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Discontinuità e nuova normalità per superare il Novecento

Dopo un lungo preambolo, durato due decenni, nel post Covid-19 entreremo pienamente nel XXI secolo? Di certo alcune cruciali questioni, a lungo dibattute, su come andar oltre i limiti del modello sociale e di sviluppo del Novecento, hanno ricevuto una improvvisa accelerazione. Le modalità per affrontare la pandemia e tener sotto controllo il rischio di nuove ondate e nuovi virus, fanno diventare ineludibili (sia in termini culturali che operativi), i temi della sicurezza, della privacy, della salute pubblica diffusa, della gestione del sommerso, del governo della mobilità internazionale, dell’ambiente, del ruolo delle nuove tecnologie, delle competenze digitali e delle modalità di apprendimento. Il come si studia, si lavora, ci si sposta sul territorio, si coopera e si fa vita sociale dovranno fare un salto di qualità, in una direzione però anche tutta da indicare e favorire con strumenti adeguati.

Innovare la formazione per includere con il lavoro

In questi giorni inizia il nuovo anno scolastico per otto milioni di alunni. Molti i problemi e le sfide da affrontare, vale per i singoli ragazzi che stanno costruendo il proprio futuro, ma più in generale vale per il sistema di istruzione che deve mettere in relazione virtuosa il mondo che cambia e la preparazione di nuove generazioni. Una preparazione che non può più essere solo “aggiornata” ma in grado di saper guardare e immaginare oltre.

Per crescere serve una nuova visione del mondo

Supponiamo di perdere fiducia nella crescita e lasciar consolidare l’idea che dopo la crisi economica, anziché una effervescente ripresa seguita da un percorso di solido sviluppo, ci attenda un timido assestamento seguito da un languido declino. Tale atteggiamento negativo porterebbe all’accentuazione di processi di svuotamento di energie e risorse. Assisteremmo ad un continuo incremento di giovani che partono definitivamente per l’estero, una crescente marginalizzazione delle nuove generazioni in Italia, un  affossamento continuo delle nascite, una difesa ad oltranza delle posizioni acquisite, una riduzione della domanda interna, investimenti bloccati, impoverimento del ceto medio e inasprimento delle diseguaglianze.

Ma al di là dell’evitare di generare una profezia negativa che si autoadempie, ci sono buoni motivi per pensare che domani meglio di oggi possiamo vivere bene e sentirci pienamente in gara in un mondo che corre? Non si tratta tanto di sforzarsi a vedere se il bicchiere, rispetto alle nostre aspettative e potenzialità, è mezzo pieno o mezzo vuoto ma sentirsi parte di un processo di svuotamento o di riempimento.

E’ tempo di mettere l’esperienza al servizio dell’innovazione

Non sarà un’impresa facile la guida di Milano nei prossimi cinque anni. Pisapia stesso deve guardarsi dalla sindrome di Lippi, che ritiratosi da ct dopo il successo della nazionale ai mondiali del 2006 si lasciò convincere a tornare sui suoi passi, con esito disastroso. In molti hanno il timore che la Milano di questi ultimi anni somigli alla nazionale che seppe conquistare la coppa del Mondo in Germania: più che l’inizio di una nuova stagione fu solo una felice parantesi. Nei due mondiali successi siamo infatti usciti miseramente al primo turno. Giuliano Pisapia può fare moltissimo a fianco del prossimo sindaco. Si tratterebbe di un segnale culturale di grande rilevanza per un paese come l’Italia che oscilla tra i due estremi della rottamazione e del blocco generazionale. In una società che funziona come dovrebbe, le generazioni cooperano per il comune bene, che in questo caso è la crescita economica e sociale della città. Una collaborazione tanto più  importante per una metropoli in grande trasformazione come Milano.

Togliendo alle nuove generazioni alla fine perdiamo tutti

L’Italia è uno dei paesi sviluppati più squilibrati dal punto di vista generazionale, con lo svantaggio tutto a discapito dei più giovani. Difficile trovare un altro paese nel quale le nuove generazioni subiscono una combinazione tanto sfavorevole in termini di basso peso demografico, enorme debito pubblico ereditato, carenza di misure di investimento e promozione sociale. Rispetto alla media europea la nostra spesa sociale è infatti maggiormente assorbita dalle voci che vanno a protezione della popolazione anziana, come pensioni e sanità pubblica, mentre destiniamo molto meno alle politiche familiari, alle politiche attive del lavoro e a Ricerca e Sviluppo.