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Guardando al futuro, «benvenuti, bambini!»

Nelle società moderne avanzate una fecondità attorno ai due figli per donna consente alla popolazione un adeguato ricambio generazionale. Quasi tutti i Paesi occidentali sono però scesi sotto tale soglia, anche se si possono distinguere tre diverse categorie. La prima è quella dei Paesi in cui la fecondità si è mantenuta su livelli vicini a tale soglia. La seconda è quella di quelli scesi molto sotto, ma poi, con investimento solido in politiche efficaci, sono recentemente risaliti su valori vicini alla media europea. La terza è quella dei Paesi con fecondità molto bassa e che non presentano segnali di ripresa. Tra i grandi Paesi europei la Francia appartiene al primo gruppo, la Germania al secondo, l’Italia al terzo.

Nel 2018 le nascite nel nostro Paese hanno battuto il record negativo dell’anno precedente e nei primi sei mesi del 2019 il dato è ulteriormente peggiorato rispetto al 2018. Gli squilibri strutturali prodotti sono tali che nel nostro Paese il numero di nati è sceso sotto il numero di ottantenni.

Nel suo tradizionale Discorso alla città l’arcivescovo dedica parole molto forti e sentite alla crisi demografica (cfr. Benvenuto, futuro! primo capitolo «Benvenuti, bambini!», ndr). Le conseguenze negative sono preoccupanti «sia per il mondo del lavoro, sia per la sostenibilità dell’assistenza a malati e anziani, sia per il funzionamento complessivo della società». Il «Laboratorio futuro» dell’istituto Toniolo ha presentato recentemente una ricerca che evidenzia gli scenari a cui va incontro il Paese se non inverte la rotta. Un Paese con record di debito pubblico e con accentuato invecchiamento della popolazione se non investe in una solida e qualificata presenza delle nuove generazioni rischia il tracollo. Ma «ancora più inquietanti sono le radici culturali» del fenomeno. Quella che è entrata in crisi è l’idea di un futuro migliore che impegni le scelte personali e collettive del presente.

La scelta di avere figli è diventata sempre meno scontata nel mondo occidentale. Se in passato la condizione comune era quella di averne e la decisione si esercitava esplicitamente in riduzione, oggi la situazione si è ribaltata. La condizione comune è quella di non averne e la scelta viene esercitata in aggiunta. In particolare, in Italia il numero di donne con meno di due figli è salito da circa una su tre tra le nate negli anni Cinquanta a una su due per le nate a fine anni Settanta, rischia quindi di diventare una condizione maggioritaria nelle generazioni successive.

Nel nostro Paese, a parità di numero di figli desiderato, maggiore è la posticipazione continua che diventa poi spesso rinuncia, a causa di vari motivi intrecciati. Il primo è il fatto che un figlio in Italia è più considerato un costo privato dei genitori anziché un bene collettivo che rende più solido il futuro di tutta la società. Questo è intrecciato anche al secondo motivo, ovvero la cronica carenza di politiche pubbliche a sostegno delle famiglie con figli, sia in termini fiscali sia di servizi per l’infanzia. A sua volta intrecciato con il terzo motivo, ovvero con la sensazione di abbandono che hanno percepito i giovani italiani nel percorso di transizione alla vita adulta e le giovani famiglie durante la crisi economica. Non è un caso che i Paesi che vedono oggi un andamento più favorevole della natalità sono quelli che sono intervenuti con più forza, in termini di politiche familiari e di autonomia dei giovani, proprio durante la recessione. Dove questo non è avvenuto è cresciuto un diffuso senso di insicurezza verso il futuro che anziché stemperarsi dopo la crisi sembra essere sceso in profondità. Anche la Lombardia e anche Milano hanno subito questo effetto.

Il caso di Milano è particolarmente interessante perché la città si è posta in condizioni favorevoli su tre cruciali aspetti, in controtendenza rispetto al resto del Paese. Il primo è il clima di aspettative crescenti che si è creato, che consolida l’idea di potersi inserire in un processo di opportunità crescenti e dinamismo economico. Il secondo è quello dell’attrazione di giovani intraprendenti. Il terzo è l’occupazione femminile, quantomeno nella città, su livelli comparabili al resto d’Europa.

Perché però questi elementi favorevoli possano essere intesi come parti di un vero e proprio modello sociale e di sviluppo che metta le basi di un solido futuro, è necessario che i giovani, anche quelli che partono da condizioni più svantaggiate, trovino effettive opportunità di mobilità sociale e che i progetti professionali si possano integrare al rialzo con i progetti di vita. I dati sul tasso di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) che continua ad essere più alto rispetto alla media europea e sul tasso di fecondità, addirittura più basso rispetto alla media italiana, dicono che anche questa città ha bisogno di consolidare una propria prima spinta endogena prima di poter dire, con forza e convinzione, «Benvenuto, futuro!».

