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Italia senza figli. Nascite in picchiata.

Possiamo dividere la crisi demografica italiana, una delle più durature e accentuate al mondo, in tre diverse fasi. La prima si colloca temporalmente tra metà degli anni Settanta e metà degli anni Novanta, periodo nel quale la fecondità da livelli superiori alla media europea è scesa a valori tra i più bassi di tutto il pianeta. L’Italia arriva più tardi rispetto al resto dell’Europa occidentale a portare il numero medio di figli sotto la soglia dei due figli per donna, ma quando scende lo fa in modo drastico. Il dato scende definitivamente sotto 1,5 nel 1984 e prosegue al ribasso fin sotto 1,2 nel 1995. In questa fase il nostro paese passa da un numero totale di nascite di quantità analoga alla Francia, oltre 750 mila, a meno di 550 mila. Tanto per farsi un’idea delle ricadute sulla popolazione di tali dinamiche, mentre gli over 40 dei due paesi hanno sostanzialmente la stessa dimensione demografica, in Italia la fascia 20-39 conta oltre 2,5 milioni in meno rispetto ai coetanei d’oltralpe. Dati che ben evidenziano il processo di “degiovanimento” italiano determinato dalla persistente denatalità.

Le proiezioni demografiche e la necessità di rafforzare lo sguardo strategico verso il futuro

Le proiezioni demografiche sono diventate un esercizio molto avanzato e scientificamente stimolante sul versante statistico-metodologico. Molto apprezzabile è, inoltre, lo sforzo dell’Istat nell’ultima edizione di includere anche l’evoluzione delle strutture familiari. E’ però utile chiedersi se alla spinta tecnica in avanti ha corrisposto un miglioramento sostanziale rispetto alla capacità (mi riferisco, qui, a tutta la comunità scientifica) di cogliere il cambiamento demografico e delineare scenari affidabili di riferimento. Dobbiamo riconoscere che su questo aspetto qualche dubbio è legittimo.

(P)revisioni al ribasso
Se guardiamo alle edizioni precedenti notiamo che le proiezioni hanno contemplato una fecondità del Sud in discesa sotto i livelli del Nord solo dopo che il fatto si era verificato. La popolazione italiana ha iniziato a diminuire vari decenni prima rispetto agli scenari previsivi in quel momento disponibili (non solo Istat, ma anche Eurostat e Nazioni Unite). Altro elemento che ben esprime le difficoltà a cogliere le trasformazioni in corso di fronte a dinamiche molto peggiori delle attese, è il ribaltamento tra la situazione delle proiezioni con base 2011 in cui si escludeva che entro il 2050 le nascite potessero scendere sotto le 500 mila (cosa che invece è accaduta pochi anni dopo) e l’ultima edizione che al contrario in nessun caso prevede, nello stesso orizzonte temporale, la possibilità di tornare sopra 500 mila.

L’ultima edizione, con base 2020 – forse come conseguenza dell’essersi trovati negli esercizi precedenti a rincorrere una realtà che portava ad una continua revisione al ribasso – va a delineare un quadro particolarmente depresso. Nello scenario mediano si arriverebbe a riportarsi sul numero di nascite del 2019 (il dato più negativo di sempre prima della pandemia, pari a 420 mila) solo nel 2035, per poi discendere nuovamente. E’, di fatto, la presa d’atto di una crisi demografica irreversibile destinata a consolidare il nostro Paese nelle posizioni peggiori in Europa in termini di squilibri strutturali.

