei livelli di longevità italiani, non molto diversi da quelli francesi o scandinavi, ma per la nostra persistente bassa natalità. L’impatto sull’economia e sulla sostenibilità della spesa sociale di tale squilibrio demografico è però accentuato dai criteri di accesso alla pensione e dal numero di effettivi lavoratori tra le persone in età attiva.

Se allora, come indica il recente rapporto Ocse “Working Better with Age”, si mette ha propriamente un lavoro sul primo piatto e nel secondo chi è inattivo o in pensione, il rapporto rischia di diventare di 1 a 1. Si andrebbe, così, a configurare uno degli scenari peggiori tra i Paesi membri dell’Unione europea. L’Italia, che già oggi cresce meno rispetto al resto delle economie avanzate e ha una spesa pubblica tra le più squilibrate a favore delle generazioni più anziane, si troverebbe ad inasprire le sue difficoltà. In questo scenario andrebbe ad indebolirsi la crescita competitiva del paese, con conseguente riduzione dei margini per contenere il debito pubblico, per finanziare formazione, ricerca e sviluppo, politiche familiari. Le disuguaglianze sociali diventerebbero ancora più acute, interagendo con quelle generazionali, di genere e territoriali. Aumenterebbero ulteriormente i già particolarmente elevati livelli di povertà delle famiglie monoreddito con figli minori. Con meno investimenti e opportunità per le nuove generazioni ci si può inoltre aspettare una intensificazione del flusso di uscita dei giovani più dinamici e qualificati verso l’estero. La crescita della popolazione anziana, in carenza di politiche di conciliazione e di servizi per i non autosufficienti, porterebbe inoltre ad accentuare il carico di cura sulle famiglie, comprimendo, in particolare, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

La conseguenza sarebbe, insomma, un ampliamento delle distanze dagli altri paesi avanzati, ma anche tra le varie aree e le diverse categorie sociali all’interno del nostro paese. Se negli ultimi trent’anni i livelli del debito pubblico, delle diseguaglianze sociali, della dipendenza passiva dei giovani dalla famiglia di origine, sono aumentati, l’allargamento degli squilibri demografici va nella direzione di renderli ancora meno sostenibili, rendendo l’Italia sempre più marginale nei processi di produzione di benessere nel resto di questo secolo.

Si tratta di un destino ineluttabile? La risposta è no, ma lo diventa implacabilmente se non cambiamo, ovvero se non ci mettiamo a fare nei prossimi trent’anni quello che nei trent’anni scorsi non siamo riusciti a fare, in un contesto che nel frattempo è peggiorato. Quello che serve per scongiurare lo scenario peggiore delineato dall’Ocse e che ci condannerebbe al declino infelice, è dar peso al piatto della componente di popolazione che produce ricchezza. In tale direzione va una redistribuzione delle risorse del Paese non assistenzialista o clientelare, ma a favore delle voci che al contempo consentono di ridurre le diseguaglianze e promuovere un contributo attivo e qualificato alla crescita. L’Italia presenta attualmente tra i più bassi tassi di occupazione giovanile e femminile in Europa, ancora più bassi nel Sud e nelle categorie sociali con basse risorse socioculturali. Questo significa che politiche efficaci rivolte a queste aree e a queste categorie sono quelle in grado di dare la maggior spinta al riequilibrio del paese. Da realizzare in coerenza con le sfide che l’innovazione tecnologica pone, con la necessità di mettere positivamente assieme scelte di vita e professionali, favorendo la collaborazione tra competenze, facendo in modo che le diversità (di età, genere, provenienza) portino valore aggiunto alla crescita comune anziché alimentare diseguaglianze corrosive. Se c’è una strada che porta verso un 2050 non peggiore (forse anche migliore) del presente, va senz’altro in questa direzione.