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Debito e sostenibilità, la sfida demografica incombe sui conti italiani

Nota a cura di Massimo Bordignon, Leonardo Ciotti, Alessandro Rosina e Nicoletta Scutifer

La crisi demografica rappresenta una delle principali fonti di preoccupazione per la sostenibilità delle finanze pubbliche e il finanziamento del sistema di welfare in molte economie mature. Questo è particolarmente vero per l’Italia, che è già gravata da un elevato debito pubblico e che presenta le peggiori prospettive demografiche tra tutti i principali Paesi europei. Le stime contenute nel Def 2023 catturano bene questo scenario, con un debito pubblico su Pil che, in assenza di interventi, si inerpica fino al 180 per cento entro il 2050 generando seri rischi di sostenibilità finanziaria. Ma non è obbligatorio arrendersi a questo scenario. Per il futuro dell’Italia e anche per garantire sistemi adeguati di sostegno alle persone, serve un approccio integrato che combini assieme politiche per la natalità, per evitare che in futuro la crisi demografica si autoalimenti con sempre minor donne in età fertile, con politiche per aumentare i tassi di occupazione, troppo bassi nei confronti internazionali, e politiche di attrazione di un maggior numero di immigrati con competenze più elevate. Ciascun intervento sosterrebbe l’altro, in un circuito che può diventare virtuoso, come mostra l’esempio tedesco. L’alternativa, ossia rimandare il problema facendo finta che non esista, può risultare disastrosa.

Le stime sulla sostenibilità del debito pubblico italiano nel lungo periodo riportate nel Def 2023 meritano di essere riprese e discusse con attenzione. Mentre nel breve periodo, a seconda dei diversi scenari ipotizzati, la traiettoria del rapporto debito/Pil resta confortante, seppur legata all’attuazione di politiche severe di controllo della dinamica della spesa, nel lungo periodo la situazione si inverte e il debito rischia di crescere fino a livelli insostenibili. Anche questo scenario naturalmente risente di ipotesi specifiche (che discutiamo in dettaglio più avanti), ma il suo andamento è soprattutto influenzato dal rapido declino demografico e dall’andata in quiescenza nei prossimi vent’anni delle ancor popolose generazioni nate negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Purtroppo, mentre le stime sulla crescita economica e sui tassi di interesse nel lungo periodo sono caratterizzate da ampi margini di incertezza, quelle demografiche tendono a essere più affidabili, in quanto basate sulle generazioni attualmente viventi, sulla loro speranza di vita e sui loro comportamenti riproduttivi. Non a caso, il Def conclude che “la transizione demografica è una delle sfide più rilevanti che l’Italia dovrà affrontare nel corso dei prossimi decenni”.

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Crisi demografica UE, nascite a picco. Ecco come provare a invertire la rotta

Nessun paese in Europa presenta un tasso di fecondità sufficiente a garantire un equilibrio nel rapporto tra generazioni. Nel 2010 si avvicinavano a tale livello (attorno ai 2 figli per donna) Francia, Svezia e Irlanda. Nel 2019 – prima dei travagliati anni della pandemia e della guerra – tali paesi risultavano tutti scesi sotto. Il valore più alto alla fine del decennio scorso è rimasto comunque quello francese (pari a 1,87, con Svezia e Irlanda scese a 1,71). Anche Stati Uniti e Australia hanno avuto un andamento simile.

All’Italia resta un decennio per tornare a 500mila nascite. Poi sarà troppo tardi

Se le nascite in Italia proseguissero il percorso di diminuzione con il ritmo osservato nel decennio scorso (a cui si è poi aggiunta l’incertezza della pandemia) ci troveremmo ad entrare nella seconda metà di questo secolo con reparti di maternità del tutto vuoti. Lo scenario di zero nati nel 2050 difficilmente verrà effettivamente osservato – le dinamiche reali sono più complesse di una semplice estrapolazione – i dati però ci dicono che alto (oltre il livello di guardia) è diventato il rischio di un processo di declino continuo della natalità.

Contro gli squilibri demografici serve la qualità del nuovo lavoro

Alla base del mondo che cambia c’è il rinnovo generazionale. I meccanismi e le modalità di tale rinnovo hanno però, ancor più, ricadute cruciali sulla capacità di produrre benessere e sviluppo nelle società mature avanzate.

Per lunga parte della storia dell’umanità l’avvicendarsi delle generazioni è avvenuto in modo del tutto naturale ma anche molto dispersivo, con elevati rischi di morte compensati da un’elevata fecondità. Se nel passato la questione del ricambio generazionale non era esplicitamente posta, ancor meno lo è stata nella fase centrale della transizione demografica. In tale fase, la riduzione della mortalità precoce, in combinazione con numero di figli ancora superiore a due, ha anzi rafforzato la presenza delle nuove generazioni sia nella società che nell’economia.

