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Calo delle nascite. I rischi di un Paese senza fiducia nel futuro

I dati più recenti dell’Istat sulle nascite dovrebbero preoccuparci seriamente, perché – sia guardando alle cause che alle conseguenze – ci dicono che stiamo smantellando le basi su cui ogni società fonda la speranza di un proprio futuro migliore. Il succedersi delle generazioni è l’elemento chiave della dinamica demografica e quindi della continuità del genere umano. Ogni generazione produce, nel corso del proprio corso di vita, beni materiali ed immateriali. Ma c’è un bene ancora più importante rispetto ai flussi economici, sociali e culturali intergenerazionali, si tratta, appunto, dalle nuove generazioni stesse. I membri delle nuove generazioni sono le pietre con le quali una comunità costruisce il proprio solido ponte tra l’oggi e il domani: si possono immaginare le merci più belle e preziose da trasportare, ma se il ponte rimane incompiuto, non potranno mai giungere ad alcuna desiderata destinazione futura.

Facciamo pochi figli, ma servono più incentivi

E’ vero, gli italiani fanno pochi figli, da molti punti di vista. Ne fanno molti meno rispetto ai francesi, agli americani, agli inglesi, agli svedesi e a gran parte del mondo occidentale. Ne fanno molti meno anche rispetto a quanto considerato auspicabile per un equilibrato rapporto tra generazioni. Il numero medio di figli per donna è infatti persistentemente e marcatamente inferiore a due. Il dato Istat più recente è pari a poco più di un figlio e un terzo. Questo significa che stiamo viaggiando con generazioni di figli via via meno consistenti rispetto a quelle dei genitori. In prospettiva ciò porta, anche tenendo conto dei flussi migratori, a rendere il nostro paese uno di quelli con carico maggiore al mondo di anziani sulla popolazione attiva.

Perché l’Italia fa meno figli di tutta l’UE

E’ davvero strano che in Italia la natalità sia così bassa. Si tratta di un record negativo certamente sorprendente. Come mai da oltre un milione di nati negli anni Sessanta siamo precipitati oggi a meno della metà? Come mai nel corso degli anni Ottanta le nascite sono crollate di più in Italia che negli altri paesi sviluppati? Perché, a differenza di altri paesi, non siamo poi più riusciti a risollevarci? E, infine, perché la crisi ha frenato maggiormente le scelte riproduttive delle coppie italiane rispetto al resto d’Europa? Davvero un mistero il fatto che lungo tutto lo stivale non si formino nuove famiglie o ci si fermi al figlio unico. Eppure, come tutti riconoscono, siamo uno dei paesi che negli ultimi decenni hanno maggiormente incoraggiato l’autonomia dei giovani dalla famiglia di origine; che maggiormente hanno rafforzato una entrata solida e stabile delle nuove generazioni nel mercato del lavoro; che più valorizzano, con spazi e opportunità, il capitale umano dei neolaureati; che meno sfruttano e meglio pagano i neoassunti. Beh, se tutto questo fosse vero potremmo dire che abbiamo meno figli perché non li vogliamo. La realtà, purtroppo, è ben diversa e per nulla sorprendente. Siamo uno dei paesi con il record di giovani che vorrebbero lavorare e non ci riescono; con maggior ostacoli per le donne che vogliono sia lavorare che avere figli; con più alto rischio di povertà delle famiglie che vanno oltre il secondo figlio.

