Giovani in movimento: una generazione che non vuole sentirsi irrilevante nel proprio tempo

Le piazze che si sono riempite recentemente in Paesi tra loro lontani – dal Nepal al Marocco, dal Madagascar al Perù – raccontano la stessa storia di fondo: quella di una generazione che rifiuta di sentirsi irrilevante, che chiede di contare e di essere riconosciuta come soggetto attivo nel determinare il proprio futuro.

Il doppio esodo che minaccia il futuro dell’Italia

Il futuro dell’Italia dipende dalla capacità di rigenerare la popolazione nelle età più produttive e fertili. Se non riuscirà a farlo, il Paese dovrà affrontare costi sempre più gravosi legati all’invecchiamento e al debito pubblico su basi demografiche sempre più fragili. Nel testo della recente Audizione dell’INAPP alla Commissione parlamentare d’inchiesta sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica, si afferma che “In soli dieci anni usciranno dal lavoro circa 6,1 milioni di italiani: un esodo generazionale che rischia di lasciare il Paese senza ricambio e di mettere in crisi la tenuta del welfare”. Il Presidente dell’INAPP, Natale Forlani, ha inoltre ribadito che “la dinamica è già visibile oggi: indice di dipendenza demografica in crescita, carenza di competenze e difficoltà nel reperimento di personale, spesa pensionistica in aumento fino al 17% del PIL entro il 2040, e oltre 4 milioni di over 65 non autosufficienti che richiedono assistenza continuativa”.

Il Capitale Civico da non sprecare

Se c’è una costante che attraversa tutte le generazioni e che non è certo diminuita nei giovani di oggi, è il desiderio di contare, di poter fare la differenza, di sentirsi parte attiva di un mondo che cambia e migliora con le loro idee e la loro azione. A cambiare è la realtà con cui si confrontano, le sfide del proprio tempo, le condizioni in cui si trovano, le modalità di partecipazione.

I futuri genitori preferiscono davvero avere figlie femmine?

Lo rivelano i dati sulle cosiddette “ragazze mancanti” (il numero di aborti in base al sesso), passati da 806 mila nel 2000 a 107 mila nel 2025, pubblicati di recente dal Times. E i sondaggi sui genitori europei.

Nelle società patriarcali del passato, un figlio maschio era essenziale per motivi economici e simbolici. Garantiva braccia per il lavoro nei campi o nelle botteghe artigiane, assicurava la continuità del nome della famiglia e forniva sostegno materiale ai genitori in vecchiaia. Il mestiere si trasmetteva di padre in figlio, così come la casa e i beni. Anche le casate nobiliari avevano bisogno di un erede maschio per tramandare titoli e patrimoni. Quel mondo non esiste più.

Il diritto alla pensione non dipende dall’avere figli, mentre è cresciuto il costo del loro mantenimento. L’equiparazione dei diritti ha posto fine anche al monopolio del cognome paterno: in Italia, come in molti altri Paesi, i nuovi nati possono ricevere entrambi i cognomi dei genitori o di uno dei due. Il vantaggio di avere un figlio maschio è quindi svanito e sembra farsi strada una preferenza verso le figlie femmine. Molti genitori le considerano più facili da crescere, perché in media vanno meglio a scuola, sono più collaborative e responsabili, anche se non sempre è così. Tendono, inoltre, a lasciare prima la famiglia di origine, ma mantengono legami più intensi con i genitori, offrendo maggiore sostegno emotivo e un contributo più rilevante nella cura di madri e padri anziani.

Verso una società della longevità inclusiva e sostenibile

A fronte di molti indicatori di sviluppo e benessere che ci vedono nelle posizioni più scomode in Europa, ce n’è almeno uno che si distingue in positivo, è l’aspettativa di vita. Eppure sembriamo far di tutto per renderlo un aspetto negativo. Che gli italiani siano uno dei popoli più longevi è certificato dai più recenti dati Eurostat. La durata media di vita è salita a 81,7 anni secondo i dati preliminari del 2024, con un guadagno di o,3 anni rispetto al 2023. L’impatto della pandemia di Covid-19 è stato completamente superato e le dinamiche degli ultimi anni sono tornate in linea con quelle pre-crisi. Ancor meglio fa l’Italia, la quale si colloca sopra gli 84 anni. Le previsioni Istat in tutti gli scenari considerati contempla un proseguimento del miglioramento. La questione centrale è però la qualità.