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Meno nati, meno attivi?

L’indicatore che misura il rapporto tra anziani e popolazione in età attiva (indice di dipendenza degli anziani) è uno di quelli guardati con più attenzione dalle economie avanzate. Se tale rapporto aumenta significa che nella bilancia demografica il peso si sposta dal piatto dell’età in cui si fa crescere l’economia (e si fa funzionare il sistema di welfare) a quello dell’età in cui maggiormente si assorbono risorse pubbliche per assistenza sanitaria e pensioni. I dati ci dicono che il rapporto tra over 65 e popolazione tra i 20 e i 64 anni nella popolazione mondiale è salito da valori attorno al 10% nel 1960 al dato attuale superiore al 15%, con la prospettiva di arrivare oltre il 28% nel 2050 secondo lo scenario centrale delle Nazioni Unite (World Population Prospects 2019).

Smartworking: da ripiego a risorsa

La pandemia ci ha collocati in una condizione di tempo sospeso. Molte cose che si potevano fare prima non sono più possibili. Molte altre che vorremmo, invece, organizzare in modo diverso non sono ancora pienamente praticabili. Già, però, prima dell’emergenza sanitaria si discuteva del fatto che l’entrata nel nuovo millennio ci collocava tra un “non più” da lasciare nel Novecento e un “non ancora” coerente con le trasformazioni in atto ma non facile da riconoscere, far emergere nel modo migliore e consolidarsi.

Rendere il nido un effettivo diritto per tutti

Se la bassa fecondità può essere dovuta a vari motivi, nei contesti con alta occupazione femminile e fecondità vicina ai due figli per donna difficilmente manca una solida e accessibile offerta dei nidi. Si tratta quindi di una condizione (non sufficiente ma) necessaria nei paesi che vogliano sostenere al rialzo l’investimento sul lavoro, sia di uomini che di donne, e la realizzazione del numero desiderato di figli. Oltre a rispondere alla domanda di conciliazione i servizi per l’infanzia rivestono (ancor più) una funzione cruciale per lo sviluppo socio-educativo delle persone a partire dalla nascita.

Crollo della forza lavoro e mancanza di politiche efficaci contro il declino

La nostra penisola alla fine del secolo scorso è diventata uno dei paesi con più bassa fecondità al mondo e con maggiore contrapposizione, al proprio interno, tra crescita della fascia anziana e diminuzione di quella più giovane. L’evoluzione in direzione opposta di tali due componenti ha portato la fascia degli under 25 a dimezzarsi nel corso del secondo dopoguerra e ad essere superata, nel 2019, dalla fascia degli over 65.

In questa fase l’interesse del paese è rimasto concentrato sulla popolazione anziana e sulle implicazioni della sua crescita. Mentre il processo di “degiovanimento”, ovvero la riduzione sistematica del peso delle nuove generazioni, non è stato quasi per nulla preso in considerazione non incidendo sulla spesa pubblica. L’impatto della grande recessione del 2008 ha reso, poi, ancor più fragile la condizione delle nuove generazioni e rallentato il loro ingresso solido nel mondo del lavoro. Nel contempo anche le politiche familiari sono rimaste tra le meno sviluppate in Europa.

Da un lato, la denatalità passata, dopo aver ridotto il peso dei giovani è andata successivamente ad erodere sempre più anche la potenziale forza lavoro, d’altro lato le dinamiche più recenti delle nascite hanno mostrato un ulteriore peggioramento scendendo sui livelli più bassi di tutta la storia del paese.

L’Italia, tra la grande recessione del 2008 e la pandemia del 2020, si è trovata quindi ad entrare in un’inedita fase. I due fatti nuovi sono l’inizio di un secolare processo di declino dell’ammontare della popolazione, anticipato rispetto al resto d’Europa, e la contrazione della componente attiva della popolazione, più accentuato rispetto alle altre economie mature avanzate. Detto in altro parole, se nei decenni precedenti il rapporto tra popolazione anziana e popolazione in età attiva era peggiorato per l’esuberante crescita del numeratore, ora a tale peggioramento contribuiva sempre più anche l’indebolimento del denominatore. In particolare, sempre nel 2019, la fascia 30-34 anni risultava essersi ridotta di circa un terzo rispetto ad inizio secolo. A quel punto le implicazioni del processo di “degiovanimento”, ovvero la riduzione della forza lavoro con l’ingresso di nuove generazioni demograficamente sempre più deboli, non potevano più essere ignorate.

L’Italia si è presentata all’appuntamento con la crisi sanitaria del 2020 come uno dei paesi in Europa con meno giovani, meno inseriti nel mondo del lavoro (record di under 35 che non studiano e non lavorano), con età più tardiva di conquista della piena autonomia economica, con maggior riduzione delle donne in età riproduttiva, con più bassa fecondità in generale. Tutti aspetti sui quali l’impatto della crisi causata da Covid-19 ha prodotto un ulteriore peggioramento.