Il confronto con la Francia è istruttivo e impietoso. I dati di una comparazione internazionale del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, svolta a luglio 2015, mostrano come tra gli under 30 il numero di figli che mediamente si vorrebbe avere, in assenza di vincoli e ostacoli nella realizzazione dei propri progetti di vita, è abbondantemente sopra a due. Se poi si passa a chiedere quanti bambini realisticamente si pensa di riuscire ad avere, il dato crolla a poco più di un figlio e mezzo in Italia, mentre scende a circa 1,8 in Francia. Ma il dato più interessante è che il numero di figli che poi effettivamente si riesce a realizzare risulta per gli italiani persino peggiore rispetto a quanto realisticamente dichiarato, mentre i francesi si trovano ad averne più di quanto preventivato tenendo conto di possibili difficoltà. Detto in altre parole, quello che accade da noi è che chi a vent’anni si vedeva in una famiglia con tre figli, si accontenta alla fine di averne due o solo uno. Chi puntava ad averne almeno uno si ritrova sempre più a posticipare fino a rinunciare del tutto. Anziché quindi trovarsi in un contesto che incoraggia a dare il meglio e a fare di più, ci si trova ad arretrare rispetto ai propri desideri e alle proprie potenzialità. In Francia, invece, grazie a politiche familiari più solide rispetto al bonus bebè, a un sistema fiscale non penalizzante per chi ha figli, a maggiori e più accessibili servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia, a politiche attive per il lavoro più avanzate, ci si trova ad avere un figlio in più anziché in meno.

Non c’è solo la Francia. I paesi scandinavi hanno un modello diverso. Gli Stati Uniti un altro ancora. Il problema dell’Italia è che non ha un suo modello. Non esiste una bacchetta magica. Non c’è una soluzione unica valida per tutti. Ma ci sono due preoccupazioni cruciali che in altri paesi vengono prese più seriamente e affrontate con più decisione: offrire ai giovani maggiori strumenti di autonomia e maggiori occasioni di inserimento nel mondo del lavoro è una precondizione essenziale per formare nuove famiglie; consentire poi, alle nuove coppie, di andar oltre al primo figlio senza il rischio di dover rinunciare al lavoro di uno dei due, è fondamentale per non rinunciare ad averne altri. Su entrambi questi punti siamo da troppo tempo cronicamente carenti. Ma quello che non capiamo è che sciogliere questi nodi non significa solo fare più figli ed avere una demografia meno squilibrata, significa anche alimentare un modello di sviluppo nel quale giovani e donne organizzano meglio le loro vite, realizzano meglio i propri obiettivi, esprimono in pieno le loro potenzialità. Significa quindi avere una politica che sa mettere desideri e progetti dei cittadini al centro di una società ed una economia che funzionano.

Far di più a Milano anche sulla natalità

C’è un messaggio comune che arriva ai candidati sindaco dalle varie occasioni di confronto con i cittadini: la richiesta di una Milano in cui sia possibile fare di più e vivere meglio rispetto al passato e al resto del paese. Il desiderio è quello di sentirsi a tutti gli effetti parte di una città in grado di misurarsi con il futuro e con il resto del mondo. Su molti indicatori Milano sta sopra la media europea, ma ha le potenzialità per ambire, come tutti riconoscono, a raggiugere posizioni più elevate. Anche sull’occupazione femminile, nonostante la crisi, i dati rimangono incoraggianti staccandosi nettamente dalla disastrosa media nazionale. C’è però un tema rispetto al quale Milano fatica a distinguersi dal resto del paese. E’ quello della natalità.

Riecco il bonus bebè, un’arma spuntata per la natalità

Perché pochi figli?

Riecco il bonus bebè. Qualche giorno fa il ministro Beatrice Lorenzin ha proposto una sostanziale modifica degli importi erogati attraverso la misura, con l’obiettivo dichiarato di evitare il crac demografico.
Lo spostamento dell’agenda in tema di politiche sociali dall’ennesima discussione sulle pensioni a temi più alla radice dei problemi del paese non può che essere valutato positivamente. Tuttavia viene il dubbio che – ancora una volta – si usi uno strumento poco appropriato all’obiettivo dichiarato. In altre parole, il bonus bebè, sia come misura in sé sia per come è stato disegnato in Italia, appare più adatto a contenere l’alto rischio di povertà minorile che a influire in modo significativo sugli anemici tassi di natalità degli ultimi decenni.
Il primo passo per realizzare politiche che aiutino a risollevare la natalità è capire perché in Italia si fanno pochi figli.
La risposta non sta in un maggior egoismo o nichilismo dei cittadini italiani rispetto a francesi e americani. Se noi facciamo in media un figlio e un terzo e loro due non è perché noi ne desideriamo di meno, ma perché riusciamo di meno a mettere i giovani e le coppie italiane nelle condizioni di realizzare in pieno i propri obiettivi riproduttivi.
E allora diventa più utile chiedersi: perché gli italiani non fanno tutti i figli che vorrebbero fare?
Uno dei motivi principali è la condizione di difficoltà e di adattamento al ribasso che blocca non solo le ambizioni lavorative, ma ancor più i progetti di vita futuri dei giovani-adulti. I dati dell’indagine “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo mostrano come nei confronti del lavoro sia aumentata la preoccupazione del reddito adeguato, tanto da far mettere in secondo piano l’autorealizzazione.
La situazione di incertezza li porta a posticipare le tappe di entrata nella vita adulta. Subentrano poi le difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia. Di rinvio in rinvio, alla fine ci si trova a non aver avuto il numero di figli desiderato. Secondo i dati Istat, le donne rimaste del tutto senza figli sono salite dall’11 per cento nella generazione del 1950 (che ha concluso la sua storia riproduttiva alla fine del secolo scorso) al 21 per cento della generazione del 1970 (le nuove over 45).