Per una ripresa della natalità

Il XX secolo è stato un periodo di forte accelerazione della crescita demografica del pianeta, crescita dovuta all’inedito successo nella riduzione dei rischi di morte, a partire dalle età infantili e poi via via nelle successive età della vita. Siamo entrati nel nuovo secolo con l’idea di rendere ovunque normale la possibilità che un nuovo nato possa vivere tutte le stagioni della vita fino a quelle più avanzate. Vivere a lungo è certamente un obiettivo positivo, che va però accompagnato da scelte in grado di riempire di qualità e valore gli anni aggiuntivi. L’invecchiamento della popolazione è però anche accentuato dall’altro grande processo che caratterizza la transizione demografica: la riduzione della natalità.

La fecondità media su tutto il pianeta è attorno a 2,5 figli ed è prevista scendere sotto il valore di 2 entro la conclusione di questo secolo. Fino a poco più di un secolo e mezzo fa il numero medio di figli per donna era attorno o superiore a 5 in tutti i paesi del mondo. Un livello che oggi consideriamo alto ma che consentiva di compensare l’elevata mortalità infantile. In ogni caso per tutta la storia dell’umanità, fino a qualche generazione fa, la grande maggioranza della popolazione non sceglieva quanti figli avere, semplicemente si formava una unione di coppia e poi i figli arrivavano senza che nella testa dei genitori ci fosse un numero atteso. Oggi solo 36 paesi si trovano ancora con una fecondità su quei livelli, 33 dei quali concentrati nell’Africa sub-sahariana.
La prima fase di riduzione rispetto agli elevati valori del passato è avvenuta per sottrazione. Ovvero la norma era avere figli e la scelta che veniva esercitata era quella di averne di meno, a partire dai ceti più istruiti. Molti paesi di diversi continenti — come India, Indonesia, Messico, Egitto — si trovano attualmente in questa fase. Le società della modernità più avanzata sono entrate, invece, in una ulteriore fase, nella quale è diventato sempre meno scontato avere figli. La scelta opera quindi in aggiunta — spinta da motivazioni personali e favorita da un contesto adatto — senza la quale la condizione di base rimane il non avere prole.
In questo passaggio il numero desiderato è rimasto comunque mediamente vicino a due, ma ad avvicinarsi maggiormente alle proprie preferenze al rialzo sono soprattutto le persone che si trovano con maggiori risorse socioculturali, in contesti con migliori servizi e maggior investimento in politiche familiari. Qui possiamo distinguere tre gruppi di Stati all’interno della stessa Europa. Il primo gruppo è formato da paesi come Francia e Danimarca, che non sono mai scesi troppo sotto la soglia dei due figli per donna (che equivale alla soglia di sostituzione generazionale), grazie a una attenzione continua verso misure a supporto della natalità. Il secondo gruppo contiene la Germania e altri paesi dell’Est Europa, che dopo essere scesi su livelli più vicini a uno che a due figli, recentemente hanno fortemente investito in politiche familiari ottenendo i migliori risultati in termini di ripresa delle nascite. L’ultimo gruppo ha al suo interno paesi come l’Italia e la Spagna, che invece continuano a presentare una fecondità persistentemente bassa senza segnali di ripresa.
L’Italia, in particolare, è diventata l’area con meno bambini in Europa, con squilibri tali da trovarsi oggi con più ottantenni che nuovi nati. Ma anche all’interno del territorio italiano si riscontrano differenze rilevanti nella direzione attesa. La fecondità è crollata maggiormente nelle regioni del Sud, in particolare dove l’occupazione giovanile è più bassa e gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia sono più carenti, come mostrano analisi territoriali con corretti indicatori. La provincia di Trento e quella di Bolzano risultano invece quelle in cui si stanno sperimentando le politiche più interessanti e solide, assieme ad altri specifici comuni, con risultati incoraggianti.
L’Italia può dimostrare che è possibile tornare a essere un paese vitale, mettendo al centro delle proprie politiche pubbliche il sostegno alle scelte desiderate e di valore delle nuove generazioni, in modo che non diventino frustrazione e rinuncia, ma successo nell’arricchire progetti di vita che rendono più solido il futuro comune. Esiste certo anche una questione culturale, ma riguarda prima di tutto quanto un figlio è considerato un costo privato o invece, e soprattutto, un bene collettivo sul quale tutta la società investe. E su questo punto l’Italia è senz’altro tra i paesi meno virtuosi.