Solo verso la fine degli anni Settanta la fecondità italiana è scesa sotto la soglia di equilibrio nel rapporto tra generazioni, ovvero sotto i due figli. E’ precipitata poi sotto 1,5 verso la metà degli anni Ottanta. Questo significa che il rinnovo generazionale debole è un fenomeno molto recente, che inizia a fare sentire i suoi effetti quando le generazioni nate dalla fine degli anni Ottanta in poi fanno il loro ingresso nella vita adulta. Ciò è avvenuto in concomitanza con profondi cambiamenti qualitativi che hanno complicato l’entrata stabile nel mercato del lavoro, da un lato, e con l’impatto negativo della Grande recessione, dall’altro. Le difficoltà specifiche incontrate nella transizione scuola-lavoro e di conciliazione tra vita e lavoro, trovano riscontro nel fatto che poco prima dell’impatto di una nuova crisi, causata dalla pandemia di Covid-19, il nostro paese si trovava a presentare livelli tra i più alti in Europa di Neet (under 35 che non studiano e non lavorano) e più bassi di occupazione femminile. Con conseguenti freni anche all’autonomia giovanile, alla formazione di nuove unioni, alla natalità.

Negli anni Dieci di questo secolo il centro della vita attiva del paese era ancora solidamente presidiato, in ogni caso, dalle generazioni demograficamente consistente dei primi tre decenni del secondo dopoguerra. Le ricadute maggiori del rinnovo generazionale debole nel mondo del lavoro sono, quindi, destinate a farsi sentire soprattutto nei prossimi decenni. Per farsene un’idea proviamo a confrontare il percorso di due diverse coorti: chi oggi ha 57 anni e chi ne ha 27. La prima generazione, nata nel 1965 quanto la natalità era ancora elevata, conta quasi un milione di persone. Ha svolto la parte centrale della sua vita attiva con un tasso di dipendenza degli anziani – indicatore che misura gli squilibri strutturali nel rapporto tra generazioni in età lavorativa e in età da pensione – inferiore al 35 percento.

La consistenza demografica di chi ha 27 anni, ovvero i nati nel 1995, è drasticamente più bassa, sotto le 600 mila unità. Tale coorte avrà 37 anni nel 2032, 47 anni nel 2042, 57 nel 2052. Vivrà la fase centrale della sua vita attiva in un paese in cui il tasso di dipendenza degli anziani in tali tre punti temporali salirà (secondo lo scenario mediano Istat) al 47%, poi al 62%, e infine al 66%.

Per arricchire il quadro va notato che mentre tutte le età nella fascia matura e anziana hanno sinora avuto una consistenza numerica inferiore rispetto a chi era in età lavorativa, questo requisito di stabilità strutturale verrà perso. Tanto per fare un esempio, gli attuali 77enni sono circa 500 mila e nessuna età tra i 15 e i 64 anni presenta valori inferiori. Nel 2042 saliranno però oltre 820 mila diventando dominanti su tutte le età sotto i 65 anni. Nel 2052 i 77 anni saranno addirittura, in assoluto, l’età più popolosa del Paese.

Questo significa che chi ha meno di 35 anni oggi farà l’inedita e complicata esperienza di vedere evolvere la propria vita lavorativa e professionale in un paese in cui le età con peso demografico più rilevante si troveranno nella fascia anziana. Avrà il compito di far crescere dal punto di vista economico e rendere sostenibile come spesa sociale, un paese con alto debito pubblico e accentuati squilibri strutturali, dovendo anche pensare al proprio futuro previdenziale.

Potrà giocarsi la possibilità di riuscirci solo se il sistema Italia saprà rispondere all’indebolimento del rinnovo generazionale nel mercato del lavoro – anche sulla spinta delle riforme previste nel PNRR – con un effettivo potenziamento qualitativo dei percorsi professionali (maschili e femminili) a partire dalla età più giovani e lungo tutto il corso di vita.

Italia senza figli. Nascite in picchiata.

Possiamo dividere la crisi demografica italiana, una delle più durature e accentuate al mondo, in tre diverse fasi. La prima si colloca temporalmente tra metà degli anni Settanta e metà degli anni Novanta, periodo nel quale la fecondità da livelli superiori alla media europea è scesa a valori tra i più bassi di tutto il pianeta. L’Italia arriva più tardi rispetto al resto dell’Europa occidentale a portare il numero medio di figli sotto la soglia dei due figli per donna, ma quando scende lo fa in modo drastico. Il dato scende definitivamente sotto 1,5 nel 1984 e prosegue al ribasso fin sotto 1,2 nel 1995. In questa fase il nostro paese passa da un numero totale di nascite di quantità analoga alla Francia, oltre 750 mila, a meno di 550 mila. Tanto per farsi un’idea delle ricadute sulla popolazione di tali dinamiche, mentre gli over 40 dei due paesi hanno sostanzialmente la stessa dimensione demografica, in Italia la fascia 20-39 conta oltre 2,5 milioni in meno rispetto ai coetanei d’oltralpe. Dati che ben evidenziano il processo di “degiovanimento” italiano determinato dalla persistente denatalità.