Quadro demografico tragico. Ultimo appello per cambiare

Per farsi un’idea di come la combinazione tra le dinamiche negative del decennio scorso (dopo l’impatto dalla Grande recessione) e gli effetti della pandemia abbiamo cambiato profondamento in negativo un quadro già problematico, basti pensare che nel report di presentazione delle previsioni con base 2011 si trovava scritto che, considerate le ipotesi più plausibili, «le nascite non scenderebbero mai sotto la soglia delle 500 mila unità». Nell’edizione appena rilasciata dall’Istat la situazione si è del tutto capovolta: in nessuno degli scenari delineati la curva delle nascite riuscirebbe a risalire sopra le 500 mila, quantomeno fino all’orizzonte del 2065. Nello scenario mediano, quello preso come riferimento, si arriverebbe solo tra quindici anni a riportarsi ai livelli pre-pandemia (i 420 mila nati osservati nel 2019) ma per poi tornare a diminuire. Insomma si configura, secondo l’Istat, una ripresa modesta della natalità che non inverte per nulla la tendenza negativa dell’ultimo decennio. Nello scenario peggiore – che nelle previsioni Istat delle edizioni precedenti si è rivelato però quello più affidabile – entro la metà del secolo la curva delle nascite andrebbe addirittura a inabissarsi sotto le 300 mila.

Il dato più preoccupante non è il declino della popolazione in sé, ma l’essere diventati il paese nel quale con più intensità la popolazione anziana e quella giovanile evolvono in direzione opposta, la prima in forte aumento e la seconda in sensibile contrazione. Questi squilibri tra generazioni, già da tempo tra i peggiori al mondo, anziché contenerli li abbiamo lasciati allargare con il crollo continuo, appunto, della natalità e i limiti nella capacità di gestire in modo positivo i flussi migratori.

Il dato su cui concentrare l’attenzione è soprattutto il rapporto tra ultra65enni e popolazione attiva (indice di dipendenza degli anziani). Su questo indicatore è interessante il confronto con la Svezia e la Germania. Negli anni Novanta la Svezia era tra i paesi con valore peggiore di tale rapporto. Grazie però a politiche familiari mirate è riuscita a risollevare il tasso di fecondità (da 1,5 figli nel 1998 a quasi e nel 2010) e a porsi come uno dei paesi europei con minor peggioramento degli squilibri strutturali. La Germania fino al primo decennio di questo secolo presentava dati demografici analoghi all’Italia, ma grazie ad un solido pacchetto di misure di sostegno alla natalità ha successivamente invertito la tendenza ed ora presenta prospettive di evoluzione futura meno compromesse: il rapporto tra persone di 65 anni e oltre sulla popolazione tra i 15 e i 64, secondo le proiezioni Eurostat con base 2019, è destinato a rimanere all’orizzonte del 2060 sotto il 50 percento in Germania ed invece a superare il 60 percento in Italia.

A parità di altre condizioni, nei prossimi decenni ci troveremo sempre di più con un quadro demografico che renderà più difficile per il nostro paese crescere, innovare, alimentare benessere e sviluppo sostenibile, garantire risorse adeguate al sistema di welfare pubblico. Tanto più se gravati anche da un enorme debito pubblico.

L’unica nota positiva è il fatto che queste proiezioni sono state rilasciate prima ancora di valutare l’effettivo rilancio dell’Italia nel post pandemia. Non sappiamo ancora quanto la discontinuità della crisi sanitaria potrà dare consapevolezza nel paese sui limiti del passato e favorire un cambio di atteggiamento verso il futuro. Non è ancora chiaro l’impulso che potrà arrivare dal Piano nazionale di ripresa e resilienza che mette in campo risorse del tutto inedite rispetto al passato. Non abbiamo ancora evidenze sul ruolo che potranno avere le misure inserite nel Family act, un pacchetto di politiche familiari integrate che rappresenta una novità per l’Italia. La combinazione positiva di tutti questi fattori può ancora fare la differenza. Incarichiamoci di dimostrarlo prima di rassegnarci definitivamente.

Rendere il nido un effettivo diritto per tutti

Se la bassa fecondità può essere dovuta a vari motivi, nei contesti con alta occupazione femminile e fecondità vicina ai due figli per donna difficilmente manca una solida e accessibile offerta dei nidi. Si tratta quindi di una condizione (non sufficiente ma) necessaria nei paesi che vogliano sostenere al rialzo l’investimento sul lavoro, sia di uomini che di donne, e la realizzazione del numero desiderato di figli. Oltre a rispondere alla domanda di conciliazione i servizi per l’infanzia rivestono (ancor più) una funzione cruciale per lo sviluppo socio-educativo delle persone a partire dalla nascita.