Il terremoto demografico in corso in Italia

In Italia è in corso un terremoto demografico. Non ce ne preoccupiamo troppo perché la struttura demografica di una popolazione muta lentamente, ma gli effetti sono poi implacabili. Il possibile crollo o meno di un edificio a seguito di un terremoto dipende dall’entità dei danni sulle strutture portanti. Nel caso di una popolazione il pilastro portante è costituito dalle età centrali adulte, quelle che maggiormente contribuiscono alla crescita economica e al finanziamento del sistema di welfare pubblico.

A mettere a repentaglio questa struttura non è l’aumento della longevità, che consente alle nuove generazioni di spingersi sempre più in avanti rispetto alle fasi della vita. La sfida che essa pone è, semmai, quella di aggiungere qualità agli anni in più guadagnati. Se, infatti, la popolazione nelle età centrali lavorative rimane consistente e migliorano le opportunità di lunga vita attiva, la longevità oltre che essere un processo positivo è anche sostenibile. Ciò che produce squilibri nella popolazione è invece la riduzione del contingente iniziale di ciascuna nuova generazione, ovvero la diminuzione delle nascite. La denatalità italiana ha prima ridotto la popolazione infantile, poi quella giovanile e ora sta iniziando a erodere sempre più anche le età adulte.

Se quindi finora il processo di invecchiamento della popolazione è stato sorretto da una presenza solida di popolazione nell’asse portante dell’età attiva, nei prossimi anni non sarà più così. In particolare le classi centrali lavorative andranno progressivamente a indebolirsi come mai in passato. Tutto questo avverrà più in Italia che altrove in Europa perché, a parità di longevità (sui livelli dei paesi più avanzati), il crollo delle nascite è stato da noi più rilevante e persistente.

Il rischio è quello di veder indebolire progressivamente il pilastro produttivo del Paese per il combinarsi di un basso peso demografico con una bassa partecipazione effettiva al mercato del lavoro. Attualmente la fascia d’età centrale della vita attiva del Paese è quella tra i 40 e i 44 anni. Tra dieci anni si sposteranno in tale posizione cruciale gli attuali 30-34enni che risultano essere oltre un milione in meno. Quest’ultima classe di età presenta però anche un basso tasso di occupazione (68,4%, dato riferito al 2018), sia rispetto agli altri paesi europei (la media Ue-28 è pari all’80,0%), sia rispetto alle generazioni precedenti alla stessa età. In particolare, gli attuali 40-44enni italiani presentavano un tasso di occupazione pari a 74,8% dieci anni fa (quanto avevano 30-34 anni).

Il campanello d’allarme – come mostra dettagliatamente il report di Laboratorio futuro dell’Istituto Toniolo – non viene suonato solo dalle condizioni oggettive (l’Italia presenta anche una delle più basse percentuali di laureati e più alta incidenza di Neet in Europa nella fascia 30-34 anni), ma anche dalla percezione che i giovani-adulti stessi hanno della loro condizioni e delle loro prospettive. Oltre uno su quattro teme di trovarsi senza un lavoro quando avrà 45 anni. Spiccata è però anche la differenza per titolo di studio, in particolare il rischio percepito di doversi rassegnare a non avere una occupazione al centro della vita adulta è tre volte tanto per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo rispetto ai laureati.

Da qui bisogna allora ripartire, ovvero da percorsi solidi di formazione e da efficienti servizi, alla pari delle migliori esperienze degli altri paesi avanzati, che consentano alle persone di riqualificarsi e reinserirsi attivamente nel mondo del lavoro. Ed è soprattutto tempo di prendere consapevolezza del fatto che il problema non è tanto il lavoro che manca ai giovani, ma la presenza qualificata delle nuove generazioni che sta diventando sempre più scarsa nei nostri processi di produzione di ricchezza e benessere.

Fare nascere i figli, e fare loro spazio. Perché partire non sia obbligo

La combinazione della lettura del recente “Atlante sull’infanzia a rischio” di Save the Children e del “Rapporto italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes, presentato ieri, fornisce un ritratto implacabile del disinvestimento quantitativo e qualitativo dell’Italia sulle nuove generazioni. Da troppi anni ci ritroviamo ad aggiornare in negativo i dati sulle nascite, sulla povertà educativa e sul saldo negativo dei diplomati e laureati verso l’estero.