A cosa serve il bonus?

Per come è disegnato, il bonus bebè è una misura di sostegno al reddito per coppie la cui situazione economica è poco florida. Si tratta in sostanza di un trasferimento monetario non condizionato alle famiglie a basso reddito. Il finanziamento non è vincolato a null’altro che alla prova di mezzi e la misura si estende solamente ai figli fino ai tre anni di età. Di fatto, la descrizione corrisponde a una politica di contrasto alla povertà tra le famiglie con figli sotto i quattro anni, cui tuttavia mancano misure di disegno e inclusione attiva e forme di controllo su come gli importi trasferiti vengano utilizzati. Intendiamoci, dati gli elevati livelli di povertà tra minori si tratta comunque di una misura positiva, ma è ben lungi dall’essere efficace per stimolare i tassi di natalità.

Come alzare davvero i tassi di fecondità

Se è comunque un bene mettere al centro del dibattito pubblico il sostegno alle famiglie, è ancor più importante predisporre misure efficaci in grado di restituire la fiducia di vivere in un paese che funziona e che incoraggia a fare scelte di impegno positivo verso il futuro.
Il bonus bebè non offre alle nuove generazioni le sicurezze di cui hanno bisogno prima di “avventurarsi” nella genitorialità. C’è una lunga serie di misure che lo stato può implementare e che sarebbero più appropriate per favorire la scelta di avere un figlio. Ne elenchiamo alcune (per una riflessione più ampia su approccio e misure si veda “Generare futuro”).

  1. Innanzitutto bisogna favorire l’accesso alla casa e al lavoro (stabile). Il Jobs act sembra essere un buon passo in questa direzione. Ma per l’occupazione giovanile e femminile bisogna fare di più. In questo senso la “Garanzia giovani” è lontana dall’essere una politica di successo.
  2. È poi necessario migliorare la possibilità di rimanere nel mercato del lavoro per le coppie con figli. Questo vuol dire servizi di accudimento a costi accessibili fino ai tre anni, ma anche attività rivolte ai bambini più grandi (fino almeno ai 14 anni) negli orari e periodi dell’anno in cui le scuole sono chiuse. Su questo punto negli ultimi anni si sono registrati forti tagli da parte dei comuni. E che fine hanno fatto i mille asili in mille giorni promessi dal presidente del Consiglio e dal ministro Graziano Delrio? Su passodopopasso.italia.it non se ne trova traccia.
  3. Bisogna incentivare i padri a fare la loro parte. Sono molte le ricerche che mostrano che si fanno più figli quando i padri sono più partecipi alla vita familiare. Due giorni di paternità obbligatoria sono solo simbolici, serve di più.
  4. Bisogna, infine, dare più stabilità alle politiche – anche a quelle di trasferimenti economici. Le misure episodiche, con finanziamenti insufficienti e limitati nel tempo possono essere un ottimo strumento di acquisizione del consenso elettorale, ma sono cattive politiche. Gli italiani sanno bene che i governi passano, mentre i figli rimangono.