Per il percorso successivo l’Italia ora ha di fronte tre futuri possibili. Nel primo, dopo la discontinuità prodotta dalla pandemia il paese continua a presentare sostanzialmente gli stessi freni e limiti della sua storia precedente. A questo futuro corrisponde un’evoluzione demografica ben rappresentata dallo scenario “basso” delle proiezioni Istat (le ultime disponibili, con base 2018). Il numero medio di figli per donna rimane sotto 1,3, bloccato ai livelli peggiori in Europa. Di conseguenza le nascite vanno ulteriormente a ridursi e il rapporto tra popolazione anziana e giovane-adulta ad aggravarsi, portandosi su livelli incompatibili con qualsiasi prospettiva di sviluppo nella dimensione economica e sociale. In particolare, all’orizzonte del 2050, la popolazione in età da lavoro arriva a perdere oltre 9 milioni di persone a fronte di un aumento di almeno 4,5 milioni di over 65.

Il secondo dei futuri possibili non porta ad esiti finali molto diversi dal primo. E’ quello in cui il paese mette in campo alcune misure a favore delle nuove generazioni e delle famiglie, ma senza portarsi ai livelli delle politiche più avanzate in Europa. Partendo dalle posizioni peggiori nell’Unione – sia in termini di squilibri demografici che di diseguaglianze sociali, oltre che di debito pubblico – senza una forte spinta iniziale l’Italia non riesce a risollevarsi per mettersi a correre e recupere lo svantaggio accumulato. L’evoluzione che ne deriva è un temporaneo rialzo delle nascite nella ripresa post pandemia ma senza che si agganci a un vero e solido processo di inversione di tendenza. In questo caso, nel medio e lungo periodo non si arriva a distinguersi in modo sensibile dal precedente scenario.

Il terzo futuro possibile è invece quello in cui l’Italia adotta misure efficaci a favore dei percorsi formativi e professionali delle nuove generazioni (qualsiasi sia il genere, la provenienza territoriale e sociale) e politiche familiari sia allineate al meglio delle migliori esperienze europee (il meglio che si può ottenere dal Family act), sia integrate con le politiche di sviluppo del paese nella nuova fase post pandemia (il meglio che si può ottenere dal Pnrr). Questo consente di riorientare il percorso del paese e fargli cogliere, prima che sia definitivamente troppo tardi, il sentiero stretto di un aumento della fecondità in grado di più che compensare la riduzione della popolazione in età riproduttiva. Solo in questo caso le nascite tornano a salire e, in combinazione con flussi migratori coerenti e integrati con il modello economico e sociale, possono fare davvero la differenza tra un futuro in cui il peso degli squilibri demografici (e del debito) sono sostenibili e uno in cui il destino di scivolamento ai margini dei processi più virtuosi di sviluppo nella parte matura di questo secolo sono irreversibilmente preclusi.

Questo terzo futuro andrebbe a collocarsi tra lo scenario mediano e quello “alto” delle proiezioni Istat al 2050. La popolazione totale continuerebbe a diminuire, ma le dinamiche più positive di nascite e migrazioni porterebbero quantomeno a dimezzare la perdita della popolazione in età lavorativa. Una contrazione quantitativa ricondotta così a livelli tali da poter in buona parte essere compensata da un aumento della partecipazione giovanile e femminile al mercato del lavoro, oltre che da condizioni favorevoli per una lunga vita attiva. L’esperienza di altri paesi europei mostra, del resto, che dove migliora la valorizzazione di tali componenti nel mondo del lavoro, in combinazione con ben mirate e calibrate politiche abitative e familiari, si mettono i cittadini nelle condizioni di realizzare i propri progetti di vita migliorando le proprie condizioni di benessere e diventando parte attiva di processi di sviluppo sostenibile.

Cari italiani del 2050, voi certo ben sapete in quale di questi tre possibili futuri vi trovate. Ma presto lo scopriremo anche noi, perché a rivelarlo sarà l’andamento delle nascite nei prossimi anni. Se la ripresa sarà timida e breve il paese non avrà più la possibilità di contrastare gli squilibri che lo portano verso lo scenario “basso”, rendendo sempre più difficile tenere il passo con le condizioni di sviluppo del resto d’Europa. Purtroppo voi non potete tornare indietro nel tempo e venire ad avvisarci, ma i dati demografici qualche indicazione potrebbero darla a chi oggi sa e vuole ascoltare.

Under 25 in via d’estinzione. Il vecchio continente sta diventando una profezia

Se in una carta geografica si rappresenta l’estensione di un’area in base al peso della popolazione, nel planisfero del 1950 l’Europa si troverebbe ad occupare oltre il 20% di tutta la superficie terrestre. La versione dinamica di questo particolare cartogramma farebbe vedere come all’inizio del XX secolo tale spazio fosse ancora maggiore, arrivato a superare il 25%. Se invece ci si sposta verso il presente, si nota che l’Europa si riduce fino a dimezzarsi. Il valore attuale è infatti inferiore al 10%. Se mai in passato il nostro continente ha avuto così tanti abitanti come oggi, è anche vero che mai nella storia moderna è stato relativamente così piccolo rispetto al resto del mondo.