Il rischio è che il nostro Paese non riesca più a invertire la tendenza, avvitandosi in un circolo vizioso di decremento delle nuove generazioni e di deterioramento delle condizioni che consentono a esse di dare e ottenere il meglio nei processi di produzione di nuovo benessere in questo secolo. Una spirale negativa accentuata, appunto, dal flusso crescente di giovani preparati e intraprendenti che vanno ad arruolarsi nella forza lavoro di altri Paesi, rafforzando così il loro vantaggio competitivo a scapito dell’Italia. Spesso con molto rammarico dei giovani stessi che non capiscono perché quello che gli viene riconosciuto all’estero e che riescono a realizzare con successo, fosse tanto complicato da ottenere nel loro territorio di origine. Eppure, come mostrano i dati del “Laboratorio futuro” dell’Istituto Toniolo, l’Italia nei prossimi dieci anni avrà grande necessità di rafforzare i percorsi professionali delle nuove generazioni per rispondere agli squilibri demografici che stanno indebolendo il centro della vita lavorativa.

Per farlo serve un ‘progetto Paese’ in grado di mettere in relazione positiva le specificità dell’Italia con i processi di cambiamento del Ventunesimo secolo, assegnando alle nuove generazioni, adeguatamente rafforzate e preparate, un ruolo centrale nel realizzarlo. E invece continuiamo a destinare meno della media europea alle politiche familiari, cosicché ci troviamo ad avere uno dei tassi di fecondità tra i più bassi del continente; a spendere di meno in formazione, cosicché ci troviamo con alta dispersione scolastica e bassa quota di laureati; a investire di meno in welfare attivo, ricerca e sviluppo, cosicché ci troviamo con più alta incidenza di Neet (gli under 35 che non studiano e non lavorano) e con largo sottoutilizzo del capitale umano dei giovani più qua-lificati (come documentato nel Rapporto annuale 2019 dell’Istat).

Tutto questo, oltre a indebolire la crescita del Paese, alimenta anche le diseguaglianze sociali, perché condiziona la possibilità di successo formativo e professionale al supporto della famiglia di origine. Di fatto, i giovani laureati con solide risorse socioculturali di partenza sono coloro che più possono scegliere se rimanere in Italia o andare all’estero per una esperienza temporanea che può poi diventare definitiva. Chi invece ha alto titolo di studio, ma scarso sostegno familiare, in un contesto di meccanismi inceppati di mobilità sociale, si trova a dover utilizzare la mobilità territoriale per necessità, ovvero per non essere intrappolato in un lavoro di basso profilo professionale. Chi invece ha basso titolo di studio si vede spesso preclusa la stessa possibilità di usare l’opzione estero o, nel caso, a rischiare più facilmente di trovarsi a fallire lontano da casa. Per costruire un futuro migliore è allora necessario tornare a prendersi cura delle scelte del presente, quelle che danno spazio al nuovo che nasce, che cresce e si forma in maniera solida, che è incoraggiato a portare la sua novità nella società e nel mondo del lavoro. Se le scelte che crescono sono quelle del rinunciare (ad avere figli) e dell’andarsene (dove vengono offerte migliori prospettive) non significa che l’Italia abbia smesso di essere un terreno fertile, ma che si è indebolito l’impegno collettivo a coltivarlo. È da questo impegno allora che dovremmo tutti assieme ripartire, per evitare che sempre più giovani decidano di partire.

Nell’Italia che invecchia creare opportunità di lunga vita attiva

Il modo più sicuro per prevedere qualcosa, suggeriva Ionesco, è semplicemente di attendere che accada. Esiste però un modo migliore, anche se forse meno sicuro, ed è quello di farla accadere. Questo è ciò che invitava a fare Abraham Lincoln, al quale è attribuita la frase “The best way to predict the future is to create it”.

Il secondo modo migliore è quello di usare i dati demografici. Non sappiamo nel 2050 quale sarà il prodotto interno lordo, o la percentuale di famiglie sotto la soglia di povertà, o il tasso di occupazione giovanile, ma siamo in grado con buona confidenza di indicare quanti saranno gli over 65.

Più in generale, possiamo considerare la struttura demografica della popolazione come l’impalcatura solida sulla quale costruire, con lo spirito di Lincoln, il nostro futuro sociale ed economico. Ma se da un lato la demografia aiuta ad anticipare alcuni aspetti del cambiamento, dall’altro è implacabile per chi la ignora e non mette per tempo in atto le scelte giuste.

La carenza di efficaci politiche familiari ha portato l’Italia a ridurre drasticamente le nascite, con un crollo evidente a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. La crisi economica ha peggiorato ulteriormente la situazione, tanto che i nati nel 2018 sono scesi sotto il numero degli ottantenni. Con tali dinamiche, prendendo lo scenario mediano delle previsioni Istat, ci troveremo nell’Italia del 2050 non solo con circa sei milioni di over 65 in più rispetto ad oggi, ma anche con quasi altrettanti abitanti in meno tra i 30 e i 64 anni.

Questi dati ci dicono che i tre decenni che rimangono da attraversare nella prima parte del XXI secolo sono quelli in cui il rapporto tra popolazione anziana e popolazione attiva diventerà più squilibrato. In particolare, il tasso di dipendenza degli anziani salirà dal 36 al 63 percento. Il forte aumento di tale indicatore può essere considerato come una delle poche certezze del nostro futuro. Nello scenario migliore potrebbe fermarsi a 57, in quello peggiore salire al 70 percento, in funzione soprattutto delle dinamiche della natalità e dell’immigrazione. In ogni caso, secondo tutti gli scenari, aumenterà sensibilmente per poi stabilizzarsi nella seconda metà del secolo sugli alti livelli raggiunti. Questa tendenza non vale solo per il sistema paese ma anche all’interno delle singole organizzazioni.

Quella che pone la demografia è, infatti, una sfida collettiva che chiama in causa l’impegno comune per la costruzione di un futuro più solido a partire dalle scelte di oggi. Su come far maturare la giusta consapevolezza siamo pressoché all’anno zero, con l’atteggiamento pubblico nei confronti delle trasformazioni demografiche che continua ad oscillare tra la rimozione e la drammatizzazione. Nella nostra storia recente ci siamo trovati da un lato con governi che guardavano soprattutto all’impatto dell’invecchiamento sulla spesa pubblica, cercando soluzioni che potevano essere utili per la tenuta futura del bilancio ma non necessariamente funzionali nella vita delle persone. Ma anche, d’altro lato, con governi interessati solo al presente, al consenso elettorale, ben disposti ad assecondare reazioni difensive rispetto al cambiamento, perdendo così di vista sia la valorizzazione delle potenzialità dei singoli sia i costi per le generazioni future.

E’ invece necessario adottare ad ogni livello un approccio di base nuovo, che metta al centro le scelte consapevoli dei cittadini e la capacità di generare valore in tutte le fasi della vita. La questione non è, allora, tanto chiedersi oltre quale età bisogna o meno tenere al lavoro le persone, ma come sviluppare e rendere disponibili strumenti culturali e operativi che favoriscano la possibilità di rimanere attivi a lungo e in modo soddisfacente. Serve un approccio win-win-win, che parta però da ciò che funziona con le persone, per passare a ciò che rende più competitive le aziende (comprese quelle piccole e medie), per poi arrivare a ciò che migliora i conti pubblici dello stato. Detto in altro modo, non si tratta di partire dalla spesa pubblica da ridurre, operazione dalla quale non necessariamente derivano maggior qualità del lavoro, maggior produttività, maggior benessere e ricchezza prodotta. Ma puntare, piuttosto, alle opportunità di ciò che crea valore con le persone: favorendo salute e impegno attivo lungo tutto il corso di vita si ottiene anche maggior contributo alla crescita economica e minor costo sociale, con conseguente welfare più sostenibile.

Tale valorizzazione è possibile perché il cambiamento connesso con il processo di invecchiamento non è solo quantitativo ma anche, anzi soprattutto, qualitativo. Mentre la crescita quantitativa è destinata poi a stabilizzarsi, il cambiamento qualitativo è invece un processo in continua evoluzione: è quindi soprattutto a questo secondo che ci si deve preparare, usando l’urgenza posta da primo.

Da quando la transizione demografica ha preso avvio, ogni generazione arriva in età matura in condizioni fisiche e capacità cognitive migliori rispetto alle precedenti. Se, in particolare, la fase dopo i 60 anni va considerato un terreno via via sempre più fertile che in passato, è però anche vero che per dare i suoi migliori frutti deve essere coltivato con nuovi efficaci strumenti. Questi strumenti, che vanno sotto il nome di Age management, sono ancora poco promossi e sviluppati nel contesto italiano. Agire in questa direzione non significa pretendere che chi ha 65 anni sia in grado di fare le stesse cose (e allo stesso modo) di quando ne aveva 45, ma metterlo nelle condizioni di fare meglio e di più rispetto a un 65enne di vent’anni fa. Visto in prospettiva, questo significa consentire agli attuali 45enni di essere, tra vent’anni, nelle condizioni di poter far meglio e di più rispetto ai 65enni di oggi.

Otre ai dati sull’invecchiamento della popolazione, è allora possibile prevedere con una certa sicurezza che le aziende e le economie nazionali più dinamiche e competitive nei prossimi decenni saranno quelle che più stanno investono oggi sul miglioramento di tali condizioni.